19 Marzo 2024

Grecia: violenza di Stato, da Alexis ai fatti di Nea Smyrni

È una domenica pomeriggio di inizio marzo. Nella piazza principale di Nea Smyrni, quartiere periferico nella zona Sud di Atene, alcune persone sostano su delle panchine. La Grecia è in lockdown completo dai primi giorni dello scorso novembre, quindi l’unica forma di svago rimasta ai cittadini è passeggiare godendo del primo sole primaverile.

Una pattuglia della polizia sta facendo dei controlli per verificare il rispetto delle misure anti Covid. Gli agenti si avvicinano a due famiglie e ordinano loro di andarsene immediatamente, minacciando di portare tutti alla centrale. Nonostante le regolari autorizzazioni esibite e le mascherine correttamente indossate, i poliziotti non vogliono sentire ragioni. Le minacce continuano, i toni si scaldano, i bambini scoppiano a piangere.

Un giovane, vedendo quanto sta accadendo, si avvicina per far ragionare gli agenti. La risposta che riceve sono manganellate su tutto il corpo. Il pestaggio avviene sotto gli occhi inorriditi di civili indifesi, bambini e persone anziane compresi. La scena viene ripresa da più angolazioni e fa immediatamente il giro del web, scatenando un’ondata di rabbia che investe tutta la Grecia.

Caso isolato? Esasperazione collettiva dovuta ad un lungo lockdown di cui ancora non si vede la fine?

Facciamo qualche passo indietro.

Giugno 2020. Sono le 11 di un mattino particolarmente caldo. Cammino fra Exarchia e Victoria, due quartieri adiacenti ad una manciata di minuti dal centro storico di Atene. Ho un appuntamento dall’altra parte della città e sono in ritardo. Procedo a passo spedito sul marciapiede piantato nel mezzo di un grosso incrocio, sovrappensiero e con le cuffie nelle orecchie.

Ad un certo punto qualcuno mi urta violentemente da dietro, quasi cado per terra. Tutto accade in pochissimi secondi: cinque uomini assaltano un ragazzo con una t-shirt rossa, strattonandolo con violenza e sbattendolo per terra. Uno gli tiene le mani ferme dietro la schiena, un altro gli immobilizza le gambe, il terzo gli blocca il busto con il ginocchio e il quarto gli tiene la testa premuta contro l’asfalto rovente. Il quinto supervisiona. Il ragazzo si dimena, ma nel giro di pochi secondi smette di opporre resistenza. È immobile, in stato di shock, quasi privo di conoscenza.

Nella confusione vedo sbucare un paio di manette, e finalmente capisco: sono poliziotti in borghese. Mi avvicino e chiedo ai cinque uomini di lasciarlo quantomeno respirare. Nessuno fa caso alla mia presenza, né tantomeno alla mia richiesta. Lo alzano di peso, la testa a penzoloni, e lo trascinano verso un muretto. Nella colluttazione ha perso le scarpe, i piedi nudi sfregano inermi contro l’asfalto cocente. Nessuno dei poliziotti sembra curarsene.

Settembre 2020, ancora Exarchia. È sera, sono seduta in un bar con un amico. Un gruppo di ragazzini con il volto coperto compare da dietro l’angolo e rovescia un cassonetto della spazzatura, per poi disperdersi nel giro di pochi attimi.

In meno di dieci minuti giungono sul posto una decina di poliziotti. A bordo di motorini lanciati a tutta velocità, gettano un paio di bombolette di gas lacrimogeno nel mezzo della strada, a pochissimi metri di distanza da bar e ristoranti dove decine di persone – me compresa – stanno pacificamente sedute a bere e chiacchierare. Agguanto un lembo della maglietta per coprirmi naso e bocca, ma è già troppo tardi. Occhi e gola bruciano terribilmente.

Episodi come quelli appena descritti non sono rari, né tantomeno casuali. Le pagine di cronaca degli ultimi quindici anni lo confermano.

La data cardine da cui partire per comprendere fino a che punto l’utilizzo spropositato della forza da parte della polizia ellenica si inscriva in un clima di brutalità sistemica è quella del 6 dicembre 2008.

Sono da poco passate le 21, il quindicenne Alexandros Grigoropoulos cammina per il quartiere di Exarchia insieme all’amico Nikos Romanos. Si stanno dirigendo ad una festa. Nei dintorni si aggira anche una pattuglia della polizia, che ha da poco avuto una discussione con un gruppo di adolescenti.

I poliziotti si imbattono nei due ragazzini e li fermano per un controllo. Senza un motivo apparente, comincia una lite. La pattuglia riceve l’ordine di allontanarsi da Alexis e l’amico, ma una volta svoltato l’angolo i poliziotti parcheggiano e tornano sui propri passi per cercare i due quindicenni. Arrivati nei pressi di via Tzavella l’agente Epaminondas Korkoneas estrae la pistola ed esplode tre colpi da distanza ravvicinata, centrando Alexis nel petto. Il ragazzino muore sul colpo.

Nei giorni seguenti le strade della Grecia si infiammano. Da Salonicco ad Atene, scoppiano rabbiose proteste che vanno avanti per settimane. L’assassinio a sangue freddo di Alexis è la goccia che fa traboccare il vaso, l’inizio di una rinnovata consapevolezza circa un utilizzo della forza troppo spesso arbitrario, repressivo e dalla sfumature particolarmente violente – talvolta omicide.

Dicembre 2008, il memoriale di Alexis in via Tzavella – foto in licenza CC dell’utente Flickr mendhak

A partire da quel 6 dicembre l’asticella dell’attenzione nei confronti di episodi di questo genere si alza vertiginosamente, tanto che nel 2012 Amnesty International pubblica un report interamente dedicato alla brutalità della polizia greca. Il titolo scelto appare quanto mai significativo: “Police violence in Greece, not just ‘isolated incidents'”.

Il report si riferisce al periodo che va dal 2008 al 2012 – gli anni del disastro economico e delle grandi proteste – e raccoglie le interviste effettuate con 88 persone direttamente e indirettamente coinvolte in episodi di violenza perpetrati dalle forze di polizia. Ne emerge un’analisi preoccupante, che delinea un modus operandi deliberatamente sistematico, largamente tollerato e scarsamente punito.

Un caso particolarmente rappresentativo è quello di Manolis Kypreos, un giornalista che nel giugno del 2011 si trovava nella piazza principale di Atene per coprire una protesta contro l’introduzione di nuove misure di austerità. Questa la sua testimonianza, così come riportata da Amnesty:

“Erano circa le 14.30 e c’era tensione fra la polizia e i dimostranti. Il mio fiuto mi suggeriva che di lì a poco si sarebbero potuti verificare episodi di violenza, così decisi di muovermi e andare a coprire la protesta.

Pochi metri dopo, m’imbattei in una squadra di polizia che stava ripiegando verso Piazza Syntagma. Il comandante dell’unità mi chiese come mai stessi scattando delle fotografie. Mostrai loro che ero un giornalista e un membro dell’Unione dei Giornalisti.

Dopo avermi imprecato contro, il capo ordinò ad un altro ufficiale di gettarmi addosso una granata stordente. Sono letteralmente saltato per aria e caduto all’indietro. Pensavo di essere morto. Dopo pochi minuti un gruppo di civili cercò di rianimarmi gettandomi dell’acqua sulla testa. E allora realizzai che qualcosa non andava, perché non riuscivo a sentire nulla.”

La carriera giornalistica di Manolis si è definitivamente conclusa quel giorno d’estate del 2011. Le conseguenze fisiche e psicologiche dell’attacco non gli hanno lasciato altra scelta: ha perso l’udito da entrambe le orecchie ed è stato sottoposto a diversi interventi chirurgici per l’installazione di un impianto cocleare artificiale; ancora oggi soffre di gravi problemi di equilibrio e disturbo post-traumatico da stress.

Come se non bastasse, la battaglia giudiziaria di Manolis è stata lunga ed estenuante. Ci sono voluti ben nove anni prima che la Corte greca, nel maggio del 2020, condannasse l’unità di polizia responsabile dell’attacco.

Così come quella di Manolis, molte altre sono le testimonianze che raccontano di violenze gratuite e assolutamente sproporzionate. A riprova della gravità della situazione nel complesso, il rapporto di Amnesty International specifica che nei 10 anni precedenti alla pubblicazione la Grecia è stata condannata per ben 13 volte sia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che dalla Commissione ONU per i diritti umani. Tutti casi di violenza perpetrati da ufficiali di polizia, con riconosciute violazioni del diritto alla vita, della proibizione di tortura e trattamenti inumani e dei diritti politici.

Aprile 2012, protesta contro la brutalità della polizia nella città di Salonicco – foto in licenza CC dell’utente Flickr Asteris Masouras

A tutto questo si aggiunga la salita al potere del Governo di Kyriakos Mitsotakis, capo del partito di ultradestra Nuova Democrazia. Già in fase di campagna elettorale, nel maggio del 2019, Mitsotakis accusava il predecessore Tsipras di lassismo nelle questioni di ordine pubblico e rendeva chiara quella che sarebbe stata la linea del suo esecutivo: law and order.

Ed effettivamente così è andata. All’indomani dell’insediamento del nuovo Governo, nel luglio 2019, il neoeletto Primo Ministro annunciava lo stanziamento di 10 milioni di euro per “ripulire” il quartiere di Exarchia, storica base dei movimenti anarchici. Fra le misure previste dal piano, anche una massiccia presenza di task-force speciali specificamente incaricate di pattugliare giorno e notte le strade del quartiere, nonché sgomberi a tappeto di stabili occupati da richiedenti asilo e rifugiati – unica alternativa dignitosa al pessimo sistema di accoglienza governativo, che da anni offre pressoché nessuna risposta alle esigenze delle persone in movimento.

Graffiti nel quartiere di Exarchia – foto dell’autrice dell’articolo

Contestualmente, si discuteva l’ipotesi di abrogare la University Asylum Rule (Panipistimiakó Ásilo in greco), una legge che permette l’ingresso delle forze di polizia all’interno delle università solo dietro specifica autorizzazione del rettore e di due rappresentanti degli studenti.

Si tratta di una norma introdotta negli anni ’80, frutto di un trauma collettivo: l’occupazione del Politecnico di Atene nel 1973 contro la dittatura dei Colonnelli, conclusasi in un bagno di sangue a seguito dell’irruzione di polizia ed esercito. Una legge il cui alto contenuto simbolico – e non solo – non ha fermato l’esecutivo di Mitsotakis, che a pochi mesi di distanza dal suo insediamento è effettivamente riuscito nell’intento di depennare l’Asylum Rule dal codice greco.

Ma non finisce qui. Due mesi fa, precisamente l’11 febbraio, il Parlamento ha approvato un disegno di legge atto a riformare il sistema universitario. Il punto più discusso della proposta – convertita in legge senza modifiche – è quello che prevede la creazione di un apposito corpo di polizia incaricato di presidiare gli atenei. Secondo l’opinione di molti, si tratta di una svolta apertamente autoritaria che andrà ad incidere pesantemente sulla libertà di espressione e di opinione politica all’interno delle Università.

Ed è per questo che le contestazioni non sono tardate ad arrivare, sia nelle dovute sedi istituzionali che nelle strade. Nelle settimane precedenti all’approvazione della riforma, varie manifestazioni hanno avuto luogo nelle principali città universitarie greche. Tutte dimostrazioni pacifiche, sfociate in violenza a seguito dell’intervento della polizia.

Cosa ancor più preoccupante, il reiterato verificarsi di attacchi a giornalisti presenti sul luogo per svolgere il proprio lavoro ha spinto l’Unione dei Giornalisti a rilasciare alcune dichiarazioni per spronare il Governo a prendere una chiara posizione rispetto alla libertà di stampa.

È quindi questo il contesto in cui si inseriscono i recenti fatti di Nea Smyrni. Non un’azione isolata, ma bensì l’ennesimo, immotivato abuso della forza da parte di agenti di polizia.

Pochi giorni dopo il pestaggio, 5mila persone si sono riunite a Nea Smyrni per protestare contro l’abituale brutalità delle forze dell’ordine. Gli scontri scoppiati tra i manifestanti esasperati e la polizia hanno raggiunto l’apice con l’assalto ad uno degli agenti, spinto giù dalla propria motocicletta e colpito con pietre e calci.

Il giorno successivo, con un comunicato televisivo, Mitsotakis invitava tutti a mantenere la calma. Nel frattempo, i vertici della polizia diffondevano la notizia che l’agente responsabile del pestaggio di Nea Smyrni era stato sospeso, senza però fornire alcun tipo di dettaglio.

Due gocce nel mare, considerando che diverse organizzazioni che si occupano di diritti umani – fra cui Amnesty International e Hellenic League for Human Rights – hanno segnalato un preoccupante incremento dei casi di violenza per mano dalla polizia durante il periodo di lockdown. L’accusa è quella di utilizzare la pandemia come scusa per limitare le libertà dei cittadini e conferire maggior margine di manovra alle forze dell’ordine.

Basti pensare che in occasione della giornata del 17 novembre, anniversario della grande rivolta del Politecnico di Atene contro la Giunta dei Colonnelli, il Governo ha inasprito le norme già in essere: divieto di assembramento di più di quattro persone anche in spazi aperti e mobilitazione di 6mila poliziotti per prevenire ogni forma di protesta. Una donna è stata addirittura multata con una sanzione di 300 euro per aver depositato dei fiori davanti al cancello dell’Università in memoria del sollevamento del 1973.

I fatti di Nea Smyrni si collocano quindi tristemente in linea con il quadro d’insieme: un’uso abituale e sproporzionato della violenza, difficile da estirpare perché ormai incancrenito da anni e anni di spalleggiamenti e silenzio da parte delle Istituzioni.

Camilla Donzelli

Laureata in Scienze Politiche per la Cooperazione e lo Sviluppo, si forma poi come consulente legale professionale con ASGI - Associazione Studi Giuridici Immigrazione e lavora per diversi anni nel sistema di accoglienza italiano. Appassionata di antropologia politica e da tempo impegnata nella diffusione di buona informazione circa i fenomeni migratori, nel 2020 si trasferisce ad Atene per studiare da vicino gli effetti delle politiche europee sulle popolazioni in movimento. Attualmente collabora con Jafra Foundation Greece.

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