Il 28 febbraio scorso, la Turchia annunciava l’apertura delle sue frontiere, dichiarando: “non siamo più in grado di trattenere i profughi“. In men che non si dica, migliaia di migranti si riversavano lungo il confine con la Grecia nella vana speranza di raggiungere il suo territorio. Il resto della storia è purtroppo noto.
Gli ellenici non hanno preso bene la decisione turca. In particolare, a Lesbo si sono verificate aggressioni, ronde per strada, atti di violenza da parte degli abitanti dell’isola, anche contro giornalisti e operatori umanitari. Le ONG sono state costrette a sospendere le loro attività per meglio capire come riorganizzarsi e, in alcuni casi, a lasciare i luoghi dai quali operavano. E le immagini della brutalità messa in atto dalla Guardia costiera greca hanno fatto il giro del mondo.
Del resto, il rischio che la situazione sulle isole greche potesse implodere era da tempo stato denunciato da diverse parti. Le comunità locali, da mesi, chiedevano maggiore tutela dei loro diritti e interessi. Mentre, le condizioni di vita nei campi profughi continuavano a essere sempre più insostenibili.
Atene, nel tentativo di arginare i nuovi arrivi, ha decretato la sospensione per un mese – a partire dal 1° marzo – del diritto di asilo, esacerbando oltremodo un contesto già di per sé piuttosto difficile.
E difatti, il quadro è progressivamente peggiorato anche lungo la barriera metallica posta a divisione tra i due Paesi. I militari greci sono stati schierati per impedire il passaggio dei profughi, anche mediante l’uso della forza. Le azioni coercitive della polizia hanno trovato il supporto di alcuni gruppi estremisti, in primis Alba Dorata, giunti al confine per scacciare gli “invasori”. Dal canto suo, Ankara ha inviato le forze speciali con l’ordine di contrastare i respingimenti.
Secondo Human Rights Watch, la Grecia ha negato il diritto di asilo a circa 625 persone arrivate tra l’1 e il 18 marzo, di queste: 189 sono detenute sull’isola di Lesbo in condizioni inaccettabili. Mentre 436 sono state trasferite con una nave da guerra nel “centro chiuso” di Malakassa – a nord della capitale – e non si hanno notizie circa il loro stato di salute.
Oggi, le informazioni si susseguono a ritmo meno febbrile. L’emergenza “coronavirus” ha in parte spostato altrove l’attenzione mediatica. Certo è che alle porte dell’Europa stiamo assistendo, nella totale inerzia dell’Unione Europea, a un vero e proprio scempio umanitario.
Voci Globali con l’aiuto dell’avvocato Federico Lera – esperto in diritto dell’immigrazione, membro del direttivo regionale ligure dell’Unione Forense per la Tutela dei Diritti Umani (UFTDU) e legale dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) – ha ricostruito l’intera vicenda alla luce delle norme internazionali in materia di rifugiati e diritti umani. Le misure adottate dal Governo ellenico e il trattamento riservato ai profughi, infatti, non risultano soltanto deplorevoli sotto il profilo umano ma parrebbero altresì giuridicamente illecite.
La Grecia ha invocato l’art. 78, comma 3, del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) al fine di sospendere il diritto dei nuovi arrivati a richiedere la protezione internazionale. La base legale richiamata è corretta?
L’azione del Governo greco si colloca senza alcun dubbio al di fuori di qualsiasi previsione normativa del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea. L’articolo citato, in realtà, prevede che “qualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso” di cittadini extracomunitari, il Consiglio – su proposta della Commissione – può adottare “misure temporanee a beneficio” dello Stato interessato previa consultazione del Parlamento europeo. Si può quindi intuire, che non esiste alcun meccanismo legittimo volto a permettere alla Grecia di sospendere l’efficacia di norme di diritto internazionale, quali la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo “Statuto dei Rifugiati” e successivi protocolli.
L’UNHCR ha immediatamente sottolineato che accanto al diritto di ogni Stato di difendere le proprie frontiere c’è il dovere dello stesso di “assicurare il funzionamento dei sistemi volti a prendere in carico le domande di asilo secondo procedure ordinate”. Può spiegarci meglio il significato di queste affermazioni?
Le Nazioni Unite hanno voluto denunciare a gran voce l’illiceità del comportamento tenuto da Atene. Senza mezzi termini, è stato sottolineato come quest’ultima non possa in alcun modo impedire l’ingresso sul proprio territorio alle persone che – per le ragioni più disparate – intendono chiedere protezione internazionale. Peraltro, il documento ribadisce un concetto noto ovvero che l’accesso “senza alcun pregiudizio, ad una regolare e veloce procedura per la richiesta di asilo” deve essere garantito anche ai soggetti entrati irregolarmente nel Paese. Dalla pronta replica dell’UNHCR si desumono due elementi fondamentali. Da un lato, uno Stato, nell’esercizio dei suoi poteri sovrani, è senz’altro nella posizione di adottare misure atte alla difesa dei suoi confini. Dall’altro, tali misure non devono però contemplare procedure finalizzate a bloccare e respingere persone che non costituiscono una minaccia diretta per il Paese stesso. Va, inoltre, considerato che il “diritto di asilo” è inderogabile. La Convenzione di Ginevra non prevede, infatti, eccezioni alle prerogative in essa contenute neppure in circostanze eccezionali.
Questo vuol dire che la Grecia neanche in una situazione come quella attuale caratterizzata dalla pandemia di Covid-19 è titolata a sospendere il diritto di asilo?
Esatto. In tal caso, per fronteggiare l’eventuale afflusso improvviso di cittadini extracomunitari, il Governo ellenico – come qualsiasi altro Stato europeo –potrebbe avvalersi del summenzionato art. 78, comma 3, del TFUE. Si vedrebbe così riconosciute dalle istituzioni europee le cosiddette “misure temporanee a beneficio”, che consistono in aiuti economici o supporto operativo per meglio gestire il flusso (fondi speciali, ridistribuzione, alleggerimento della pressione migratoria).
In quale momento un migrante acquisisce lo status di “richiedente asilo”, diventando così titolare delle garanzie giuridiche previste dalla Convenzione sui rifugiati del 1951? In altre parole, i profughi al confine greco-turco possono essere qualificati come tali?
Lo status di “richiedente asilo” si acquisisce nel momento in cui viene formalmente manifestata la volontà di ottenere protezione internazionale, attraverso le specifiche modalità previste dall’ordinamento giuridico del Paese ove il “migrante” si trova o in cui vuole fare ingresso. La corretta operatività di questo meccanismo risiede nell’assunto che il soggetto in questione abbia libertà di accesso al territorio di uno degli Stati UE proprio al fine di presentare la sua domanda. È piuttosto comune che un “richiedente asilo” arrivi in modo irregolare.
Non bisogna dimenticare che siamo di fronte a persone che fuggono da situazioni “particolari” esistenti all’interno del Paese di provenienza. Non a caso, la Convenzione di Ginevra disciplina le varie ipotesi in virtù delle quali è possibile effettuare domanda di asilo, tra cui: persecuzioni politiche o religiose, discriminazioni basate su sesso, razza, orientamento sessuale. O ancora, il rischio di subire atti di tortura, trattamenti inumani/degradanti, passando per scenari di guerra, fame, cambiamenti climatici.
È chiaro che ci siano anche “migranti economici”. Tuttavia, la natura della fuga non può essere determinata alle frontiere di uno Stato ma deve essere valutata da competenti organismi territoriali. È la loro pronuncia a stabilire le sorti della persona in questione, che nelle more della decisione dovrà comunque essere inserita nel percorso di accoglienza. Se la protezione internazionale sarà riconosciuta le verrà rilasciato un permesso di soggiorno regolare. In caso contrario, scatteranno le procedure di espulsione.
In base alle sue precisazioni, le migliaia di persone che premono al confine greco-turco sarebbero da considerarsi come “semplici” migranti e pertanto non rientranti in una categoria giuridica disciplinata. Sono quindi sprovvisti di qualsivoglia forma di tutela?
Allo stato attuale, volendo usare i termini in maniera corretta, le persone di cui stiamo parlando sono migranti o profughi che dir si voglia, ovvero uomini, donne e bambini in fuga per motivi seri dalle loro terre. Questo però non vuol dire che siano privi di tutela o che la Grecia possa attuare nei loro confronti il comportamento che più ritiene opportuno per ragioni di mera politica o propaganda.
Il “diritto di asilo”, invero, non si esaurisce nel riconoscimento della protezionale internazionale. Ma abbraccia l’obbligo per gli Stati di assicurare il libero funzionamento del processo di richiesta della stessa. Le domande – laddove previsto dal diritto interno – possono essere presentate già presso l’Ufficio di Polizia di Frontiera prima dell’ingresso su un territorio statale.
Non vi sono presupposti per ritenere che le persone ammassate al confine greco-turco o quelle trasferite nel centro chiuso di Malakassa non debbano vedersi garantita l’opportunità di chiedere “asilo”. La loro condizione oggettiva e i pericoli che gli stessi correrebbero ove riconsegnati ai Paesi di origine fanno sì che la Grecia sia tenuta a farsi carico delle loro istanze. Mi riferisco, in particolare, ai cittadini siriani qualificabili a priori come titolari di protezione nella misura in cui stanno scappando da un conflitto inumano ancora in corso.
Al netto delle norme in materia di asilo, va poi tenuto conto che questi profughi in quanto individui godono dei diritti umani fondamentali sanciti in varie convenzioni internazionali, di cui sia la Grecia che la Turchia sono parti.
A proposito di diritti umani, Human Rights Watch, il 17 marzo, ha denunciato una serie di abusi commessi ai danni dei profughi. Questi sarebbero stati detenuti in modo arbitrario in una “prigione” segreta nel nordest del Paese, “aggrediti anche a livello sessuale, privati dei loro effetti personali, spogliati e rispediti in Turchia”. In via teorica, non avendo al momento elementi concreti, quali violazioni dei diritti umani si starebbero configurando?
L’elenco dei diritti negati è indubbiamente lungo. In primo luogo, la Grecia sta agendo in palese violazione del principio di “non-refoulement” – fissato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra e dal Protocollo n. 4 alla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo – con l’aggravante di utilizzare su persone in evidente stato di necessità una forza sproporzionata alla “minaccia” presunta. A questo si aggiunge, il negato accesso a servizi essenziali (assistenza, giustizia, salute), che può essere ritenuto contrario allo spirito stesso della Convenzione di Ginevra.
C’è poi l’inosservanza del diritto alla vita, considerando le persone uccise nelle violenze scatenate dalle autorità o dai gruppi paramilitari intervenuti per bloccare il loro arrivo. E ancora, la violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti ove venissero accertati gli abusi nei campi o nelle presunte “carceri” segrete.
In un momento storico come questo, con l’imperversare della pandemia di Covid-19, non possiamo ignorare la necessità di tutelare anche il loro “diritto alla salute“, richiamato sia dalla CEDU (artt. 2, 3 e 8) sia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE (art. 35), e definito in modo specifico e privilegiato nelle previsioni della Carta Sociale Europea (art. 11).
Ha citato la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, di cui Grecia e Turchia sono parti. Ma la CEDU si applica anche ai migranti, richiedenti asilo e rifugiati, trattandosi di cittadini di Paesi terzi?
Non serve essere cittadino europeo per rivolgersi alla Corte EDU. L’art. 1 della Convenzione, infatti, stabilisce che la stessa si applica a tutti gli individui “sottoposti alla giurisdizione” di uno Stato parte a prescindere dalla loro nazionalità. Di conseguenza, qualsiasi persona fisica, organizzazione non governativa o gruppo di privati, qualora ritenga di essere stata “vittima” di una violazione può presentare un ricorso. Più che altro, va tenuto conto che l’accesso a questo meccanismo giurisdizionale non è immediato.
La Corte EDU rappresenta un giudice di ultima istanza. Pertanto, un individuo deve aver prima esaurito tutti gli strumenti di tutela messi a disposizione (almeno sulla carta) dallo Stato di riferimento (nella fattispecie la Grecia) con l’evidente necessità di essere assistito da professionisti. Non per niente, nella stragrande maggioranza dei casi, queste persone riescono a far valere le proprie ragioni unicamente grazie al supporto di associazioni a tutela dei diritti umani. Diverse organizzazioni mettono a disposizione le proprie competenze giuridiche.
A titolo esemplificativo, cito la famosa causa “Hirsi Jamaa e altri c. Italia“, dove i ricorrenti sono stati patrocinati da avvocati appartenenti all’Unione Forense per la Tutela dei Diritti Umani (UFTDU). Mentre nel recente caso dei cinque minori stranieri “reclusi” nel Campo di Accoglienza e Identificazione dell’Isola di Samos, l’assistenza è stata fornita dai legali dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI).