Il 14 marzo 2022, la notizia relativa al presunto bando dei pellegrini etiopi che si apprestavano a raggiungere Israele in occasione della Pasqua ha riacceso le tensioni tra lo Stato ebraico e la comunità etiope che attualmente è composta da circa 159.500 individui (rilevamenti effettuati nel 2020). Le autorità israeliane giustificano questo stop in quanto le brevi permanenze legate a motivi religiosi potrebbero prolungarsi oltre i termini stabiliti dalla legge israeliana. Il possibile overstaying sarebbe determinato dal conflitto in corso nel Paese tra il Governo di Addis Abeba e il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè.
Negli scorsi anni è tornata al centro dell’attenzione la questione dei cosiddetti Falashamura. Tale gruppo comprende una parte della popolazione etiope che vanta legami diretti con la fede ebraica. Localizzati principalmente nelle zone di Gondar e Addis Abeba, i Falashamura hanno riscontrato un’estrema riluttanza da parte di Tel Aviv nell’accogliere le proprie richieste di trasferimento nel Paese. Cosa che ha suscitato le proteste da parte della comunità etiope. Pertanto, la questione sollevata riporta il focus sui rapporti piuttosto complessi tra le autorità israeliane e i propri cittadini di origine etiope.
Per comprenderne le implicazioni è opportuno ripercorrere la storia della comunità etiope in Israele. In più, un riesame della politica migratoria e del progetto di nation building israeliani appaiono cruciali.
All’indomani della sua nascita, lo Stato di Israele inaugurò una politica migratoria centralizzata e verticistica con a capo l’Agenzia Ebraica come autorità coordinatrice di una politica di assimilazione che prese il nome di Mizug Galuyot, letteralmente “Mescolanza degli esili”.
Tale concetto presenta delle similitudini rilevanti con il corrispettivo Melting Pot statunitense ideato nei primi anni del Novecento. A portare avanti questo tipo di politica fu la classe dirigente di orientamento sionista afferente al Partito Laburista. La compagine socialista dominò la politica del Paese fino agli inizi degli anni Novanta. I dirigenti laburisti teorizzarono una perfetta dissoluzione delle varie comunità ebraiche all’interno del progetto sionista, dando vita ad una nuova nazione. I risultati del Melting Pot israeliano, tuttavia, dimostrano una realtà dei fatti alquanto distante dagli auspici elaborati all’inizio degli anni Cinquanta.
Lo spartiacque fu nello specifico l’arrivo di un numero rilevante di individui dall’Etiopia agli inizi degli anni Ottanta. Beta Israel, ossia “Casa di Israele”, che raccoglieva una parte rilevante della popolazione ebraica presente sul territorio nelle regioni del Tigrè e del Wolkait. Nel 1974 l’imperatore Haile Selassiè venne deposto dalla giunta militare socialista guidata da Mengistu Haile Mariam. La popolazione ebraica iniziò a spostarsi verso il Sudan nel tentativo di raggiungere come meta finale Israele.
A causa delle condizioni precarie e delle violenze perpetrate dalle autorità sudanesi da una parte e da quelle del regime etiope dall’altra, venne organizzata tra il 1984 e il 1985 l’Operazione Mosè, con la quale lo Stato Ebraico organizzò il trasferimento di circa 6.700 persone. Inizialmente vi fu entusiasmo da parte dell’opinione pubblica israeliana e delle stesse autorità, che organizzarono l’assistenza e i servizi necessari per l’accoglienza degli etiopi. In seguito, questo coinvolgimento divenne affanno, vista l’insufficienza dei mezzi messi a disposizione e i bias all’interno della politica di assimilazione.
Il Governo inserì gli aliyah (letteralmente “nuovi arrivati”) appena giunti nel Paese all’interno di un programma di “risocializzazione” dei nuovi membri della comunità, per favorire il loro assorbimento all’interno della società israeliana.
Dal punto di vista religioso e culturale la popolazione etiope mostrò delle differenze tangibili. Le pratiche religiose erano frutto di un passato storico autonomo, legato alle specificità del territorio in cui essa si era sviluppata. L’approccio israeliano fu quello di omogeneizzare l’intero substrato culturale nella speranza di annullare il divario riscontrato rispetto al resto delle comunità presenti sul territorio.
Nella realtà dei fatti, fenomeni di marginalizzazione e di dipendenza nei confronti delle autorità israeliane interessarono gli etiopi fin dal primo momento, poiché le istituzioni non riuscirono a favorire l’emancipazione della popolazione migrante. L’inadeguatezza della politica israeliana divenne maggiormente visibile nel 1991. In vista della caduta del regime di Mengistu, il Governo israeliano organizzò una nuova operazione di trasferimento, che prese il nome di Operazione Salomone.
Gli anni Novanta coincisero con il tramonto del Partito Laburista e con esso venne meno anche il progetto della Mizug Galuyot, lasciando terreno ad una visione neoliberista e individualista anche del sistema di accoglienza, rispondendo agli stimoli provenienti dalla globalizzazione e dall’egemonia politica stabilita dall’unipolarismo statunitense.
Per alcuni individui della diaspora etiope questo periodo rappresentò delle significanti aperture politiche e fisiche nei confronti del proprio Paese d’origine. Essi riuscirono a sviluppare una dimensione transnazionale e di doppia presenza tra la realtà israeliana e quella etiope. Per la maggior parte tuttavia, tale decennio dimostrò i limiti della politica di accoglienza israeliana.
Gli etiopi affrontarono ben presto una forte marginalizzazione dal punto di vista economico e sociale. La ghettizzazione in aree decentrate e svantaggiate delle città e l’impatto con il razzismo culturale della società israeliana ebbe un impatto drammatico. Gli etiopi, in particolare le seconde generazioni, presero coscienza del paradosso rappresentato dalla propria vicenda migratoria.
Convinti di aver raggiunto la propria terra di appartenenza ideale, essi si trovarono ad essere “neri” in un Paese a maggioranza bianca che fino a quel momento non aveva mai avvertito la necessità di mettere in discussione il proprio modello di costruzione nazionale. Questa realtà divenne manifesta nel 1996 quando la stampa rese nota la distruzione da parte di alcune banche del sangue costituite da cittadini di origine etiope, sulla base dell’idea che fossero maggiormente interessate da un’alta incidenza di virus tra cui l’HIV.
La frustrazione degli etiopi si è unita alla mancanza di una effettiva presa di distanza da parte delle autorità. Quest’ultime, nel frattempo, si impegnarono a favorire l’ingresso e l’assorbimento di nuovi flussi migratori verso il Paese dall’ex Unione Sovietica. In particolare, l’insediamento della comunità russa avrebbe dovuto controbilanciare la crescita della popolazione palestinese. Tale atteggiamento acuì il senso di alienazione delle nuove generazioni. I cittadini russi affrontarono percorsi radicalmente differenti rispetto a quelli riservati agli etiopi. Questo non fece che denotare la differenza di trattamento riservata a questi ultimi negli anni precedenti
Il nuovo millennio ha visto una forte mobilitazione politica della comunità etiope. Se da una parte alcuni hanno scelto di ricercare una sintesi tra il proprio retroterra migratorio e la società israeliana, dall’altra è rilevante osservare come una parte consistente dei membri più giovani della comunità abbia avvertito il bisogno di elaborare una propria contro-cultura, adottando modelli sociali e linguaggi affini alla comunità afroamericana e afrocaraibica.
Tra le problematiche emerse negli ultimi anni, spiccano dinamiche di profilazione razziale e l’uso sproporzionato della forza da parte delle forze di polizia israeliane. Entrambe, si ricollegano al problema più ampio della persistenza di un razzismo istituzionalizzato all’interno dello Stato israeliano.
Esso riguarda ampiamente le varie minoranze presenti nel Paese, senza contare le ripercussioni drammatiche sulla popolazione palestinese. Sulla base di queste rivendicazioni si sono svolte le proteste contro la brutalità della polizia del 2015 e di nuovo nel 2019 a seguito dell’uccisione di Solomon Tekah, nei pressi di Haifa.
L’analisi dei rapporti tra cittadini di origine etiope e autorità nazionali pone in discussione l’effettiva riuscita della politica di assimilazione caldeggiata da Israele. La sua presunta capacità di contenere e dissolvere allo stesso tempo le specificità non sembra aver annullato le distanze tra i vari gruppi. Inoltre, possono essere tracciati dei parallelismi con altre minoranze presenti sul territorio israeliano.
Attualmente altre minoranze hanno un rapporto spinoso e in alcuni casi conflittuale con il processo di costruzione nazionale. Nello specifico la comunità mizrahim offre degli spunti di riflessione. Essa è composta dalla diaspora ebraica dai Paesi arabi e dal Nord Africa a partire dagli anni Cinquanta. Come nella comunità etiope sono presenti delle discriminazioni in campo economico e delle opportunità lavorative.
Il divario riscontrato tra i mizrahim e la comunità ashkenazita e sefardita (i principali gruppi bianchi di origine europea) in campo educativo, di genere e nel mercato del lavoro, mostrano come i risultati del Melting Pot israeliano debbano essere necessariamente problematizzati e analizzati in chiave critica.
Un altro esempio calzante può essere rintracciato nelle animate proteste della comunità drusa che si sono svolte nel 2018 contro il disegno di legge promosso dall’allora primo ministro Benjamin Netanyahu per qualificare ufficialmente lo Stato israeliano come Stato Ebraico.
La tendenza spregiudicata verso l’uniformità culturale si è accompagnata – così come il proseguimento di una politica di espansione e segregazione – a danno della popolazione palestinese. L’approccio adottato da Israele negli anni, denota l’impellenza di una valutazione critica del processo di costruzione nazionale, che ad oggi appare tutt’altro che risolto.