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Israele-Gaza, il dramma dei profughi in un contesto così disperato

Al Jazeera English, profughi palestinesi si rifugiano in una scuola diretta dall'ONU, 2009, in Licenza CC, da Wikimedia Commons

Il 7 ottobre scorso il gruppo terroristico di Hamas, che controlla la Striscia di Gaza, ha attaccato Israele: nell’operazione, ribattezzata Tufan al-Aqsa (Alluvione al-Aqsa), i miliziani hanno occupato per alcune ore la cittadina di Sderot, a pochi chilometri dalla Striscia, e attaccato alcuni kibbutz siti lungo la linea di confine.

In quest’azione i militanti palestinesi si sono macchiati di gravi crimini, come l’attacco alla festa nel deserto nei pressi del kibbutz Re’im. Il bilancio dell’offensiva, che ha colto Israele di sorpresa, ammonta, secondo l’agenzia Reuters, a circa 1400 vittime e 220 ostaggi.

In seguito all’attacco il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato che il Paese si sarebbe preparato a una lunga guerra e l’esercito ha stretto d’assedio la Striscia, sulla quale sono stati condotti pesanti bombardamenti: ad oggi le vittime palestinesi sono più di 8.000.

Al Araby, danni nella Striscia di Gaza, ottobre 2023. Su licenza CC da Wikimedia Commons

A causa del blocco completo imposto a Gaza, che già prima della guerra si trovava in condizioni difficili, nella Striscia non vengono più erogate né acqua né elettricità, con gravi conseguenze sull’operatività di servizi fondamentali, come quello sanitario. Infatti, le terapie intensive, comprese quelle neonatali, risultano in notevole difficoltà e molti reparti sono stati costretti alla chiusura.

Proprio un ospedale è al centro di uno degli attacchi più sanguinosi: il 17 ottobre è stato colpito l’Al-Ahli Hospital e, secondo il ministero della Sanità locale, le vittime sono state più di 400. Hamas ha accusato Israele di aver specificamente bombardato l’ospedale, ma il ministero della Difesa israeliano ha reso note delle intercettazioni secondo cui si sarebbe trattato di un errore dei miliziani del gruppo Jihad Islamica.

La Striscia di Gaza è una delle aree più densamente popolate del pianeta: su una popolazione totale di circa 2,3 milioni di persone, già prima della guerra 1,2 erano considerate profughi dall’UNRWA, l’agenzia ONU che si occupa specificamente dei profughi palestinesi. Molti di questi vivono negli otto campi allestiti dall’agenzia all’interno della Striscia. Secondo le Nazioni Unite, finora sono state sfollate circa un milione di persone nella guerra tra lo Stato di Israele e il gruppo terroristico di Hamas.

La Striscia di Gaza, su licenza CC da Wikimedia Commons

Quest’ultimo controlla la Striscia di Gaza dal 2006, da quando l’ esercito israeliano si è ritirato distruggendo anche le colonie presenti nell’area: contrapposto a Fatah, partito che controlla l’Autorità Nazionale Palestinese, è sostenuto principalmente dall’Iran, anche se alcuni dei suoi leader si trovano in Turchia e Qatar. Fondato al tempo della Prima Intifada nel 1987, Hamas si propaganda come movimento di resistenza palestinese ed è legato ai Fratelli Musulmani. Proprio per questi motivi, dopo la sua ascesa al potere, sia Israele che l’Egitto hanno imposto un embargo a Gaza. Ciò ha portato a gravi conseguenze sul piano umanitario per la popolazione, che dipende da Israele o dagli aiuti internazionali per i servizi di base.

Con il conflitto in corso, le condizioni di vita nella Striscia sono precipitate e a ciò si unisce l’ordine da parte dell’esercito israeliano di abbandonare le aree settentrionali, dove si trova Gaza City, in previsione di un’offensiva su larga scala.

Israele ha esortato più di un milione di residenti nel Nord della Striscia a dirigersi verso Sud per toglierli da quell’area e, possibilmente, salvare le loro vite quando l’invasione di terra comincerà.” Si legge in un articolo di Susan Hattis Rolef, ex-membro della Knesset, sul Jerusalem Post, “In una situazione che non è umanitaria di per sé, questo era il minimo che Israele potesse fare.

Alcune persone hanno scelto di rimanere nelle proprie case, temendo altrimenti di non poterci più rientrare, mentre molti si sono diretti verso Sud, verso la città costiera di Deir el-Balah, dove si trovano alcune strutture gestite dall’ONU, o verso il valico di Rafah, unico passaggio per l’Egitto.

Al Jazeera English, il valico di Rafah nel 2009. Su licenza CC da Wikimedia Commons

Nell’ultima settimana è stato consentito il transito di aiuti attraverso il valico, ma non dei profughi ammassati lungo il confine: l’Egitto infatti non è preparato per accoglierli. In primo luogo, il Paese versa in una difficile situazione economica e si trova già a fronteggiare due crisi ai propri confini, quella libica e quella sudanese. Inoltre, i profughi palestinesi si riverserebbero in una zona, quella del Sinai, sulla quale il Governo di Al-Sisi non ha il completo controllo.  E poi, Hamas risulta essere affiliato ai Fratelli Musulmani, nemici giurati del generale egiziano.

Sotto le pressioni internazionali, il valico è stato aperto il 1 novembre per consentire il passaggio dei feriti e di coloro che possiedono un doppio passaporto, ma, secondo il Guardian, anche alcune persone appartenenti a queste categorie non sono state ancora autorizzate a transitare verso Sheikh Zuweid, in Egitto.

Anche la Giordania non si è dichiarata disponibile ad accogliere i profughi palestinesi: infatti nel Paese vi è già una cospicua presenza di rifugiati, fino al 10% della popolazione giordana. Tuttavia, la monarchia hashemita ha inviato aiuti umanitari e la regina Rania, in un’intervista alla CNN, ha condannato il “doppio standard utilizzato dalle emittenti occidentali” nella narrazione del conflitto.

Altre nazioni, che ospitano larghe comunità palestinesi, non hanno le risorse per potersi far carico dell’emergenza: il Libano versa in condizioni economiche drammatiche dopo il fallimento dello Stato e rischia di essere direttamente trascinato all’interno del conflitto, a causa delle tensioni lungo la cosiddetta Linea Blu tra Israele e il gruppo militare di ispirazione sciita Hezbollah.

Inoltre, l’integrazione dei profughi palestinesi è sempre stata complessa, come si legge da un’analisi pubblicata dall’emittente qatarina Al-Jazeera:

Anche dopo due o tre generazioni [i palestinesi] vedono chi li ospita come straniero e a loro volta vengono ritenuti degli outsider. Arabi, ma con un’enorme differenza. Quanto lontano possano andare queste differenze lo hanno dimostrato i sanguinosi scontri del 1970-71 in Giordania tra l’esercito giordano e i combattenti palestinesi del PLO. […] Considerate le precedenti tristi esperienze, non c’è da meravigliarsi che gli Stati arabi della regione non vogliano accogliere rifugiati, sapendo che quasi certamente vi rimarranno.

Turchia e Qatar potrebbero giocare un ruolo fondamentale come mediatori nel conflitto: questi due Paesi sono tra quelli che hanno stanziato cifre più alte per l’invio di aiuti a Gaza. Anche alcune nazioni europee, tra cui l’Italia, hanno stanziato cospicue cifre a tal scopo, nonostante l’iniziale dichiarazione dell’Alto Rappresentante dell’UE Josep Borrell sulla sospensione dei programmi di finanziamento alla Palestina, poi ritirata.

Mentre la guerra non risparmia nemmeno i civili israeliani, la tensione sale in Cisgiordania, area dove palestinesi e israeliani vivono fianco a fianco a causa della cospicua presenza di insediamenti soprattutto nelle aree B e C. Dall’inizio della guerra infatti vi sono stati numerosi scontri tra i coloni e i palestinesi con il rischio dell’apertura di un nuovo fronte.  Già a partire dal 2022 le ostilità tra le due popolazioni erano aumentate, tanto che nell’ultimo anno 1100 palestinesi avevano abbandonato le loro case. In un crescendo di ostilità gli abitanti di alcuni villaggi hanno trovato sui parabrezza delle proprie macchine dei volantini che intimavano loro di emigrare in Giordania.

Il 31 ottobre il campo profughi di Jabalia nel Nord della Striscia di Gaza ha subito un violento attacco: non si conosce ancora il reale numero delle vittime, ma tra queste ci potrebbero essere anche sette ostaggi israeliani. Oggi la situazione è quantomai complessa e in continuo divenire e rischia di trascinare sempre più persone nel conflitto: l’interrogativo, però, rimane: quale sarà la risposta della comunità internazionale al dramma dei nuovi profughi.

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