[Traduzione a cura di Valentina Gruarin dell’articolo originale pubblicato su openDemocracy]
Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) si è appellato ad alcune organizzazioni internazionali perché indaghino sulle accuse da esso rivolte alla Turchia che pare abbia usato, più di 300 volte, armi chimiche contro le forze curde nella regione del Kurdistan, in Iraq. Il Partito ha invitato le delegazioni internazionali a visitare la regione e ispezionare i tunnel di montagna, dove i curdi sostengono che si trovino tuttora le sostanze chimiche, oltre a esaminare i corpi dei guerriglieri del PKK che si ritiene siano stati uccisi negli attacchi.
Il PKK ha pubblicato video di gas che fuoriescono dalle entrate dei tunnel, di testimonianze dei sopravvissuti e altre immagini che inquadrano dettagli di coloro che si presume siano stati uccisi.
Secondo alcune testimonianze, gli abitanti del luogo rimasti nei loro villaggi avrebbero subito gli effetti dei gas. L’11 ottobre l’agenzia di stampa filo-curda Mezopotamya ha riferito di aver ricevuto informazioni secondo cui 548 persone, residenti in un’area vicina al luogo dei presunti attacchi turchi, sono state ricoverate in ospedale per “lacrimazione eccessiva degli occhi, visione offuscata, mal di testa improvvisi, sangue dal naso, difficoltà respiratorie ed eruzioni cutanee”.
L’agenzia ha anche riferito di come il Partito Democratico del Kurdistan (KDP), partito di maggioranza del Governo Regionale del Kurdistan, stesse collaborando con i funzionari turchi per occultare le notizie su quanto stava accadendo.
Un precedente rapporto di un organo di stampa vicino al KDP, critico nei confronti del PKK, ha riportato il caso di una famiglia locale colpita da un “sospetto attacco chimico” il 4 settembre e ha descritto la riluttanza del Governo a indagare.
Risposte necessarie
Che questi resoconti non abbiano dato luogo a un’indagine indipendente è scioccante anche se, alla luce dei precedenti storici, non è affatto sorprendente.
A giugno, Malin Björk, eurodeputata del Partito della Sinistra svedese, ha sollevato la questione dei presunti attacchi in un’interrogazione scritta a Josep Borrell, vicepresidente della Commissione Europea e Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza.
La risposta di Borrell, datata 11 ottobre, ha ribadito l’ostilità dell’UE verso il PKK, affermando che l’Unione considera il Partito dei Lavoratori del Kurdistan “un gruppo coinvolto in atti terroristici sottoposto a misure restrittive dell’UE”. Sebbene Borrell abbia ammesso che “la Turchia è militarmente attiva nel Nord dell’Iraq, dove conduce attacchi contro il Partito dei Lavoratori del Kurdistan”, ha poi liquidato la domanda sui presunti crimini di guerra con la seguente dichiarazione: “Tuttavia, non sono stati presentati rapporti su attacchi chimici confermati”.
Senza un’indagine indipendente sugli attacchi, i leader internazionali possono continuare a voltare le spalle; ma soltanto loro sono nella posizione di esigere tale inchiesta.
Indagini selettive
L’uso di armi chimiche è stato vietato dal Protocollo di Ginevra del 1925. La Convenzione sulla Proibizione delle Armi Chimiche, che è entrata in vigore nel 1997 e che la Turchia ha firmato, richiede a tutte le parti di distruggere le loro armi chimiche e consente a qualsiasi Stato parte della Convenzione di richiedere un’ispezione di un altro membro in qualsiasi momento.
Tuttavia, la linea rossa intorno alla guerra chimica – come altri aspetti delle relazioni internazionali – non dipende tanto da ciò che si fa, ma da chi si è. Quando il regime siriano è stato accusato di aver usato armi chimiche durante gli attacchi iniziati nel dicembre 2012, la notizia ha fatto il giro del mondo. Le accuse contro la Turchia, invece, vengono a stento menzionate.
I rapporti sull’uso di armi chimiche da parte del regime siriano hanno anche generato alcune indagini da parte delle Nazioni Unite e la successiva implementazione di un programma internazionale per distruggere le scorte di armi chimiche della Siria. Tutto ciò, però, non è servito a prevenire altri attacchi, e ulteriori azioni internazionali sono state bloccate dal veto russo.
Al contrario, sebbene vi siano state numerose segnalazioni che accusano la Turchia di aver utilizzato armi chimiche contro il PKK dalla fine degli anni ’80 – incluso un rapporto del 1999 dell’emittente pubblica tedesca ZDF che citava un membro di un’unità speciale militare turca – queste hanno avuto poca risposta.
La prova definitiva sul fatto che la Turchia abbia utilizzato le armi chimiche è difficile da ottenere, dal momento che le autorità turche ostacolano i tentativi di indagine e le organizzazioni internazionali non sembrano intenzionate ad intervenire in modo efficace.
Nel 1994, Christopher Milroy, patologo forense del Regno Unito, ha scritto per il British Medical Journal un resoconto di un suo viaggio in Turchia per indagare sul presunto uso di napalm (arma chimica) da parte del Governo contro i guerriglieri del PKK. Milroy scoprì che le descrizioni dei corpi bruciati che aveva ricevuto erano “coerenti con l’utilizzo del napalm“, ma il forte ostruzionismo messo in atto dalla polizia turca gli impedì di condurre qualsiasi indagine diretta: l’area dell’attacco era stata sigillata e i corpi erano stati sepolti in una fossa comune in seguito cementata. Gli venne detto che vi era un uomo che, per aver cercato di raccogliere campioni dai corpi in un villaggio locale, era stato arrestato dalle autorità turche assieme a tutta la famiglia.
Nel 2010, la rivista tedesca Der Spiegel ha segnalato che un esperto di falsificazioni fotografiche aveva autenticato alcune immagini scioccanti di combattenti curdi morti, mentre un rapporto della scientifica dell’ospedale universitario di Amburgo aveva concluso che era altamente probabile che gli otto curdi fossero morti a causa dell’uso di sostanze chimiche. Gisela Penteker dell’International Physicians for the Prevention of Nuclear War ha riferito alla rivista che, nonostante la popolazione locale avesse più volte affermato che fossero state utilizzate armi chimiche, un’autopsia approfondita sarebbe stata difficile, in quanto le autorità avevano ritardato a riconsegnare i corpi.
Gli attacchi chimici non sono l’unico presunto metodo extra-giudiziale usato dalla Turchia per schiacciare i curdi eludendo ripercussioni o responsabilità.
La Turchia è un membro strategico della NATO e un importante partner commerciale per molti Paesi occidentali, oltre a essere attualmente una sorta di grande hotspot per i rifugiati. Sia gli Stati Uniti che l’Europa sono stati accusati di compiacenza con il Governo turco.
Nel 2018, la Turchia e le fazioni alleate sono state accusate di aver usato armi chimiche ad Afrîn, nel Nord della Siria. L’Osservatorio siriano per i diritti umani (SOHR), con sede nel Regno Unito, ha riferito che le granate provenienti dalla Turchia o dalle sue fazioni alleate avessero lasciato sei persone con “pupille dilatate” e “difficoltà respiratorie” e l’ospedale avesse quindi affermato che i loro sintomi fossero coerenti con un attacco chimico; ma le accuse sono state semplicemente respinte dagli Stati Uniti come “estremamente improbabili”.
I medici curdi hanno anche denunciato l’uso di armi chimiche da parte della Turchia nell’invasione del 2019 di Ras al-Ayn, nel Nord-Est della Siria, quando numerose fonti, tra cui SOHR, hanno citato rapporti medici in cui venivano descritte lesioni compatibili soltanto con armi non convenzionali.
I test medici eseguiti dai laboratori della Wessling AG in Svizzera su un campione di pelle di una delle vittime hanno rilevato che “il tipo di ferite (ustioni chimiche), in combinazione con la quantità significativamente elevata di fosforo trovata nel campione, dimostrano che siano stati utilizzati reagenti al fosforo (munizioni al fosforo bianco).” Tuttavia, questo riscontro sembra aver suscitato poche reazioni al di fuori della comunità curda.
L’Organizzazione Statunitense per la Proibizione delle Armi Chimiche ha accettato di avviare un’inchiesta sui presunti attacchi turchi che avevano provocato ustioni sulle vittime coerenti con l’uso del fosforo bianco. Ma l’indagine è stata presto abbandonata, sostenendo che le lesioni da fosforo bianco fossero state causate da shock termici e non chimici, e quindi non rientrassero nell’ambito di competenza dell’organizzazione.
Un’invasione non denunciata
Per quanto brutali, i primi attacchi della Turchia sono stati episodi relativamente isolati. Ma ciò che sta accadendo oggi, secondo i guerriglieri del PKK, è una campagna concertata di attacchi chimici.
L’attuale operazione della Turchia nella regione del Kurdistan, in Iraq, è iniziata il 23 aprile. Le forze turche stanno effettivamente invadendo e tentando di occupare le terre settentrionali di confine dell’Iraq, dove il PKK ha le sue basi di montagna. La Turchia considera il PKK un’organizzazione terroristica e descrive questa invasione come un’azione antiterroristica, nonostante l’esercito turco stia costruendo le proprie basi e infrastrutture militari nel Nord dell’Iraq, azione difficilmente considerabile come antiterroristica.
La Turchia riceve un sostegno pratico dal KDP, Partito Democratico del Kurdistan, i cui accordi petroliferi hanno reso il suo Governo dipendente dalla Turchia. Inoltre, il KDP sarebbe felice di vedere la sconfitta del PKK e delle sue idee concorrenti sull’autonomia curda, anche a spese di un maggiore dominio turco sulla regione.
Una storia oscura
I curdi conoscono terribilmente bene l’impatto degli attacchi chimici, e conoscono anche il silenzio selettivo. Nonostante pare non ci siano prove a sostegno dell’impiego di armi chimiche – da molti ritenuto veritiero – per difendere il mandato britannico in Iraq (le difficoltà tecniche prevalsero sull’entusiasmo di Winston Churchill), ricordiamo il più recente genocidio dell’Anfal [1986-1989] contro i curdi condotto da Saddam Hussein e il bombardamento della città curda di Halabja nel marzo 1988. In tutte queste occasioni migliaia di persone sono morte a causa di un cocktail letale di sostanze chimiche, mentre molte altre migliaia hanno riportato danni permanenti.
Gli Stati Uniti erano ben consapevoli che l’Iraq stesse usando armi chimiche nella guerra con l’Iran – ci fu anche un’indagine e una condanna da parte dell’ONU nel 1983 – ma qualsiasi mezzo per sconfiggere gli iraniani fu ritenuto idoneo e, dal 1987, gli Stati Uniti assistettero le forze irachene fornendo loro l’intelligence indispensabile per dirigere al meglio gli attacchi contro le truppe iraniane.
Gli Stati Uniti impiegarono molto tempo per rispondere al massacro di Halabja, e quando lo fecero, cercarono di condividerne la responsabilità in egual misura con l’Iran. Si è dovuto attendere fino alla Guerra del Golfo, quando l’Iraq è diventato il nemico, perché gli Stati Uniti sbandierassero il genocidio curdo.
La comunità internazionale ha il dovere di indagare su tutte le accuse riguardo l’utilizzo di armi chimiche e di agire, prontamente e non solo secondo gli interessi politici, contro i trasgressori. Ciò è improbabile che accada senza una pressione dal basso, anche perché gli Stati ritenuti troppo utili – dal punto di vista geo-politico – per essere criticati, potranno farla franca impunemente.