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“Non lasciare nessuno indietro”, formula che resta priva di risultati

"Families are relocated because of flooding and landslides in Balukhali Rohingya refugee camp in Cox's Bazar, Bangladesh", da Bangladesh, 2019 - Humanitarian response, Rohingya refugee crisis, UN Women/Allison Joyce, in licenza CC/Flickr.

Nel settembre 2015, le Nazioni Unite riunivano i leader internazionali per parlare di sviluppo globale, promozione del benessere umano e protezione dell’ambiente. L’Agenda 2030, con i suoi 17 Obiettiviinterconnessi e indivisibili” per le Persone, il Pianeta, la Prosperità e la Pace, siglava la promessa del “Non lasciare nessuno indietro”.

Meno di un decennio dall’anno zero, e la lotta contro fame, povertà, cambiamenti climatici, disuguaglianze sociali e di genere, per il riconoscimento e la piena realizzazione dei diritti umani di tutti, è ancora molto lontana dall’esser vinta.

A fotografare i contorni di un fallimento è l’edizione 2021 della classifica globale sul livello di inclusione di donne e bambini, che periodicamente monitora le condizioni di vita delle cosiddette categorie vulnerabili in 172 Paesi del mondo in relazione a 34 indicatori ambientali, sociali, educativi, economici e di salute.

Si correva già troppo lentamente sul cammino tracciato da quella che l’ex segretario generale Onu Ban Ki-Moon definiva “una visione universale, integrata e trasformativa per un mondo migliore”, prima che la pandemia da Covid-19 insieme alle sempre più vaste e frequenti crisi ambientali e umanitarie ci si abbattessero contro. Oggi la situazione è più che mai critica, con i progressi degli ultimi anni quasi vanificati e le disuguaglianze tra Paesi e categorie sociali in vertiginoso aumento.

“Donne e bambini in fila per l’acqua. Campo profughi di Jamam, Sud Sudan”, da Oxfam International, di John Ferguson, in licenza CC/Flickr

Rispetto all’anno passato, nessun grande cambiamento si registra nel divario sempre crescente tra il Nord e il Sud del mondo in quanto a diritti e partecipazione della popolazione femminile e infantile (nonostante tutti i “per tutti” che si ripetono per le 35 pagine della risoluzione che voleva “Trasformare il nostro mondo”). L’Indice continua infatti a censire i valori più allarmanti tra Repubblica Centrafricana, Sud Sudan e Ciad; con Nord Europa, Nuova Zelanda e Svizzera a mantenere le posizioni di vertice.

Tuttavia, i dati principali ci raccontano di un 2021 che apre a un nuovo decennio di povertà e disuguaglianze”. La ferma denuncia di WeWorld, l’organizzazione italiana da 50 anni impegnata nella difesa dei diritti di donne e minori, curatrice dello studio, non lascia dubbi. È tempo di brusche frenate e netti peggioramenti anche per quelli che erano finora stati percorsi positivi verso i traguardi segnati dall’Agenda.

Se non agiamo globalmente con politiche e interventi che facciano crescere anche i Paesi più fragili, il processo per l’acquisizione, godimento dei diritti e accesso ai servizi non potrà essere che parziale e temporaneo, escludendo i Paesi più poveri”, ha dichiarato il presidente Marco Chiesara.

Osservati speciali sono Brasile e Mozambico. Il primo è stato trascinato dal 54° al 92° posto a causa della pandemia e, già prima, dell’abbandono istituzionale delle frange sociali più a rischio. I miglioramenti costantemente conquistati dal secondo, che nel 2015 stava al 145° posto e oggi occupa il 140°, hanno invece subito un drastico rallentamento al passaggio del ciclone Idai.

Chiesara li descrive quali casi emblematici di quanto “se non si lavora su tutti i fronti contemporaneamente, i progressi si possono perdere molto rapidamente. Se non operiamo in modo olistico, basta un solo evento critico [..] per vanificare gli sforzi compiuti e per far retrocedere tutti i diritti, dall’istruzione alla salute”.

Venendo ai numeri, quelli lasciati sul tavolo a conclusione dell’indagine sono da far tremare i polsi. A livello globale, nel 2020, tra 119 e 124 milioni di persone in più dell’anno precedente hanno raggiunto livelli di povertà estrema, mentre tra 70 e 161 milioni hanno scoperto e sofferto la fame con 255 milioni di posti di lavoro a tempo pieno andati persi.

Ma l’impatto delle crisi, si sa, non è mai neutrale. E la pandemia, in tal senso, non ha rappresentato un’eccezione. Ovunque, le conseguenze dello stallo provocato dal dilagare dell’infezione da Sars-Cov-2 sono servite a esacerbare disparità di genere e generazionali preesistenti.

Se prima che il pianeta intero fosse costretto al lockdown si temeva che in 200 milioni sarebbero rimasti fuori dalle scuole nel 2030, oggi si contano 258 milioni di bambini, oltre la metà dei quali vive nell’Africa sub- sahariana, negati del diritto a un’istruzione adeguata, equa e sicura. Per la fine di quest’anno, 435 milioni di donne vivranno sotto la soglia di povertà. E le vittime di sfruttamento del lavoro minorile potrebbero crescere di 8,9 milioni entro il 2022, più della metà dei casi coinvolgerà bambini tra i 5 e gli 11 anni.

Non solo il Covid-19. Altrettanto devastante – sottolinea la ricerca con un focus dedicato – è il cambiamento climatico, che nel 2030 costringerà 150 milioni di vite a dipendere dagli aiuti umanitari. Saranno 50 milioni in più rispetto ad oggi.

Non tradendo alcuna delle previsioni sul tema, “il cambiamento climatico sta moltiplicando alcuni problemi globali come la povertà, la scarsità di cibo e acqua e i conflitti per il controllo delle risorse, senza pensare che esso sarà anche la principale causa delle migrazioni, visto che circa il 40% della popolazione mondiale, 3 miliardi di esseri umani, vive in aree colpite dal fenomeno”, ha spiegato Marina Sereni, vice-ministra per gli Affari Esteri e la Cooperazione Internazionale, intervenendo all’evento di presentazione del settimo WeWorld Index.

“Emergenza acqua”, di MrGauravBhosle, in licenza CC/WikimediaCommons

Il quadro presentato dagli esperti per il prossimo futuro è assai preoccupante, e include, tra gli altri, un miliardo e mezzo di persone in più senza accesso all’acqua per via del riscaldamento globale entro il 2050 se proseguiremo al ritmo attuale.

Intanto, l’inquinamento atmosferico è ormai il quarto principale fattore di rischio di morte con quasi 7 milioni di vittime l’anno. E disastri ed eventi meteorologici estremi hanno prodotto da soli 30,7 milioni di nuovi sfollati interni nel 2020, a fronte dei 9,8 milioni generati da conflitti e contesti di generalizzata violenza. Si tratta di un’incidenza del 75%, giusto per dare l’idea delle dimensioni e delle implicazioni della questione.

Si afferma con forza anche dalla prospettiva ambientale la realtà della distribuzione sproporzionata degli effetti funesti della crisi, che gravano quasi esclusivamente sulle popolazioni che meno contribuiscono a determinarla. Se i primi sei emettitori di gas serra sono Cina, USA, Unione Europea, compreso il Regno Unito, India, Russia e Giappone, le aree già tormentate dalla povertà cronica, in particolare le zone costiere dell’Asia meridionale, le regioni desertiche dell’Africa sub–sahariana, e gli Stati insulari in via di sviluppo, sono quelle più ferite dalle calamità naturali.

In prima linea, un’altra volta, donne e bambini. La metà dei bambini del mondo vive in uno dei 33 Paesi classificati “a rischio estremamente alto” per l’impatto del cambiamento climatico, e 2 miliardi di bambini sono esposti a livelli di inquinamento dell’aria ben oltre i limiti stabiliti dall’Organizzazione mondiale della sanità. Su chi non ha ancora compiuto i 5 anni – rileva il dossier – pesa il 90% del carico globale di malattie associate al cambiamento climatico, e un bambino su quattro muore prima di aver l’età da scuola per aver vissuto in ambienti malsani.

Per le donne le probabilità di restare uccise o ferite durante un evento disastroso sono 14 volte maggiori che per gli uomini, e il deterioramento delle risorse naturali indispensabili alla sussistenza propria o delle famiglie, accompagnato dalla minore possibilità di spostarsi, le costringe troppo spesso a ricorrere a pratiche non sostenibili dal punto di vista ambientale e gravemente dannose per la loro salute. Anche tra gli sfollati, sono loro a correre i rischi maggiori per il benessere psico-fisico attuale e futuro.

Infine, dallo studio emerge prepotentemente l’equazione per cui in contesti di crisi umanitarie e ambientali, nell’aggravarsi delle condizioni di fragilità sociale ed economica delle comunità cui appartengono, donne e bambini sono i più colpiti anche dalle conseguenze indirette e di lungo periodo. Marginalizzazione e discriminazioni li rendono particolarmente vulnerabili a violenza fisica e sessuale, malattie e malnutrizione, privazione ​​dei beni essenziali, lesione dei diritti umani fondamentali, con un pericolo tremendamente elevato di rimanere vittime di matrimoni forzati e sfruttamento in ogni sua forma.

C’è tanto, troppo ancora da fare. “Ma perché il cambiamento sia reale, gli interventi devono puntare su un approccio di genere e generazionale, in modo che la crescita non sia solo appannaggio di chi già gode di maggiori risorse”, ha tenuto a precisare Chiesara a proposito dell’urgenza di passare dalla promozione dei diritti alla loro attuazione.

Per il 2030 “nessuno sarà lasciato indietro”, dicevano. A guardare il punto in cui siamo, mancheremo la scadenza.

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