Chiunque fugga da persecuzioni individuali o danni gravi nel proprio Paese ha il diritto di chiedere protezione internazionale.
Lo afferma la Convenzione di Ginevra adottata nel 1951.
Affinché la protezione venga concessa, è tuttavia necessario che la persona soddisfi una serie di inflessibili criteri in assenza dei quali la richiesta viene respinta dalle autorità. Solo chi dimostri di essere fuggito dal proprio Paese perché “perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche” può ottenere lo status di rifugiato.
In virtù di una Direttiva europea del 2011, sono da considerarsi atti di persecuzione tanto gli “atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale” quanto i “provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia e/o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio“.
Il più delle volte i responsabili degli atti persecutori sono proprio le autorità statali – inclusi partiti ed organizzazioni – che impediscono alla persona di richiedere protezione.
A queste persone non è concessa alcuna via legale di migrazione per fuggire dal loro Paese, per cui esse sono costrette ad affidarsi a spietati trafficanti che fanno delle disastrose lacune nelle politiche migratorie un business redditizio e dell’inevitabile vulnerabilità dei migranti una fonte sicura di guadagno.
Invece di prevedere vie legali e sicure di migrazione, si impone loro una condizione di illegalità che non solo è infondata – è illegale commettere crimini, non scappare da guerre e persecuzioni – ma che le espone a molteplici seri pericoli quali il rischio di essere vittime di tratta, di tortura, di furti, di abusi di ogni genere.
La condizione di illegalità a cui questi individui sono costretti fa sì, infatti, che durante tutto il percorso migratorio essi siano interamente dipendenti dai trafficanti, costretti a nascondersi, impotenti, anche di fronte alle più gravi violenze e ai peggiori abusi. Come denunciare i maltrattamenti del trafficante quando si è senza documenti, rinchiusi in una stanza all’interno di una casa abbandonata, situata in mezzo ai campi, in un Paese di cui a malapena conosciamo il nome?
È evidente che una revisione della politica in materia di visti è non soltanto necessaria ma urgente. La mobilità di coloro che sono costretti a fuggire da guerre e persecuzioni deve essere facilitata e regolamentata, non ostacolata e criminalizzata.
Voci Globali si pone in prima linea in questa battaglia e ha recentemente lanciato la campagna “Passaporti, basta privilegi” a cui hanno aderito personaggi e associazioni di spicco tra cui Articolo 21, Cecilia Strada, ASGI, Osservatorio Diritti, ResQ People (se ancora non hai firmato, clicca qui).
In assenza della possibilità di ottenere un regolare visto, l’accesso da parte di cittadini di Stati extra-europei al territorio europeo avviene infatti tramite pericolose rotte in mezzo ai boschi – si pensi alla frontiera tra Bielorussia e Polonia, tra Serbia e Bosnia-Erzegovina e tra Bosnia-Erzegovina e Croazia – oppure in mezzo al mare – si pensi alle acque della Manica, del Mediterraneo e del Mar Egeo.
Che si trovino in mezzo al mare o nei boschi, una volta arrivate – dopo mesi, talvolta anni, di estenuanti viaggi – nel continente europeo, queste persone si trovano davanti a lunghi sbarramenti di filo spinato presidiati giorno e notte da guardie o uomini mascherati oppure di fronte ad attente pattuglie galleggianti che hanno il compito di monitorare le coste per difendere il territorio. Da chi, è ancora poco chiaro.
Ma la Convenzione di Ginevra vieta esplicitamente a tutti gli Stati membri dell’Unione europea di respingere verso luoghi non sicuri colui che tenti di raggiungere il nostro continente per richiedere protezione.
Salvo per motivi di sicurezza nazionale o ordine pubblico
nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.
Tale regola prende il nome di principio di non refoulement e se ne configura la violazione ogni qual volta sia posta in essere una condotta quale espulsione, respingimento, allontanamento forzato, estradizione, trasferimento informale che abbia come effetto quello di rinviare il migrante verso un luogo non sicuro.
Può essere luogo non sicuro il Paese di origine oppure altresì un Paese terzo in cui l’individuo “abbia motivo di temere minacce per la propria vita o libertà […], o dal quale rischi di essere ulteriormente rinviato verso simili pericoli”, come chiaramente affermato due esperti del settore, Noris Morandi e Paolo Bonetti.
È da considerarsi Paese terzo sicuro ai sensi della disciplina nazionale e internazionale la Turchia – malgrado sia ampiamente documentato da Commissione europea e organizzazioni non governative che di fatto non lo sia, a fortiori per persone irregolari e/o appartenenti a minoranze.
Recentemente, Albania e Macedonia del Nord sono state aggiunte alla lista dei Paesi sicuri. Viene considerato che colui che fugge dal proprio Paese può legittimamente e senza rischi richiedervi e trovarvi protezione internazionale.
I respingimenti illegali continuano ad essere pericolosamente posti in essere ad ogni confine d’Europa, in violazione di qualsiasi disposizione di diritto internazionale. Quello dei respingimenti illegali è un fenomeno non soltanto geograficamente esteso e dalle derive spesso irreversibili, ma ormai addirittura attuato in modo sistematico malgrado le numerose denunce da parte di politici (citiamo Pietro Bartolo), esperti del settore (Nora Markard), giornalisti (The Guardian) e organizzazioni (Aegean Boat Report e Lighthouse Reports).
Solo nel 2021, sono almeno 12,000 i casi documentati di respingimenti alle frontiere interne ed esterne dell’Unione europea, come riportato da un recente rapporto curato da Protecting Rights at Borders (PRAB).
Grecia, Polonia, Bielorussia, Spagna, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Italia, Regno Unito, nessun Paese ai confini dell’Europa ne è indenne. È quanto risulta da un recente rapporto di Amnesty International, nel quale la ricercatrice Jelena Sesar ha affermato che “respingimenti illegali e violenze contro richiedenti asilo e migranti sono all’ordine del giorno alle frontiere esterne dell’UE” e che “in numerosi Paesi, tra cui Grecia, Polonia, Spagna, Croazia, le persone in cerca di sicurezza e protezione incontrano filo spinato e guardie di frontiera armate”.
Solo nelle ultime settimane sono centinaia le persone che hanno perso la vita nelle nostre gelide acque. Nel Mediterraneo, dove sono ancora in atto le ricerche da parte della Guardia costiera greca. Nell’Egeo, dove poco tempo fa hanno perso la vita tre bambini. Nella Manica, dove poche settimane fa sono annegate ventisette persone. Tra loro, una giovane donna che era passata dal Mar Egeo, in particolare dall’isola greca di Samos, dove distribuiva cibo ai richiedenti asilo come lei insieme a Project Armonia.
Questi naufragi continuano a ripetersi regolarmente ormai, nonostante le ripetute allerte lanciate da esperti e organizzazioni, come quella pubblicata proprio qualche settimana prima del naufragio nella Manica da Refugee Legal Support.
La pericolosità di una migrazione non regolamentata, aggravata da brutali respingimenti, è documentata dalle infinite testimonianze di chi a quei respingimenti è riuscito a sfuggire. Talvolta, per miracolo.
Ma gli spietati controlli per la cosiddetta ‘difesa’ del territorio si spingono in taluni casi addirittura al di là dei confini europei. Secondo alcune investigazioni di Lighthouse Reports, sembra infatti che l’Unione europea e Frontex – Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera – abbiano delegato alla Guardia costiera libica il compito di intercettare i migranti e riportarli in Libia.
Il fenomeno dei respingimenti illegali, malgrado continui ad essere apertamente negato dalle autorità greche, è attuato in modo seriale e sistematico. Ne è la prova l’espulsione verso la Turchia – avvenuta per errore – di un interprete che, caso vuole, lavorava proprio per Frontex.
L’interprete ha riportato di essere stato picchiato, privato di indumenti, telefono, soldi, documenti e trasportato in un magazzino insieme ad un centinaio di persone – tra uomini, donne e bambini – prima di essere imbarcato con forza su un gommone verso il territorio turco.
Seppur riprovevole, non si tratta di un caso isolato. È recente la notizia di un ragazzo siriano illegittimamente deportato in Turchia dopo che l’organizzazione Refugee Support Aegean aveva richiesto per lui alla Corte europea dei diritti dell’uomo una misura provvisoria urgente e comunicato alle autorità greche la sua presenza sul territorio greco e la sua intenzione di richiedere asilo politico.
Da quanto più tardi riferito dallo stesso ragazzo, uomini in uniforme hanno catturato tutti i componenti del gruppo, li hanno obbligati a spogliarsi, hanno sequestrato loro i cellulari, per poi maltrattarli e costringerli con forza a salire su una barca spinta poi verso la Turchia.
Quello dei respingimenti illegali è un fenomeno talmente esteso che l’europarlamentare tedesca Cornelia Ernst in visita a Samos è stata testimone diretta di un presunto respingimento che degli uomini “mascherati” avrebbero operato nei boschi dell’isola a danno di un gruppo di diciannove persone – apparentemente sparite nel nulla. L’europarlamentare ha riportato poi su Twitter l’accaduto.
Dalle testimonianze dei richiedenti asilo, si evince che il modus operandi delle autorità sembri essere sempre lo stesso.
Quella che segue è la dichiarazione rilasciata a Voci Globali da un interprete che ha lavorato per Frontex e che ha quindi avuto modo di assistere a questi respingimenti:
Si tratta di un’operazione congiunta, operata da Frontex, guardia costiera ed esercito. Li ho riconosciuti da come erano vestiti. Quelli che intervengono per la Guardia costiera hanno magliette blu e nere, nessuna uniforme, nessuno stemma. Alcuni portano dei passamontagna. La barca della Guardia costiera si occupa del pattugliamento permanente. Quando individuano un’imbarcazione di migranti in mare, lo comunicano all’esercito che invia immediatamente una piccola imbarcazione. La barca della Guardia costiera è infatti troppo grande, troppo lenta, mentre quella dell’esercito è più piccola, più rapida.
La barca dell’esercito raggiunge quella dei migranti, poi arriva la Guardia costiera ed è lì che tutto inizia. Dapprima, la barca si ferma e poi fa delle potenti ma brevi accelerazioni in modo da provocare forti onde. Lo scopo è quello di impaurire, in modo da incitare le persone a tornare indietro. Ma chi è lì è perché non ha scelta, nessuno è disposto a tornare indietro. A quel punto la Guardia costiera inizia a sparare dei colpi nell’acqua, con dei grossi fucili, per spaventare.
Ma chi scappa da un Paese in guerra è disposto a tutto, pur di non tornare indietro. Accade che la Guardia costiera e i migranti si parlino da una barca all’altra. I migranti gridano di voler richiedere protezione internazionale [da un punto di vista legale ciò obbliga le autorità a procedere con la registrazione della domande di asilo in virtù dei testi di diritto internazionale NdR].
Ricordo di quando una volta le autorità, alla disperata richiesta dei migranti, risposero di tornare nel loro Paese e richiedere il visto di ingresso. Ma se queste persone sono su una barca in mezzo al mare è proprio perché non hanno la possibilità di richiedere un visto. Ricordo che c’era una donna incinta tra loro. A quel punto un’altra barca della Guardia costiera e una dell’esercito arrivano sul posto. Le prima servono a stoppare i migranti ma è quando i rinforzi giungono sul luogo che il vero respingimento avviene. Il più delle volte tramite lunghi bastoni e potenti accelerazioni. I migranti gridano di terrore.
Ricordo una volta in cui la Guardia costiera turca giunse sul posto, erano le sei del mattino. Stavano filmando tutto. Allora la Guardia costiera greca lasciò passare l’imbarcazione dei migranti fino alle coste greche.
Ma il calvario non finisce qui. Chi sbarca, è vittima di un’animalesca caccia all’uomo perpetrata dalle autorità greche in violazione di qualsiasi disposizione di diritto internazionale ed europeo.
Misteriose pattuglie di uomini mascherati, senza uniforme, arrivano sul posto dello sbarco e iniziano a sparare colpi in aria. Le persone scappano, provano a nascondersi. Spesso, per giorni. Il più delle volte, senza acqua nè cibo.
Laddove vengano trovate, vengono catturate e poi messe su una barca e abbandonate in acque turche. Chi aiuta, anche solo distribuendo una bottiglia di acqua, rischia di essere accusato di facilitazione di entrata illegale di migranti ai sensi della Direttiva 2002/90/CE.
Tutto questo appare inammissibile. Scappare dal pericolo non è un crimine. Chiedere protezione è un diritto. Aiutare chi chiede aiuto non deve essere punito. Violare i testi di diritto internazionale ed europeo invece sì.
È per questo motivo che condividiamo l’invito che l’europarlamentare Pietro Bartolo ha rivolto alla Commissione europea:
La Commissione prenda coraggio e assuma davvero il ruolo di difensore dei trattati a favore della solidarietà, agisca in difesa della Carta dei diritti che oggi viene costantemente calpestata, agisca finalmente in difesa delle persone. Persone, non nemici, i nemici sono altri.