19 Marzo 2024

UE-Turchia, il terribile impatto umano di un accordo illegittimo

Espulsioni collettive verso la Turchia previste per chi scappa da Afghanistan, Siria, Somalia, Bangladesh, Pakistan e arriva – via mare – sulle isole greche del Mar Egeo. Questo è quanto è stabilito da una Dichiarazione tra Unione Europea e Turchia del 2016 e una Decisione ministeriale adottata in Grecia a giugno di quest’anno. Una disciplina che non tiene conto della tutela dei diritti umani e delle violazioni perpetrate in Turchia contro i richiedenti asilo, dettagliatamente documentate da un rapporto pubblicato qualche giorno fa dalla Commissione Europea.

Stop Deportations‘, Turchia – Fonte: European Pressphoto Agency, Credits: Sedat Suna

Ai sensi della Dichiarazione UE-Turchia adottata il 18 marzo 2016, la Turchia e l’Unione Europea hanno reiterato il loro impegno ad attuare un piano d’azione comune avviato il 29 novembre 2016 e stabilito precise procedure di rimpatrio per i migranti per cui la Turchia è considerata come il Paese responsabile a esaminare la richiesta di protezione internazionale.

Tali procedure – la cui legittimità è giuridicamente discutibile – dovevano essere, come dichiarato dalla Commissione Europea in un comunicato del 16 marzo 2016, “una misura temporanea e straordinaria” giustificata in particolare dalla necessità di “ripristinare l’ordine pubblico”. Ciò nonostante, come dimostreremo, esse non solo rimangono ad oggi ancora in vigore ma il loro campo di applicazione è stato altresì recentemente esteso.

Una prima problematicità intrinseca alla Dichiarazione del 2016 riguarda la sua discutibile legittimità come accordo internazionale. Tale testo normativo è stato negoziato e adottato dal Primo ministro turco congiuntamente ai membri del Consiglio europeo, ossia i capi di Stato e di Governo degli Stati membri dell’UE, senza l’approvazione né il coinvolgimento del Parlamento europeo né dei Parlamenti nazionali.

Essa è stata dunque adottata in violazione all’articolo 218 TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) che detta le regole riguardanti la negoziazione, la firma e la conclusione degli accordi internazionali, e si presenta come un mero “Statement” congiunto. Tuttavia, la Dichiarazione del 2016 riveste de facto l’efficacia di un accordo internazionale e sembra possedere di conseguenza piena forza vincolante con riguardo agli effetti che essa produce. Non è forse casuale il lapsus della Commissione europea nel qualificare tale Dichiarazione come “Accordo”.

Un secondo punto controverso è il fatto che le procedure stabilite dalla Dichiarazione presentate come provvisorie, non solo siano dopo cinque anni ancora in vigore ma che il loro campo di applicazione sia stato addirittura esteso, in virtù di una recente Decisione ministeriale congiunta adottata dal Governo greco il 7 giugno 2021.

Ci si domanda dopo quanto tempo gli effetti di un testo normativo mirato a stabilire misure “temporanee” cessino e se la straordinarietà della loro applicazione non fosse in realtà un pretesto per legittimare disposizioni i cui tempi di attuazione, altrimenti, sarebbero stati oltremodo dilatati.

Ma se la Dichiarazione del 2016 operava un discrimen unicamente a discapito delle persone provenienti dalla Siria, è con la Decisione del 7 giugno di quest’anno che è stato stabilito che qualsiasi individuo proveniente da Siria ma altresì Afghanistan, Somalia, Bangladesh e Pakistan sia sottoposto in via di principio alle procedure di espulsioni forzate verso la Turchia.

Quello che più sconcerta è il fatto che la grande maggioranza dei richiedenti asilo sbarcati sugli hotspots delle isole greche (Lesvos, Chios, Samos, Leros, Kos) nel 2021 appartiene a queste nazionalità (di cui 45.3% Afghani) per cui, tra l’altro, il tasso di riconoscimento delle richieste di asilo è in assoluto tra i più elevati: 91.6% per i Siriani, 66.2% per gli Afghani, 94.1% per i Somali.

Questi elementi fanno dubitare della legittimità di tale strumento normativo che ha come effetto quello di esternalizzare geograficamente il fenomeno migratorio ai confini dell’Europa senza tuttavia garantirne le frontiere giuridiche in termini di tutela dei diritti umani fondamentali. Ma ciò che allarma ancora di più della disciplina delle espulsioni collettive dei richiedenti asilo verso la Turchia è il concetto di “Paese terzo sicuro” su cui essa si fonda.

In applicazione di tale concetto gli Stati membri dell’Unione Europea, come la Grecia, sono autorizzati a deportare in un altro “Paese terzo sicuro” coloro che intendano richiedere asilo politico o protezione sussidiaria. Tale possibilità è sottoposta a due condizioni cumulative: il passaggio fisico dell’individuo dal “Paese terzo” e una connessione – non precisamente definita – con esso. La problematicità sta nel fatto che la qualificazione comunemente accettata dalle istituzioni europee della Turchia come “Paese terzo sicuro” è inconfutabilmente errata alla luce delle inequivocabili disposizioni di diritto europeo.

In virtù dell’articolo 38 della Direttiva 2013/32/UE recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, “Gli Stati membri possono applicare il concetto di Paese terzo sicuro solo se le autorità competenti hanno accertato che nel Paese terzo in questione una persona richiedente protezione internazionale riceverà un trattamento conforme ai seguenti criteri: a) non sussistono minacce alla sua vita e alla sua libertà per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale; b) non sussiste il rischio di danno grave definito nella direttiva 2011/95/UE; c) è rispettato il principio di «non-refoulement» conformemente alla convenzione di Ginevra; d) è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né trattamenti crudeli, disumani o degradanti, sancito dal diritto internazionale; ed e) esiste la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e, per chi è riconosciuto come rifugiato, ottenere protezione in conformità della Convenzione di Ginevra […]”.

Come riportato altresì dal recente rapporto sulla Turchia pubblicato dalla Commissione europea il 19 ottobre 2021, è ormai ben noto e riccamente documentato che la promozione e il rispetto dei diritti umani e fondamentali sia posta a grave rischio sul territorio turco, a maggior ragione nei confronti di coloro che, in assenza di una via legale, migrano in condizione di irregolarità.

In relazione al punto a della Direttiva, per esempio, da anni il Governo turco minaccia sistematicamente la libertà di oppositori politici, giornalisti, studenti, accademici, sindacalisti, scrittori, difensori dei diritti umani, avvocati e opera dure persecuzioni contro minoranze etniche, religiose, persone curde, discriminazioni e incitamento all’odio contro appartenenti alla comunità LGBTQI+ oltre che violenze basate sul genere. Il recente ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul del 2014 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica solleva in questo senso ulteriori preoccupazioni.

In merito al punto b: arresti non legittimi e detenzioni arbitrarie, atti di tortura e sparizioni forzate sono posti in essere da anni dal Governo turco, in particolare contro migranti irregolari e richiedenti asilo; ciò è aggravato da un sistema giudiziario non indipendente e non compatibile con gli standard europei né internazionali (i migranti possono essere detenuti in Turchia fino a un anno senza che siano necessari né una motivazione specifica né un controllo giudiziario).

Riguardo al punto c: l’ordinamento giuridico turco, in virtù degli articoli 53 e 54 LFIP (Legge n. 6458 del 2013 su Stranieri e Protezione Internazionale), ammette una deroga al principio di “non-refoulement” (divieto di respingimento) laddove, per esempio, un individuo entrato irregolarmente sul territorio turco – come la totalità dei migranti costretti a fuggire e per cui non è prevista una via legale di migrazione – tenti di lasciare la Turchia per raggiungere un paese limitrofo come la Grecia.

Sul punto d: la deportazione coatta di migranti e richiedenti asilo verso il loro Paese di origine – da cui fuggono perché non sicuro – è realizzata da anni dal Governo turco e la vedremo più avanti.

Infine, il punto e: malgrado la Turchia sia parte della Convenzione di Ginevra del 1951 sui Rifugiati, la possibilità di ricevere protezione internazionale è solo tecnicamente possibile perché essa non è firmataria del Protocollo del 1968 e perché l’ordinamento turco prevede unicamente uno status di rifugiato “condizionato” che offre una serie di diritti inferiori rispetto alla protezione internazionale garantita dalla Convenzione di Ginevra (i.e. ‘protezione temporanea’ ai sensi del Regolamento sulla Protezione Temporanea n. 2014/6883 e della Legge n. 6458 del 2013 su Stranieri e Protezione Internazionale).

In virtù di quanto esposto finora, è evidente che la Turchia non soddisfi i criteri per essere considerata un “Paese terzo sicuro ai sensi della disciplina europea e del diritto internazionale. Tuttavia, tale pericolosa fictio juris produce effetti irrimediabili sulla condizione di queste categorie di persone particolarmente vulnerabili.

Al fine di stabilire se la Turchia sia oppure no un “Paese sicuro”, il richiedente asilo proveniente da Siria, Afghanistan, Somalia, Bangladesh e Pakistan è sottoposto a un ulteriore e arbitrario esame sull’ammissibilità della domanda. Tale esame, malgrado risulti molto spesso approssimativo quanto alla valutazione personale che attua, è suscettibile di costituire la base legale per l’espulsione forzata verso la Turchia.

Consulenza legale di preparazione al colloquio d’asilo, Legal Centre Lesvos – Credits: Elèna Santioli

Il concetto di “Paese terzo sicuro” costituisce ai sensi dell’articolo 84 IPA (Legge di Protezione Internazionale n. 4636/2019) un fondamento per l’inammissibilità di una domanda di protezione internazionale. In applicazione della Decisione ministeriale congiunta del giugno 2021, le domande presentate dai richiedenti asilo provenienti da Siria, Afghanistan, Pakistan, Bangladesh e Somalia possono essere respinte come ‘inammissibili’ senza tuttavia essere esaminate nel merito.

L’ammissibilità della domanda prende in conto unicamente il periodo compreso tra l’arrivo del richiedente asilo in Turchia e la sua partenza verso la Grecia, non le ragioni per cui è stato costretto a fuggire dal suo paese di origine. Laddove il richiedente non sia in grado di dimostrare che la Turchia non è per lui un “Paese sicuro”, le autorità greche dichiarano quest’ultima come lo Stato responsabile a esaminarne la richiesta di asilo nel merito.

Le decisioni di prima istanza che dichiarino una domanda di protezione internazionale come inammissibile, oltre ad essere fondate su un concetto errato, sono spesso non conformi alle disposizioni di diritto europeo e internazionale da una prospettiva procedurale e di forma. Il più delle volte si presentano come identiche e ripetitive, con sezioni chiaramente copiate e incollate, in violazione dell’obbligo ex articolo 10 della Direttiva 2013/32/EU di fondare l’esito del giudizio su una valutazione individuale: “[…] Gli Stati membri provvedono affinché le decisioni dell’autorità accertante relative alle domande di protezione internazionale siano adottate previo congruo esame. A tal fine gli Stati membri dispongono: a) che le domande siano esaminate e le decisioni prese in modo individuale, obiettivo ed imparziale”.

Un’altra grave criticità delle decisioni sull’ammissibilità della domanda di asilo è rappresentata dal fatto che esse non considerino gli sviluppi – inclusi quelli legislativi – successivi al 2016 (cf. Dichiarazione EU-Turchia) e ciò in violazione dell’obbligo che pesa sulle autorità di emettere decisioni attuali tramite la realizzazione di un’indagine ex officio sulla situazione in Turchia.

Laddove la richiesta di asilo venga considerata come inammissibile, all’individuo viene dato l’ordine immediato di lasciare la Grecia – ordine che è stato “temporaneamente sospeso” da marzo 2020. L’ordine di lasciare il territorio greco viene emesso insieme alla decisione di rigetto della domanda. Imponendo di presentare la domanda di protezione internazionale al Governo turco, il richiedente asilo viene de facto limitato nell’esercizio dei suoi diritti ed esposto al rischio di trattamenti disumani e/o degradanti.

Il Governo turco costringe tali individui, anche con la forza, a firmare “documenti di ritorno volontario” (oltretutto scritti in turco). Sono molti i casi documentati di individui, anche minori non accompagnati, che – dopo essere stati espulsi dalla Grecia alla Turchia (dove sono nella maggior parte dei casi posti in centri di detenzione) – sono deportati nel loro Paese di origine. Sono almeno 315,000 i Siriani che sono “volontariamente” rientrati in Siria negli ultimi anni (non è escluso che ve ne siano molti di più ma, poiché il loro tracciamento risulta complesso, le statistiche rischiano di non essere rappresentative).

Numerosi avvocati in Turchia denunciano da anni la mancanza dell’elemento intenzionale in quelli che sono presentati dal Governo turco come “ritorni volontari”. Da marzo 2020, le deportazioni dalla Grecia alla Turchia sono tuttavia sospese, ufficialmente per ragioni legate al Covid-19. Questo ha creato una situazione ancora più assurda: da una parte i richiedenti asilo non hanno il diritto di rimanere in Grecia e ricevono l’ordine di deporre la loro domanda di protezione internazionale in Turchia, dall’altro la Turchia non ne ammette il rientro.

L’articolo 86 IPA (Legge di Protezione Internazionale n. 4636/2019) al paragrafo 5 stabilisce chiaramente che “laddove il Paese terzo sicuro non consenta al richiedente di entrare nel suo territorio, la sua domanda deve essere esaminata nel merito dalle Autorità competenti”. Questa disposizione non è tuttavia attuata e i richiedenti asilo rimangono de facto in un inammissibile – ma ammesso – deplorevole limbo legale.

Human Rights Graveyard‘, Lesvos – Fonte: Legal Centre Lesvos, Credits: Boštjan Videmšek

In virtù di quanto esposto finora, ci si domanda quale sia ancora il prezzo da pagare da coloro che fuggono da guerre e persecuzioni prima che sia data loro la facoltà di beneficiare di un diritto, quello di fare richiesta di protezione internazionale, che gli è fondamentale e ci si auspica altresì che il fenomeno migratorio, che appartiene a questo mondo, venga regolamentato attraverso la realizzazione di vie legali di accesso al nostro Continente e che le politiche migratorie vengano elaborate sempre più in un’ottica di tutela dei diritti umani fondamentali e non di esternalizzazione delle frontiere.

Elèna Santioli

Giurista internazionale con doppia laurea in Giurisprudenza conseguita presso la Sorbona, si specializza nella lotta contro la tratta dei minori e nel diritto d'asilo. Co-fonda a Parigi l’associazione Réfugiés Bienvenue e collabora a Dakar con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, prima di prendere parte all’intervento di Première Urgence Internationale in Iraq e di Avocats Sans Frontières France a Samos. Collabora con Legal Centre Lesvos e coordina per Refugee Legal Support un progetto di assistenza legale a favore dei richiedenti asilo.

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