Di migrazione si parla spesso in termini emergenziali. Ascoltiamo notizie su flussi migratori, profughi, trafficanti, espulsioni, confini. Su numeri. Sappiamo invece poco su coloro che lasciano tutto e affrontano un viaggio a volte mortale.
C’è una storia che colpisce e che – con poche seppure qualificate eccezioni – passa sostanzialmente sottotraccia: quella degli Yazidi che, a sette anni dal genocidio compiuto da Da’esh, lottano ancora giorno dopo giorno per ottenere giustizia e sostegno e per costruire la speranza di una vita (finalmente) serena e sicura, anche se, per averla, sono a volte costretti a fuggire. Anche verso l’Europa.
Se sul fronte delle migrazioni la situazione è tuttavia legata all’indisponibilità dell’Europa ad accogliere, su quello della giustizia forse qualcosa finalmente si muove.
Della situazione attuale del popolo yazida, tra migrazione, reinsediamento e giustizia, parliamo con due persone che hanno accettato di condividere con Voci Globali la propria esperienza umana, professionale e di attivismo: Marta Bellingreri, giornalista e scrittrice indipendente, esperta di Medio Oriente e Nord Africa, inviata di recente in Siria ed Iraq, e Murad Ismael, attivista yazida, presidente e cofondatore di Sinjar Academy, cofondatore ed ex direttore esecutivo della ONG Yazda.
Sarcofago Europa
Nel campo della gestione delle migrazioni, l’Unione Europea e gli Stati membri seguono, pur attraverso linguaggi e sfumature differenti, lo stesso identico percorso: rinchiudersi – apparentemente senza capirne fino in fondo i costi e le conseguenze – all’interno di un sarcofago, strenuamente ancorati non alle proprie radici (come ipocritamente ventilato dalla propaganda identitaria) ma a stantii e insostenibili privilegi, lasciando gli altri fuori, il più lontano possibile e rinunciando così al rispetto dei diritti umani e persino del diritto interno e internazionale (a partire da quello d’asilo).
Eppure, come ci dice Murad Ismael: “la migrazione è un problema globale legato all’instabilità, ai conflitti e al terrorismo. Il fallimento della comunità internazionale in Iraq, Siria, Yemen, Afghanistan, Libia e in altri Paesi è uno dei principali fattori di migrazione; in ognuno di questi Paesi, la comunità internazionale, compresa l’Europa, è fortemente coinvolta”.
Al di là delle specificità, dell’opportunismo degli Stati, della totale inumanità con la quale vengono trattate le persone migranti, delle similitudini tra le frontiere, è necessario sottolineare la vergognosa e vile ipocrisia europea nel suo respingere persone provenienti da quei Paesi che pure considera (nelle altisonanti dichiarazioni ufficiali) degni di attenzione, cura e sostegno.
Ad esempio, ingabbiate nei gelidi boschi al confine tra Polonia e Bielorussia abbiamo visto, e in parte vediamo ancora, famiglie provenienti principalmente da Afghanistan e Iraq. E molte delle persone provenienti dall’Iraq fanno parte delle minoranze irachene perseguitate e martoriate dai regimi, sostanzialmente abbandonate (più volte) dalla cosiddetta comunità internazionale.
Su tutte, la presenza di persone appartenenti ad una di queste minoranze dovrebbe destare scalpore perché vittime dell’ultimo genocidio ufficialmente confermato dall’ONU: quello degli yazidi.
Ci sono Yazidi bloccati al confine europeo?
“Non sappiamo quanti, ma ci sono; sicuramente sono tanti quelli che nelle ultime settimane sono stati rimpatriati dalla Bielorussia al Kurdistan iracheno” ci dice Marta Bellingreri. E se “la maggior parte degli Yazidi sono tornati in Iraq” precisa Murad Ismael “ci sono ancora alcune famiglie in Bielorussia e centinaia di persone nelle prigioni in Lituania, Lettonia e Polonia. Alcune di loro mi hanno contattato per chiedere aiuto”.
Ma chi sono gli Yazidi e che cosa hanno subito?
Gli Ēzidī (in curdo), Yazīdī (in arabo) sono una comunità religiosa di etnia e lingua curde, pacifica, chiusa ed endogamica, esigua nei numeri e molto localizzata geograficamente (principalmente nel nord dell’Iraq).
Nella loro storia hanno subito – principalmente a causa della religione professata – diversi attacchi, fino a quello – drammatico – avviato da Da’esh il 3 agosto 2014, le cui conseguenze si trascinano -dolorose e insolute- ancora oggi. Appena un mese dopo la conquista di Mosul e la restaurazione del cosiddetto Califfato islamico di Siria e del Levante, i miliziani jihadisti dell’ISIS sono arrivati da Mosul e Tal Afar nei villaggi della minoranza yazida nella piana di Nineveh (a est e a nord di Mosul) ed è iniziato l’assedio e l’occupazione: gli uomini che non si convertivano venivano uccisi, le donne e le ragazze venivano rapite per diventare schiave (anche sessuali), i bambini venivano tolti alle proprie famiglie e sottoposti a indottrinamento per essere “adottati” e diventare schiave (le bambine) o combattenti (i bambini).
Da’esh, che pure ha perseguitato tutte le minoranze (mandei, cristiani siriaci, musulmani sciiti, turcomanni), contro gli Yazidi ha attentamente pianificato ed eseguito con intransigenza e lucidità una vera azione genocida. L’obiettivo era quello di sradicarli, eliminarne le fondamenta culturali, distruggerne i templi, incendiarne case e campi, avvelenarne i pozzi.
Degli Yazidi non sarebbe dovuto rimanere nulla. Genocidio, appunto. Riconosciuto come tale dalla Commissione di indagine istituita dal Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, che il 26/06/2016 – nel suo report “They came to destroy: ISIS crimes against the Yazidis” ha ritenuto applicabile l’articolo 2 della Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio del 1948.
Situazione odierna
Dal genocidio sono passati oltre sette anni, alcune organizzazioni internazionali e associazioni locali supportano la popolazione, inoltre l’assegnazione nel 2018 del Nobel per la pace all’attivista yazida Nadia Murad per gli “sforzi volti a porre fine all’uso della violenza sessuale come arma di guerra e conflitto armato” ha certamente aiutato a far conoscere al mondo questo dramma. Tutto risolto, quindi? Non proprio.
Riportiamo – a tal proposito – un passaggio della lettera aperta che Nadia Murad, diverse ONG e associazioni hanno scritto in occasione della storica visita apostolica di Papa Francesco in Iraq, nel marzo 2021.
La minaccia di future atrocità da parte di Da’esh rimane chiara e presente nonostante la sconfitta territoriale del gruppo terroristico. Continuiamo a vedere discorsi di odio contro le minoranze promulgati da chierici estremisti in tutto l’Iraq mentre l’intolleranza rimane profondamente radicata a causa della mancanza di educazione sulle altre religioni e sui diritti umani. I recenti cambiamenti demografici nelle pianure di Ninive sono stati accompagnati da una maggiore presenza di gruppi di miliziani nella regione. L’inadeguatezza dei servizi e delle infrastrutture di base, insieme alla continua minaccia alla sicurezza, lascia le comunità con un senso di disperazione e senza speranza.
Proviamo a capire meglio qual è realmente la situazione oggi.
In assenza di dati ufficiali, diverse fonti forniscono indicazioni spesso dissimili. Murad Ismael ci spiega: “C’erano circa 550.000 Yazidi in Iraq prima del 2014. Da allora, circa 80.000 sono emigrati in Europa (principalmente Germania), Australia e Canada. Degli Yazidi rimasti in Iraq, quasi 210.000 si trovano nei campi profughi, 150.000 sono tornati a Sinjar e circa 100.000 sono a Walat, le aree yazide nella provincia di Dohuk nella regione del Kurdistan“.
Riguardo le vittime del genocidio, Marta Bellingreri chiarisce che, oltre le persone uccise, “ci sono circa 5.000 persone di cui si sono perse le tracce (2.800 donne tra queste), quindi sono ancora prigioniere o sono morte“.
Nelle terre degli Yazidi
“La città e la provincia di Sinjar, che ho visitato diverse volte in questi anni, rimangono ancora per la maggior parte in rovina” spiega Bellingreri “Ci sono diverse associazioni locali e internazionali che si occupano di servizi medici, anche psicologici, ma sono purtroppo insufficienti rispetto alla popolazione e alla povertà che permane“.
A proposito di povertà, Ismael ci chiarisce alcuni importanti aspetti: “La principale fonte di reddito per la gente di Sinjar è il denaro immesso nell’economia locale dalle ONG. Il Governo iracheno non ha stanziato alcun fondo per la regione. Non c’è nemmeno un’amministrazione locale per il distretto e i finanziamenti del Governo in gran parte non arrivano a Sinjar. La situazione economica non è buona, ma anche la sicurezza, per la disputa tra le varie forze che causa instabilità“.
Campi profughi
I circa 210.000 Yazidi che non sono (ancora) riusciti a tornare nella propria terra e che non hanno voluto o potuto cercare rifugio in altri Stati, vivono in campi profughi.
“Una quindicina di questi campi si trovano nella provincia di Dohuk e nel sottodistretto di Zakho, uno a Erbil e uno a Sulimaniya, tutti all’interno del governo regionale del Kurdistan“, chiarisce Murad Ismael.
Marta Bellingreri, sulla base di quanto verificato di persona, l’ultima volta a giugno 2021, ci parla di come si vive nei campi: “Ne ho visitato di ufficiali e informali e le condizioni non sono assolutamente delle migliori. Soprattutto in quelli informali le persone sopravvissute al genocidio, anche giovani donne sopravvissute alla violenza sessuale, rischiano oggi di morire di freddo o a causa di alluvioni o altro“.
Eppure in molti preferiscono rimanere in questi campi piuttosto che tornare in Sinjar. Ismael ci spiega il perché: “Stare nei campi è per alcuni versi migliore che stare nel Sinjar ora, ed è per questo che la gente non ritorna; la regione del Kurdistan ha un’economia migliore, è più vicina a scuole e ospedali ed è più sicura“.
“Come è tollerabile – con tutta la sofferenza che soprattutto le donne e i giovani ragazzi hanno vissuto – che non abbiano un luogo dignitoso in cui vivere? Una vergogna per i governi iracheno centrale, del Kurdistan iracheno e mondiali“, puntualizza Bellingreri.
A proposito di campi profughi, le associazioni per i diritti umani denunciano che quello di al-Hol ospita molte cosiddette “famiglie dell’Isis” e, sembra, molti bambini yazidi rapiti. È così?
“Sì, crediamo ancora che molti Yazidi si trovino nel campo e questi saranno per lo più bambini che sono stati rapiti da molto piccoli e che oggi non ricordano le loro famiglie o il fatto di essere yazidi. Non abbiamo un numero, ma forse sono centinaia“, ci rivela drammaticamente Ismael.
Bellingreri, su al-Hol, riporta le parole di Zied dell’associazione Bet Yazidi: “È un campo dove i civili per la maggior parte sono stati fedeli all’ISIS fino all’ultimo e quindi hanno creato un clima di paura e violenza che non ha permesso alle donne yazide di rivelare la loro vera identità“.
Diaspora
“Ci sono diversi Paesi che hanno accolto gli Yazidi, soprattutto Germania e Australia, ma anche Francia, Canada, Stati Uniti. La Germania, come coi Siriani, nel 2015 si è resa disponibile all’accoglienza, l’Australia ha un grande numero di iracheni da diversi anni“, chiarisce Bellingreri.
In Italia non c’è una numerosa comunità yazida, solo poche persone si trovano (per studio o ricongiungimento familiare) nel nostro Paese.
Yazidi (ancora) rapiti
Sono circa 5.000 gli Yazidi dispersi, probabilmente ancora rapiti. Sappiamo che alcune persone rapite sono tornate perché sono riuscite a fuggire dai loro rapitori (la testimonianza di Nadia Murad è importante anche in tal senso), molte altre sono tornate alla loro comunità perché – attraverso complessi giri di mediazione – le loro famiglie sono riuscite a trovarle e a pagare un riscatto.
Ma che ne è delle altre persone rapite? Che speranza c’è di ritrovarle?
Sia Bellingreri che Ismael concordano, tristemente, sul fatto che la speranza di ritrovare Yazidi rapiti sia ormai pochissima.
Secondo Marta Bellingreri “molte sono nella provincia di Idlib in Siria e forse anche in Turchia, insieme alle famiglie che le hanno adottate o -meglio – rapite/comprate“.
“Alcune“, aggiunge la giornalista, “non si ricordano del passato oppure se ne ricordano ma si sono completamente integrate volenti o nolenti alla famiglia siriana (o non) che le ha portate con sé“.
Murad Ismael evidenza anche la responsabilità dell’assenza di una strategia nazionale e internazionale per la ricerca dei sopravvissuti: “È molto molto più difficile ora salvare qualcuno, dato il tempo trascorso e dato che non c’è uno sforzo organizzato per la ricerca e il salvataggio“.
Ma qualcuno è stato salvato, negli anni. Molti dei rapiti, 7 anni fa, erano bambini piccoli e sono stati indottrinati a tal punto che la conoscenza della lingua e delle tradizioni yazide sembra essere stata sradicata.
Come aiutare e sostenere, all’interno della comunità yazida, i ragazzi e le ragazze rapite quando erano molto giovani?
“Ci sono delle associazioni che li stanno sostenendo (o provano a farlo), una di queste è Bet Yazidi in Siria, a volte però è tutto a carico delle famiglie“, ci dice Marta Bellingreri che poi apre alla speranza aggiungendo: “È difficile ma dipende molto dall’età: io ho conosciuto un bimbo che parlava solo inglese e arabo e ora invece è tornato alla sua lingua madre (curdo) grazie alla scuola e allo zio (i genitori sono stati uccisi nel genocidio)“. “È“, conclude la giornalista, “molto complesso ma non impossibile, dipende dal lavoro e dall’accoglienza ricevuti al ritorno“.
Speranza, e richiamo all’atteggiamento di resilienza dimostrato da millenni dal popolo yazida, anche nelle parole di Murad Ismael: “Ci vorrà un po’ di tempo perché la comunità yazida si riprenda completamente. Non è stato un periodo facile. Ma la nostra comunità ha visto eventi simili in passato e si è ripresa, e lo farà di nuovo. Molti bambini che hanno subito il lavaggio del cervello e che sono tornati alle loro famiglie si sono ripresi e sono tornati ad essere normali bambini yazidi (o adulti ormai), ma il trauma a livello individuale e collettivo è profondamente presente e ci vorranno molti anni per superarlo completamente“.
Bambini nati dalla violenza sessuale
Un freno al “voltare pagina” è anche la questione – divisiva, drammatica, dolorosa e delicata – dei bambini nati dalla violenza sessuale dei miliziani Da’esh, non riconosciuti e di fatto estromessi dalla vita della comunità yazida.
“Questo è sicuramente uno dei punti più difficili e controversi. Abbiamo -come Yazda- sempre chiesto che questi casi vengano affrontati uno per uno a seconda della situazione particolare della madre, dei bambini e della famiglia“, chiarisce Ismael, che prosegue: “Continuo a pensare che la cosa migliore per queste donne e questi bambini sia un nuovo inizio in un altro Paese“.
Dello stesso avviso Amnesty International che, tramite Matt Wells, vicedirettore del programma “Risposta alle crisi”, il 20 luglio 2020 affermava:
Queste donne sono state ridotte in schiavitù, torturate e sottoposte a violenza sessuale. Non devono subire alcun’altra punizione. Devono essere riunite coi loro figli e dev’essere impedita ogni futura separazione. Devono ricevere l’aiuto della comunità internazionale, tramite reinsediamento o ricollocamento coi loro figli, dato l’enorme pericolo in cui si trovano in Iraq.
Bellingreri aggiunge un importante tassello: “anche per questo molte donne hanno deciso di restare in Siria: per non lasciare i bimbi“.
Giustizia
La questione della giustizia è, lo sappiamo, spesso dirimente. Senza verità e giustizia le vittime continueranno a trovare un enorme ostacolo nel ricostruire una vita sulle (dolorose) macerie di quella precedente e il mondo resterà bloccato nella consapevolezza della sostanziale impunità goduta da chi commette crimini (anche atroci) e dell’abbandono delle persone più vulnerabili.
Ma di recente c’è stata in Germania una sentenza che potrebbe gettare un raggio di luce e di speranza nell’oscurità del limbo nel quale è precipitata la giustizia per il popolo yazida.
La prima sentenza al mondo sul crimine di genocidio contro gli yazidi
Il 30/11/2021 l’Alto tribunale regionale di Francoforte ha condannato all’ergastolo Taha Al J., riconosciuto colpevole di genocidio per avere – da membro del cosiddetto Stato Islamico – comprato come schiave una donna yazida e sua figlia di cinque anni, nel 2015. L’imputato punì la bambina ammanettandola a una finestra, sotto il sole, e lasciandola morire al caldo torrido davanti alla madre, in spregio ai più basilari principi di umanità.
In una dichiarazione di Meike Olszak, Amnesty International Germania afferma che:
La storica sentenza di oggi conferma per la prima volta in un’aula di tribunale che le azioni dello Stato islamico contro gli yazidi nel nord dell’Iraq furono genocidio. I sopravvissuti coinvolti nel caso hanno rimarcato con dettagli strazianti la natura sistematica dello sterminio mirato degli yazidi in Iraq.
Murad Ismael sintetizza così l’impatto della sentenza: “Per la comunità nel suo complesso è importante confermare il genocidio nei processi legali in modo che non possa essere negato. È importante per gli individui che sono stati danneggiati vedere la giustizia in azione in modo che possano guarire e andare avanti. Inoltre, questo è un caso umano e credo che se non facciamo giustizia, permetteremo altri genocidi“.
Cosa si potrebbe fare affinché la persecuzione giudiziaria dei miliziani Da’esh (comprese le donne e i combattenti stranieri) diventi organica e universale? Nadia Murad, ad esempio, propone un Tribunale internazionale con un focus sul genocidio degli Yazidi.
“Penso che potrebbe essere una buona soluzione“, ci conferma Bellingreri, “perché singoli processi in Corti diverse non bastano. Il lavoro dell’UNITAD, che raccoglie le prove dei crimini di Da’esh in Iraq (non solo contro Yazidi), potrebbe essere la base per questo“.
Decisamente concorde anche Ismael, che specifica: “Nessun altro accordo può risolvere la situazione legale. Ci sono voluti 7 anni per aprire solo alcuni processi, abbiamo migliaia di casi e abbiamo bisogno di un vero processo solido che è possibile solo in un unico tribunale“.
Consapevoli della resilienza del popolo yazida, in conclusione vogliamo fare nostre le parole con cui Nadia Murad ha commentato la sentenza di Francoforte.
Quando i sopravvissuti cercano giustizia, cercano qualcuno che dia loro la speranza che la giustizia sia possibile.