Stop al business del dolore: lo ha raccomandato formalmente il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, lo scorso 31 marzo. L’invito dovrebbe incoraggiare i 47 Stati membri a contrastare la compravendita degli strumenti di tortura.
Basta anche al commercio di sostanze farmaceutiche per iniezioni letali: solo Cina, Thailandia, Vietnam e Stati Uniti le praticano; i Paesi che vendono ciò che serve per condannare a morte però sono molti di più.
La presa di posizione arriva dopo anni di campagna da parte di Amnesty International e Omega Foundation. È un ulteriore passo avanti nella lotta a pratiche universalmente condannate, ma altrettanto diffuse. La raccomandazione coincide con la constatazione, da parte delle Nazioni Unite, dei propri limiti nel monitorare questi abusi.
Capire la “crudeltà, consacrata all’uso della maggior parte delle nazioni” (come la descrive il suo primo critico, Cesare Beccaria), oggi significa sapere che chi la perpetra non ha necessariamente il volto di un dittatore esotico. Il viaggio nel mercato della tortura ci porta a conoscere chi lucra su oggetti che hanno come unico obiettivo il tormento, in modo poco segreto e molto banale.
Ci spinge soprattutto a chiederci che impatto ha, in questo scenario, una raccomandazione senza forza di legge.
Settembre 2020: su un tavolo alla periferia di Norimberga, a pochi chilometri da dove si tenne il famoso processo ai gerarchi nazisti, un espositore alla fiera IWA Outdoor Classics mostra “prodotti di alta qualità” a compratori internazionali. “Provate i materiali leggeri, il grande comfort e le funzioni ottimizzate”, recitava uno slogan.
La specialità del suo stand sono i manganelli; elettrici o dotati di punte acuminate in metallo, vengono allineati gli uni accanto agli altri nella sezione “armi non letali”. Questi modelli servono solo a fare (molto) male, per esempio nel caso in cui un migrante sbarcato in Italia si rifiuti di farsi prendere le impronte digitali.
In occasione delle fiere d’armi come IWA in Germania o Eurosatory in Francia, le aziende mettono in bella mostra dai jet da combattimento ai cannoni ad acqua, dai fucili d’assalto alle munizioni. Nel corso degli anni, questi eventi sono cresciuti in numero e dimensioni; le compagnie hanno innovato e perfezionato gli oggetti in vendita, moltiplicando gli affari con delegazioni militari e governi.
Non serve immaginare macchinari medievali; tra i prodotti con lo scopo di indurre sofferenza ci sono spray al peperoncino, gas lacrimogeni, proiettili che rilasciano scariche elettriche e manette pesanti: tutti comunemente in dotazione tra le forze di polizia, o nei penitenziari. Alcuni di questi oggetti vengono venduti anche ai civili, perchè “quando si parla di autodifesa, meglio prevenire che curare!“, incoraggia l’impresa tedesca che li pubblicizza.
Tortura e maltrattamenti sono oggetto di importanti trattati di diritto internazionale, che impongono agli Stati di prevenirli. Quasi tutto il mondo li ha firmati, impegnandosi a investigare, criminalizzare i complici, portare in tribunale gli autori e risarcire le vittime.
Eppure praticamente nessuno è esente da questa contraddizione: ripudiano lo strumento punitivo, non il mercato che lo sfrutta. E si tratta del migliore dei casi.
In un rapporto presentato al Consiglio dei diritti umani, il relatore speciale ONU sulla tortura e altri trattamenti degradanti Nils Melzer ha considerato che la maggior parte degli Stati accusati di violazioni è evasivo, sulla difensiva o peggio – reagisce in modo sprezzante.
“Quasi l’80% delle nostre richieste di visite nei Paesi sono ignorate, rimandate o rifiutate dai governi. Questo ci ha impedito di effettuare controlli indipendenti dove sono più necessari“, ha affermato Melzer. Tra le 500 comunicazioni ufficiali inviate tra il 2016 e il 2020, il 90% non ha rispettato gli standard di cooperazione richiesti dal Consiglio ONU.
Al contrario di quanto insinuano le proverbiali “torture cinesi”, ne abbiamo rare testimonianze in Oriente nel mondo antico. Non ne avevano bisogno i barbari germanici, che preferivano affidarsi al giudizio divino per determinare l’innocenza.
L’arte di estorcere si sviluppa nella culla della civiltà occidentale: sappiamo che veniva applicata sia a Roma che in Grecia. Prima solo per gli schiavi (il cui giuramento non era ritenuto credibile); poi, con l’assolutismo se ne estesero i campi di applicazione ai reati politici, alla lesa maestà, ai colpevoli di dichiarare il falso.
La tortura non è mai stata, quindi, soltanto un metodo cruento e fallace di accertare responsabilità penali. A parte nel tormento di sospettati e testimoni reticenti, trova applicazione nelle politiche di mantenimento dell’ordine e della sicurezza; nell’esecuzione delle pene; nella repressione del dissenso.
“La tortura non è pensata per ucciderti, e nemmeno per ottenere informazioni. È fatta per uccidere l’anima umana” spiega Marina Nemat, che l’ha subìta per essersi espressa contro la rivoluzione islamica iraniana. “È un intero sistema progettato per la paura“, racconta l’attivista siriano Qutaiba Idlibi: “In prigione, mi hanno fatto l’elettroshock per qualsiasi motivo. Per essere andato in una scuola che era vicina a qualche protesta, o per essere su Facebook.”
In tempi recenti, in Europa si è parlato di tortura rispetto a fatti accaduti in Bielorussia, Turchia, Russia. Anche le condizioni di vita dei migranti nei megacentri di Italia e Grecia sono state ripetutamente considerate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo come trattamenti degradanti.
Ufficiali inglesi e francesi non sono scampati all’accusa di simili violazioni, in particolare rispetto al trattamento di detenuti. Nell’ultimo anno, la pandemia ha fornito un pretesto extra alla polizia in Grecia e in altri Paesi per eccedere nell’uso della forza, ma il problema è naturalmente sistemico: è nata prima la brutalità del Covid.
Una guida illustrata ai metodi di tortura realmente utilizzati negli ultimi quarant’anni nelle prigioni e le caserme italiane racconta la storia dei nostri panni sporchi. I fatti documentati parlano di persone costrette in posizioni vessatorie, come una ballerina o un cane; percosse ai genitali, ustioni e divaricazione delle dita fino a lacerarle; minacce; umiliazioni che vanno dall’infilare la testa in una toilette turca, al dover defecare nella propria cella di isolamento.
Proprio l’isolamento carcerario è una delle tecniche di tortura più diffuse in Occidente. I danni alla salute mentale collegati con questa specifica forma detentiva vanno da ansia e attacchi di panico fino alla depressione, scarso controllo degli impulsi, paranoia, psicosi e un rischio significativamente alto di autolesionismo e suicidio. Più a lungo dura l’isolamento, più è probabile che emergano effetti negativi.
Per questo gli standard minimi dell’ONU per il trattamento dei prigionieri (le cosiddette “Regole Mandela“) indicano che l’isolamento dev’essere usato solo in casi eccezionali come ultima risorsa, mai a tempo indeterminato e neanche per più di 14 giorni.
L’uso dell’isolamento è inoltre proibito per le donne incinte o con bambini in prigione (regola 22 di Bangkok); queste regole riflettono la vulnerabilità di genere, mirando così a tutelare le detenute. Eppure le donne sono abitualmente rinchiuse in celle di isolamento in tutto il mondo, a volte per periodi molto lunghi.
In Nuova Zelanda, le donne sono segregate a un tasso quasi doppio rispetto agli uomini: 255 casi ogni 100 donne detenute nel 2020, rispetto a 147 casi ogni 100 uomini nel 2019. Le donne Maori, in particolare, vengono isolate in modo sproporzionato.
Tra gli episodi che portano alla segregazione ci sono incidenti minori, per esempio il lancio di bucce d’arancia al personale o di una giacca, e “pugni che non hanno fatto centro“. Lunghi periodi di isolamento per le prigioniere (che coinvolgono prima di tutto donne indigene e di colore) sono stati documentati anche in Canada, Stati Uniti e Australia.
Famoso per la sua mancata risoluzione è il caso di Nazarin Zaghari Ratcliffe, una cittadina britannico-iraniana detenuta mentre faceva visita ai suoi genitori in Iran nel 2016. Secondo le accuse, si presume che stesse tenendo un corso di giornalismo che avrebbe incoraggiato le critiche al Governo. Le Nazioni Unite hanno chiesto il rilascio di Nazanin, e 1.5 milioni di persone hanno firmato una petizione online – senza successo.
In una lettera inviata nelle scorse settimane al ministro degli Esteri inglese, l’ONG Redress ha condiviso i risultati di un rapporto medico-legale che conferma la gravità dei maltrattamenti subìti da Nazanin finora.
“L’abuso include la deprivazione sensoriale, la privazione del sonno, l’isolamento prolungato, le posizioni di stress e l’ammanettamento prolungato, l’incatenamento e la bendatura, trattamento che da tempo riteniamo equivalga alla tortura“, denuncia l’organizzazione.
In Europa, detenuti come l’estremista di destra Anders Breivik – che nel 2011 uccise 71 persone in Norvegia – hanno sostenuto in tribunale che l’isolamento è peggio della pena di morte, e che le loro condizioni di detenzione violavano la Convenzione europea dei diritti umani.
Nei ricorsi presentati alla Corte di Strasburgo per questo motivo negli ultimi anni vengono citate prigioni in oltre venti Stati del continente, inclusa l’Italia.
Proibire la produzione e scambio commerciale degli strumenti di tortura è una scelta logica per quei Paesi che si vogliono rispettosi dei diritti umani. Ma per l’Europa si tratta soltanto del traguardo più recente di un progetto di lungo corso, lungi dall’essere concluso. Ed è facile immaginare come questa strategia, da sola, non sia sufficiente a eradicare gli abusi.
Pensiamo al waterboarding: sarebbe impensabile vietare la vendita di acqua, qualsiasi tipo di tessuto o cellophane per fare in modo che questa crudele tecnica di interrogatorio smetta di esistere. Sarebbe anche inutile, dato che come si è visto la tortura spesso prescinde da sofisticati macchinari: per spezzare qualcuno basta una cella vuota.
Tuttavia la battaglia contro la tortura fa parte di un disegno politico più ampio. Sventolando la bandiera dei diritti umani, l’Europa è a caccia del suo soft power eroso dalla crisi economica, dall’avanzata della Cina (che ha portato in molti casi a far prevalere gli interessi commerciali sull’assenza di violazioni) e da alleati sempre più autoritari come la Turchia, per non parlare della Brexit e la gestione della pandemia.
La sua spinta ha il merito di dare una mossa all’ONU. Sostenuta dalla Alliance on Torture Free Trade (iniziativa di UE, Argentina e Mongolia che oggi riunisce oltre 60 Stati di tutti i continenti), l’organizzazione è ora impegnata in un processo che esplora standard internazionali per regolare il commercio a livello globale.
“Speriamo che questo apra la strada alla negoziazione di uno strumento internazionale legalmente vincolante per affrontare il commercio della tortura e delle tecnologie della pena di morte” ha detto Michael Crowley di Omega Research Foundation. L’organizzazione ha, insieme ad Amnesty, contibuito alla revisione nel 2020 del regolamento anti-tortura dell’Unione europea.
Durante la sua 46esima sessione, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha anche adottato una risoluzione tematica sulla tortura e altri maltrattamenti. Il testo, presentato dalla Danimarca, si concentra proprio sui ruoli e le responsabilità della polizia.
Affrontando le questioni dell’accountability, delle procedure di reclamo e della formazione degli agenti a seguito dell’uccisione di George Floyd, il Consiglio segnala che la prevenzione della tortura richiede un approccio sistemico. Sottolinea l’importanza di “prevenire e affrontare il razzismo, la xenofobia e la discriminazione razziale e la relativa intolleranza nelle attività di polizia“, riconoscendo la discriminazione come causa principale degli abusi.
Sebbene non risolutive, iniziative come questa da parte degli Stati europei non possono che essere accolte favorevolmente – specialmente in un contesto globale che vede i diritti umani sempre più calpestati, concordano gli attivisti.