Le questioni relative all’orientamento sessuale, l’identità e l’espressione di genere continuano a dividere l’opinione pubblica in tutto il mondo. Ciò è determinato principalmente da credenze e interpretazioni legali, culturali e religiose.
Dei 72 Paesi in tutto il mondo che criminalizzano l’omosessualità, più di 30 si trovano in Africa, dove le pene vanno da più di 10 anni di reclusione, all’ergastolo, alla pena di morte o alla cosiddetta Jungle Justice (l’uccisione extra-giudiziaria o l’esecuzione pubblica, dove una persona viene umiliata, picchiata e poi giustiziata dalla folla). Mentre in Paesi in cui viene praticata la Sharia, i gay musulmani sono lapidati a morte. Condizioni che continuano a mettere le comunità lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer e intersessuali (LGBTQI) africane in una situazione di sfida costante per riuscire a guadagnare spazio e riconoscimento dei propri diritti in una società dominata da un sistema patriarcale.
Sebbene in Africa le leggi anti-sodomia introdotte durante l’era coloniale vengano ancora applicate per vietare e criminalizzare relazioni omosessuali, le élite africane – che includono leader politici religiosi e di comunità – spesso affermano che l’omosessualità è un tabù, che non ha mai fatto parte della cultura africana e che è solo una malattia importata dall’Occidente. Convinzioni che continuano ad influenzare negativamente gli atteggiamenti nei confronti delle comunità LGBTQ, diffondendo omofobia, lesbofobia, transfobia. Atteggiamenti fondati sulla paura, che trovano modi di perpetuarsi sulla base dell’ignoranza e della pigrizia culturale e politica e che trovano una collocazione strutturale nei dispositivi di potere nell’Africa contemporanea.
Secondo la storia africana pre-coloniale, l’omosessualità esisteva in Africa molto prima che il continente fosse colonizzato. Sebbene le parole inglesi “gay, lesbian, homosexual o queer” non venivano utilizzate per descriverle, numerose prove raccolte da antropologi e altri studiosi hanno dimostrato che le pratiche dello stesso sesso e le diverse sessualità possono essere trovate in tutto il continente e sono antecedenti alla colonizzazione. Le società africane tradizionali non sembravano stigmatizzare le pratiche omosessuali, e non ci sono esempi di sistemi di credenze africane tradizionali che parlassero delle relazioni omosessuali come peccaminose o le collegassero a concetti di malattia o salute mentale – tranne dove sono stati adottati il cristianesimo e l’Islam.
Il caso più noto di possibile omosessualità in Africa che risale all’antico Egitto è quello dei due alti funzionari, Nyankh-Khnum e Khnum-Hotep. Entrambi gli uomini servirono sotto il faraone Niuserre e avevano una propria famiglia con figli e mogli, ma quando morirono le loro famiglie decisero di sepperllirli insieme nella stessa tomba mastaba.
Anche le pitture rupestri dell’antica San vicino a Guruve in Zimbabwe, risalenti a 2000 anni fa, mostrano scene esplicite tra maschi che copulano. “Non era un segreto che Mwanga II, il re di Buganda del XIX secolo, attuale Uganda, fosse gay” – scrive la studiosa ugandese Sylvia Tamale nel suo articolo intitolato Homosexuality is not un-African. I giovani che prestavano servizio nelle corte reali ugandesi, fornivano anche servizi sessuali ai visitatori e alle élite. Il re Mwanga II fece giustiziare diversi di questi uomini al suo servizio quando rifiutavano di svolgere i compiti loro assegnati o si convertivano al cristianesimo. Nel Nord del Paese, i maschi effeminati tra Langi erano trattati come donne e potevano sposare uomini. Questo sempre durante il periodo pre-coloniale. I ruoli religiosi per uomini travestiti (sacerdoti omosessuali) sono stati storicamente trovati anche nel popolo Bunyoro.
Documenti mostrano che anche in Zambia giovani e uomini adulti avevano contatti sessuali durante i riti di circoncisione. Inoltre, non erano solo gli uomini ad essere coinvolti nelle relazioni omosessuali. Il matrimonio tra donne, in cui una di loro paga il prezzo della sposa per acquisire i diritti di un marito, è stato documentato in più di trenta popolazioni africane, Boy-Wives and Female Husbands è un lavoro di qualche anno fa ancora di grande interesse.
Anche nel Nord Africa ci sono alcune tradizioni di omosessualità visibili e ben documentate, in particolare durante il periodo del dominio Mamelucco. La poesia araba che emergeva dalle società colte e cosmopolite descriveva spesso i piaceri delle relazioni pederastiche. Ci sono resoconti di ragazzi cristiani inviati dall’Europa per diventare prostituti in Egitto. Al Cairo, uomini travestiti chiamati “Khawal” intrattenevano il pubblico con canti e balli (probabilmente di origini pre-islamica).
L’oasi di Siwa in Egitto è stata descritta da diversi viaggiatori dell’inizio del XX secolo come un luogo in cui i rapporti sessuali tra persone dello stesso sesso erano abbastanza comuni. Un gruppo di guerrieri in questa zona era noto per aver pagato la dote agli uomini più giovani; una pratica messa fuori legge negli anni Quaranta.
Siegfried Frederick Nadel, antropologo britannico, scrisse delle tribù Nuba in Sudan alla fine degli anni ’30. Notò che tra gli Otoro esisteva uno speciale ruolo travestito in base al quale gli uomini si vestivano e vivevano come donne. L’omosessuale travestito esisteva anche tra le persone di Moru, Nyima e Tira e riportava i matrimoni di Korongo londo e Mesakin Tubele al prezzo della sposa di una capra. Nelle tribù Korongo e Mesakin, Nadel riferì di una riluttanza comune tra gli uomini ad abbandonare il piacere della vita del campo tutto maschile per le catene dell’insediamento permanente di un matrimonio.
La non conformità di genere e l’omosessualità sono state segnalate anche in numerose società dell’Africa orientale. Nell’era pre-coloniale ci sono stati esempi di sacerdoti maschi nelle religioni tradizionali che si vestivano da donne. L’antropologo Rodney Needham ha descritto un tale ruolo di leadership religiosa chiamato Mugawe tra il popolo Meru e Kikuyu del Kenya. Includeva indossare abiti e acconciature femminili. Tra i Mugawe non era raro trovare omosessuali, talvolta formalmente sposati con un uomo. Tali uomini erano conosciuti come “Ikihindi” anche tra i popoli Hutu e Tutsi del Burundi e del Ruanda. Un ruolo simile è svolto da alcuni uomini all’interno del Mashoga di lingua swahili, che spesso assumono nomi di donne e cucinano e puliscono per i loro mariti.
Nell’Etiopia meridionale, tra il popolo Maale, l’antropologo Donald Donham ha documentato “una piccola minoranza (di uomini) passata a ruoli femminili chiamati Ashtime che avevano rapporti sessuali con uomini, si vestivano da maschi e facevano compiti maggiormente svolti da donne, si prendevano cura delle proprie case e dei loro mariti“.
In Africa occidentale ci sono ampie prove storiche dell’omosessualità. Nel XVIII e XIX secolo gli schiavi maschi delle corti degli Ashanti nell’attuale Ghana servivano come concubine, si vestivano come donne e venivano uccise quando il padrone moriva. Nel regno di Dahomey l’attuale Repubblica di Benin, gli eunuchi erano conosciuti come mogli reali e svolgevano un ruolo importante a corte. E il popolo Dagaaba, in Burkina Faso, credeva che gli omosessuali fossero in grado di mediare tra gli spiriti e il mondo umano.
Nell’Africa contemporanea, la visibilità di persone gay, lesbiche bisessuali e queer è sempre stata una grossa battaglia che non ha avuto molti successi. La percezione di non poter essere visibili dentro alla famiglia è dovuta al fatto che in questo contesto sono avvenuti molti attacchi: casi di stupri definiti come azioni correttive su ragazze lesbiche da parte di zii e fratelli, abusi verbali quotidiani, violenze domestiche psicologiche, e omicidi da parte di membri della famiglia.
Eppure, la ricerca di visibilità nella società in generale ha aiutato a creare una figura più ampia della loro esistenza e lotta. Lotta che spesso si traduce nella formazione di collettivi, ad esempio il gruppo Amkeni a Malindi e altri tipi di mobilitazione e networking per LGBTQI che aiutano a farsi riconoscere dalla società.
Anche a livello di legislazioni statali, come ad esempio per la questione dei diritti legali o la discriminazione dell’atto sessuale gay qualcosa si sta muovendo. Paesi come il Bostwana, Sud Africa, Gabon, e Capo Verde hanno riconosciuto i diritti LGBTQI, ribaltando quelle leggi che criminalizzano le relazioni tra persone dello stesso sesso. Nonostante questi esempi, l’omofobia è ancora molto diffusa e le persone LGBTQI continuano a morire e soffrire nel silenzio e nell’invisibilità, costretti spesso a vivere in solitudine, scacciati dalla società, perdendo così i legami della comunità.
Il dolore di essere sempre emarginati e il desiderio di normalizzare le relazione LGBTI e le esperienze queer hanno fatto sì che anche l’industria cinematografica si impegnasse a sfidare le convinzioni secondo cui l’omosessualità è immorale. Due donne nigeriane, la produttrice Pamela Adie e la regista Ikpe-Etim hanno accettato di girare il film Ìfé (significa “amore” nella lingua yoruba del Sud della Nigeria).
Racconta la storia d’amore tra due ragazze lesbiche nigeriane, ma la Nigeria Film and Video Censors Board (NFVCB), il consiglio nazionale nigeriano per la censura dei film, afferma che non sarà diffuso in quanto viola le rigide leggi del Paese in materia di omosessualità. Le due donne affrontano ora la prospettiva di essere incarcerate se continueranno ad ignorare l’avvertimento delle autorità.
Queste è stato anche il destino di Rafiki, primo film dal Kenya e dai Paesi dell’Africa Orientale su una relazione lesbica, presentato in anteprima al festival di Cannes dove ha ricevuto anche una nomination all’Oscar. Citiamo anche Inxeba/The Wound, selezionato all’Oscar nel 2014, film sudafricano su una relazione tra due gay nel contesto del rituale di iniziazione Xhosa. Questo film è stato bandito dai cinema sudafricani nel 2018, nonostante il Paese abbia decriminalizzato le leggi anti-gay. Stories of Our Lives, è un altro lavoro keniota realizzato dai membri di un collettivo artistico e LGBTQ “The Nest Collective” con sede a Nairobi. Si tratta di un’ antologia di cinque cortometraggi che drammatizzano storie vere della vita LGBTQ nel Paese.
Nonostante le difficoltà, le comunità LGBTQ in Africa stanno gradualmente acquisendo fiducia in loro stesse, diventando sempre più visibili grazie anche a Internet che ha fornito uno spazio per film, talk show e riviste online come HOLAAFRICA e anche romanzi come “Under the Udala Tree, Queer Africa“ e molte altre iniziative che incoraggiano una maggiore tolleranza tra le giovani generazioni.
Infine, sebbene la Commissione Africana sui Diritti dell’Uomo e dei Popoli sia stata incaricata di garantire che gli Stati membri dell’Unione Africa proteggano i diritti di tutti, attraverso i principi sanciti dalla Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli e dall’Agenda 2063: l’Africa che vogliamo – dove si parla anche di ripudio delle discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale – tali documenti sembrano delineare solo ambiziose aspirazioni di inclusione, non fornendo in realtà elementi sostanziali per garantire il rispetto dei diritti delle persone LGBTQI nei Paesi africani.