27 Aprile 2024

Respinti dall’Italia, profughi nel Sinai. Intervista a Roberto Malini (Everyone Group)

Con l’arrivo dei barconi di profughi dalla Tunisia è tornata d’attualità la cosiddetta ‘emergenza sbarchi’. Come ben espresso da Andrea Segre, l’emergenza deriva però in gran parte da una strategia basata su accordi con i regimi dittatoriali del Maghreb e dalla progressiva privazione dei sistemi di accoglienza, anche nell’inosservanza delle direttive europee e della Convenzione di Ginevra.

L’illegittimo respingimento di profughi che cercano di sbarcare in Italia è un fatto gravissimo che può comportare indescrivibili odissee per i respinti: è questo il caso ad esempio dei 250 profughi africani ed eritrei ancora nelle mani dei trafficanti di uomini nella penisola del Sinai, dominata da bande islamiche sempre più agguerrite nell’instabile Egitto post-Mubarak.
Tematiche sempre più cruciali e globali, su cui abbiamo intervistato Roberto Malini, fondatore dell’Everyone Group, Ong che conduce da tempo una campagna a sostegno di questo gruppo di profughi insieme agli attivisti di Noirpink.

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Ci puoi raccontare come ha avuto inizio l’odissea dei profughi africani attualmente prigionieri in Sinai? Come è nata la vostra campagna di sostegno e qual è la situazione di queste persone oggi?

Tutto è cominciato con i respingimenti dall’Italia di alcuni barconi nel corso del 2009 e del 2010: siamo riusciti a entrare in contatto con questi profughi, anche grazie al sacerdote Mussie Zerai dell’agenzia eritrea Habeshia, e abbiamo vissuto le loro peripezie: dal tentato arrivo per chiedere asilo in Italia al respingimento in suolo libico. In Libia, molti di questi 250 profughi in gran parte eritrei [recentemente in parte liberati a Rafah, ndr] sono finiti in carcere, dove hanno subìto maltrattamenti e torture, e alcuni di loro la deportazione in Eritrea; un’ottantina, grazie anche a una campagna internazionale promossa dall’Everyone Group sono stati liberati e gli è stato concesso in Libia un permesso di soggiorno di tre mesi. In questo periodo non hanno potuto trovare lavoro né fare nient’altro perché era un permesso puro e semplice, senza alcun diritto reale: hanno avuto diritto a tre mesi, entro i quali dovevano trovare il modo di andarsene da qualche parte.

Essendo chiuse le frontiere dell’Europa questi rifugiati hanno deciso di intraprendere la via verso Israele, unico Stato democratico in cui pensavano di poter trovare rifugio. Si sono affidati ad alcuni trafficanti di una tribù beduina per entrare dalla Libia in Egitto e quindi, attraverso il Sinai, questi primi trafficanti hanno ceduto il gruppo di profughi a una seconda tribù di trafficanti. L’entrata in Egitto è costata loro 2.000 dollari procapite; la successiva tribù di trafficanti ha chiesto 10.000 dollari procapite. Sono stati quindi chiusi in vere e proprie prigioni, all’interno di proprietà private, in container metallici incatenati mani e piedi e torturati o maltrattati anche per far sì che i parenti all’estero pagassero queste cifre enormi. Di fronte ad alcune morti (8 persone assassinate dai predoni con colpi di pistola o a bastonate), a torture, mutilazioni, stupri delle ragazze, i parenti si sono dati da fare in ogni modo per inviare queste cifre. Via via, alcuni contingenti di profughi sono stati poi condotti al confine con Israele dove spesso sono stati arrestati dalla polizia egiziana, mentre qualcuno è invece riuscito a raggiungere lo Stato di Israele.

Sappiamo che tra i profughi africani è di particolare gravità il caso degli eritrei, ci puoi spiegare perché?

Le bande di trafficanti hanno un’etica di questo tipo: i cristiani vanno trattati peggio dei musulmani, in quanto infedeli, e gli eritrei in fuga dal loro Paese sono in gran parte cristiani, molto giovani: costoro hanno subìto le condizioni peggiori. Ad esempio, agli eritrei cristiani vengono chiesti 10.000 dollari, mentre ai musulmani vengono chiesti 3.000 dollari, ai sudanesi 2.000, c’è quindi anche una differenza di riscatto.

Qual è stata l’evoluzione della campagna internazionale che avete lanciato? Che tipo di risultati avete ottenuto, siete soddisfatti?

La campagna si è svolta in più fasi. C’è n’è una che continuerà sempre, quella di riaprire le frontiere ai rifugiati in Europa secondo la Convenzione di Ginevra. Perché tutto il problema nasce da questo: quando non si rispetta la Convenzione accadono eventi che sono patologici. La seconda fase della campagna riguardava invece il fatto che esistono traffici, esistono campi di prigionia in cui vengono detenuti dei migranti: abbiamo quindi chiesto ai governi interessati da questi traffici di agire, di opporsi a queste bande di trafficanti,di liberare i profughi ed evitare la ripetizione indefinita di tali traffici. E abbiamo ottenuto risposta sia dal governo egiziano che da quello israeliano. Oltre che ai governi, la campagna è stata poi rivolta all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, che ha risposto sia dalla sede di Ginevra con Antonio Gutierrez sia dalla sede italiana con Laura Boldrini, che ha portato avanti un’eccezionale opera di relazioni, e al Parlamento Europeo, che ci ha risposto nella persona di Rui Tavares – il rapporteur dell’UE sul reinsediamento dei profughi. Nella sostanza, però, azioni reali contro i trafficanti per liberare i profughi non ce ne sono state.

L’effetto dunque qual è stato? Innanzitutto è successo che finalmente si è parlato in tutti questi Stati e a livello internazionale di questo traffico, è stata adottata una risoluzione europea, sono state comminate ammonizioni ufficiali e avviati procedimenti giuridici internazionali per combattere il traffico di esseri umani. Contemporaneamente abbiamo rilanciato un problema sostanziale, che è il reinsediamento dei profughi nell’Unione Europea. Perché ci sono migliaia di profughi in Israele, che è uno Stato molto piccolo, i quali non volevano andare in Israele ma in Europa. Il fatto che siano arrivati in Israele è dovuto a motivi di forza maggiore. Noi chiediamo – e l’Europa di fatto è d’accordo su questo, ne parlerà il 28 febbraio in una riunione plenaria – di consentire che quote di migranti vengano cedute a Israele e all’Egitto in modo che i profughi detenuti nelle carceri in attesa di deportazione verso i Paesi dove rischierebbero persecuzioni vengano invece trasferiti, com’era loro intenzione originaria, nei vari Stati dell’UE. In questo modo si eviterebbe il sovraffollamento di profughi in Stati che non hanno capienza sufficiente per accoglierli tutti, il rispetto della Convenzione di Ginevra e ovviamente la redistribuzione di questi profughi nei Paesi in cui avrebbero voluto andare.

Questi gli scenari per chi è già riuscito a passare il confine. Invece per chi è ancora in Sinai la situazione si è resa ulteriormente complessa, dato l’emergere delle forze islamiste nella penisola a seguito delle rivolte anti-Mubarak e dell’attuale situazione di instabilità. Quali sono gli ultimi aggiornamenti?

Alcuni dei gruppi sono già stati liberati, noi sappiamo che il gruppo di Rafah, di cui abbiamo parlato all’inizio, si trova in gran parte nelle carceri egiziane e in parte minore in Israele. La pressione internazionale ha sicuramente fatto sì che i predoni chiedessero meno di quanto fosse il loro intento iniziale: i profughi sono quindi stati liberati a cifre inferiori rispetto a quella standard di 10.000 dollari. Però rimane il fatto che in questo momento la situazione, soprattutto nel Nord del Sinai, è veramente disperata, perché c’è una confusione totale a livello di istituzioni, a fronte di un potere molto forte che è quello delle bande di trafficanti legate al terrorismo internazionale, che contano su decine di milioni di euro ogni anno di ricavato solo per quanto riguarda il traffico di esseri umani, oltre al ricavato di quello di armi e droghe pesanti. Vengono definiti dagli analisti la “mafia islamica” e il Sinai è in mano alla mafia islamica. Non che gli islamici siano mafiosi, ma ce n’è una parte che è terrorista e mafiosa, e collegata al fondamentalismo islamico che si finanzia attraverso questi traffici. E’ questo il problema che affligge il Nord del Sinai e non bastano le forze di polizia attualmente impegnate a fronteggiarlo, anche perché ci sono gli accordi di Camp David con Israele che non consentono agli agenti di dotarsi di armamenti pesanti.

Per concludere, come vedi la situazione italiana, con particolare riferimento alla situazione dei rifugiati, e anche alla luce dei recenti sbarchi a Lampedusa?

Purtroppo l’Italia è in questo momento un esempio di cattiva politica sull’immigrazione e di mancato rispetto – riconosciuto a livello internazionale – della Convenzione di Ginevra. Le politiche sono orientate esclusivamente al rifiuto dei profughi e mirate a una cattiva esistenza dei rifugiati sul suolo italiano. Abbiamo esempi che vanno sia dai piccoli paesi, come San Lupo, dove sono stati spesi 2 milioni di euro eppure i trenta rifugiati che vi risiedono vivono come mendicanti, a Torino, Roma, Milano, dove chi ha lo status di rifugiato vive in condizioni davvero disperate e come persona assolutamente sgradita nel nostro territorio. L’immigrazione che arriva dalla Tunisia viene affrontata nella stessa maniera, per cui abbiamo condotto una campagna molto continua e molto attenta per far riaprire il Centro d’accoglienza di Lampedusa: finalmente oggi [13 febbraio] il ministro Maroni ne ha dichiarato la riapertura, però si è cercato di tenerlo chiuso. C’è poi stato il tentativo attraverso una riunione del Consiglio dei Ministri di trovare formule per aggirare la Convenzione di Ginevra. Il ministro Maroni sembra peraltro non capire che a volte i rifugiati si accolgono nel proprio Paese per un periodo e, quando torna una situazione politica accettabile nel luogo da cui sono fuggiti, esiste il rientro. Non è che stiano arrivando migliaia di tunisini per sempre, semplicemente arrivano in Italia sui barconi dei profughi che rischiano la vita per scappare da una situazione invivibile: noi dobbiamo accoglierli, con l’aiuto dell’Alto Commissario per i Rifugiati e con le strutture italiane, oltre che con l’aiuto dell’Europa; tra l’altro, Maroni ha detto che l’Europa non ci aiuta ma oggi l’UE ha affermato il contrario, per cui anche questa affermazione è pretestuosa.

Dobbiamo imparare a capire che la civiltà umana non può che dedicare la massima importanza all’accoglienza dei profughi e dei rifugiati: l’alternativa è una situazione di buio medioevo.

Davide Galati

Nato professionalmente nell'ambito finanziario e dedicatosi in passato all'economia internazionale, coltiva oggi la sua apertura al mondo attraverso i media digitali. Continua a credere nell'Economia della conoscenza come via di uscita dalla crisi. Co-fondatore ed editor della testata nonché presidente dell’omonima A.P.S.

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