L’attuale Primo Ministro etiope, Abiy Ahmed, è passato in meno di due anni dall’essere elogiato per i suoi sforzi nel promuovere un Etiopia unita e libera da tensioni etniche, venendo persino premiato con un Nobel per la pace, all’essere accusato dalla comunità internazionale di orribili crimini di guerra.
Tuttora, a quasi un anno dalla violenta guerra civile che ha investito il Paese la situazione rimane tesa e nessuna delle parti coinvolte sembra interessata a cedere a compromessi.
Le cifre indicano che tra le 30.000 e le 50.000 persone sono state uccise dall’inizio degli scontri, il numero più alto in tutte le guerre attualmente in corso nel mondo.
La Storia in breve
Ma quali sono esattamente le ragioni che hanno fatto ricadere in pochi mesi uno dei Paesi più popolosi e avanzati del Continente nel caos più totale?
Dopo la fine del regime militare socialista, noto come il Derg e durato dal 1974 al 1991, la nuova coalizione politica, l’EPRDF, decise di trasformare l’Etiopia in un Governo federale democratico, per la gran parte suddiviso in base all’appartenenza etnica.
I partiti TPFL (Tigray People’s Liberation Front) e EPLF (Eritrean People Liberation Front) giocarono un ruolo chiave nella lotta contro il regime militare e dopo la dichiarazione d’indipendenza eritrea, il TPFL divenne ipso facto la principale forza politica del Paese.
L’EPRDF, con al comando la maggioranza tigrina, governerà la nazione per oltre 30 anni. In questo lasso di tempo l’Etiopia vedrà un notevole rilancio economico, che però dovrà pagare ad alto prezzo. Repressione, censura, elezioni pilotate e corruzione furono gli strumenti utilizzati dalla coalizione per mantenere il comando.
Le condizioni già complesse nel Paese, l’inarrestabile guerra con l’Eritrea (scoppiata nel 1998) e l’insofferenza generale della popolazione nei riguardi dell’élite politica spinsero nel 2018 gli etiopi a ribellarsi. Il discontento popolare divenne così pressante da costringere l’allora Primo ministro a dimettersi.
Per sostituirlo venne appuntato alla carica Abiy Ahmed – scelta strategica vista come un buon modo per riottenere il consenso dei cittadini in quanto egli giovane, carismatico e membro dell’etnia oromo da sempre marginalizzata.
La sua entrata in scena fu infatti accolta con grande eccitazione dalla nazione e dalla comunità internazionale. La sua politica sembrava essere all’insegna della pace (Ahmed firma il tanto atteso accordo di pace con l’Eritrea), della libertà di parola e di una più equa redistribuzione delle risorse fra le varie etnie.
Decide di riformare il EPRDF creando un nuovo partito, il Prosperity Party, invitando i vari schieramenti ad unirsi. Il TPLF rifiuta, si congiunge all’opposizione, ed è qui che si crea la prima frattura.
I rapporti fra Addis Abeba e Mekelle (capitale della Regione del Tigrè) degenerano rapidamente e nel 2020, quando a causa della pandemia il Governo federale decide di posticipare le elezioni, il TPLF accusa Ahmed di strumentalizzare l’emergenza sanitaria per detenere illegittimamente il potere e decide di aprire i seggi in Tigrè.
Abiy Ahmed accusa quindi a sua volta il TPLF di mossa anticostituzionale e invia le prime truppe armate al Nord. Il 4 novembre 2020 Addis Ababa accusa i militanti tigrini di aver attaccato una base militare nei dintorni di Mekelle dichiarando guerra a coloro che ora vengono ufficialmente considerati ribelli.
Crisi umanitaria ed emergenza rifugiati
La crisi politica si è rapidamente trasformata in un conflitto etnico, il quale ha portato ad una crisi umanitaria di portata colossale. Le fonti riportano massacri di civili e violenze sessuali su donne e bambine sia da parte dell’esercito che delle milizie.
A oggi la situazione nella regione del Tigrè rimane profondamente preoccupante per tutte le parti convolte inclusi i rifugiati, gli sfollati interni e le comunità ospitanti.
Il Governo federale è stato incolpato di crimini di guerra e violazione dei diritti civili. Diversi leader politici sono sospettati di insabbiare ciò che sta realmente accadendo in Tigrè e le già limitate connessioni Internet sono state più volte sospese con diversi reporter incarcerati o espulsi dal Paese.
Inoltre, entrambe le parti sono ritenute colpevoli di utilizzare l’inedia come arma di guerra e di affamare volontariamente la popolazione. Gli aiuti umanitari faticano ad arrivare a destinazioni e fonti attendibili hanno riportato che ponti e strade vengono sistematicamente vandalizzati per impedire ai rifornimenti (inclusi i medicinali di base) e agli operatori delle organizzazioni benefiche di entrare nella regione.
Al momento almeno 5,2 milioni di persone stanno soffrendo la fame. Il rapporto del OCHA datato 2 settembre 2021 indica che, dal 12 luglio, meno del 10% del carico umanitario necessario è riuscito ad arrivare a destinazione – solo 335 dei 3.500 truck necessari supplire alle necessità di base degli abitanti.
I servizi essenziali sono bloccati o ridotti al minimo e le autorità si rifiutano ancora di ripristinare l’elettricità e linee di comunicazione. Il denaro liquido comincia a scarseggiare e l’accesso all’acqua potabile è estremamente limitato.
Il conflitto si sta ora espandendo alle regioni confinanti di Afar e Amhara e si stima che oltre a quelle già esistenti altri 1,7 milioni di persone dovranno affrontare la fame nei prossimi mesi.
L’emergenza si è sovrapposta a un contesto regionale già complesso. Il Tigrè è in fatti una zona particolarmente povera e sottosviluppata. Questo è dovuto al fatto che gran parte del territorio è arido e non adatto all’agricoltura. In aggiunta, quest’anno a causa degli scontri solo il 50% della già scarsa produzione di cereali sarà disponibile dato che la stagione di semina è saltata in molte parti della regione.
Epurazione e tensioni etniche
Oltre alle violenze e ai soprusi sui civili, pare che il Governo federale abbia avviato un’epurazione dei tigrini dalle forze armate. Secondo un resoconto interno delle Nazioni Unite, le autorità etiopi hanno rastrellato le forze di sicurezza schierate nelle missioni di pace all’estero e costretto tutti i membri di etnia tigrina a rientrare in Etiopia, dove si teme che possano subire torture o addirittura esecuzioni.
Molti tigrini sono stati licenziati dalle loro posizioni negli affari esteri e altri servizi pubblici solo a causa della loro identità etnica, alcuni di questi sono stati arrestati e al momento non si sa dove si trovino.
Diversi osservatori internazionali hanno espresso grande preoccupazione per i fatti che si stanno verificando in Etiopia e aumenta la paura che l’emergenza si trasformi in un vero e proprio genocidio. Inoltre, la violenta repressione del Governo Ahmed non solo priva i tigrini dei diritti umani fondamentali, ma rende anche impossibile ai media indipendenti e alle associazioni per i diritti umani indagare e riferire sulla reale portata delle violazioni in corso.
L’influenza della guerra sul resto della regione
Da decenni l’Etiopia gioca un ruolo diplomatico ed economico di rilievo all’interno del panorama geo-politico africano. Si trova in fatti ad Addis Abeba la sede dell’Unione Africana e la nazione detiene un forte ascendente sui Paesi confinanti di Sudan, Eritrea e Somalia.
Ora l’emergenza politica e umanitaria rischia di destabilizzare non solo i già fragili equilibri nel Corno d’Africa, zona importantissima per la competizione strategica globale, ma anche del resto del continente.
L’Eritrea – fedele alleato del governo federale etiope sta attualmente sostenendo l’offensiva militare contro le milizie del Tigrè. Ci sono state segnalazioni di bombe e coscritti provenienti dall’Eritrea che hanno attaccato obbiettivi all’estremo nord dell’Etiopia sconfinando ben oltre le zone di frontiera.
Questo non sorprende affatto, considerato l’astio fra il TPLF – all’epoca principale sostenitore della guerra contro l’Eritrea – e Asmara, la quale vede nelle autorità tigrine una minaccia alla sicurezza nazionale.
Inoltre, la guerra sta già incidendo negativamente rispetto agli sforzi fatti per promuovere la sicurezza e la pace in Somalia. Diverse unità delle forze di pace etiopi sono già state ritirate per essere dislocate nel Tigrè. Dopo nemmeno un mese dall’inizio degli scontri già 3.000 soldati erano stati riassegnati, lasciando scoperte molte zone alle incursioni del gruppo militante islamista Al-Shabaab.
Per quel che riguarda il Sudan – il quale sta ancora attraversando un delicato periodo di transizione politica post-rivoluzionaria – esso si trova ora costretto ad affrontare una gravissima emergenza rifugiati. Almeno 200.000 etiopi sono scappati oltre confine, provocando la più grande ondata nella storia del Sudan. Questo pone ulteriori pressioni sulle comunità che tentano di accogliere i civili in fuga e che a loro volta hanno poco da offrire.
I profughi sono andati a sommarsi ai già 2 milioni gli sfollati interni che, aggiunti agli 1,8 presenti prima dell’inizio della guerra (molti dei quali provenienti dall’Eritrea), raggiungono la preoccupante cifra di quasi 4 milioni di esuli.
In un momento in cui il mondo è alle prese con la pandemia e i suoi effetti sull’economia, garantire il benessere di tutte queste persone si rivelerà una difficile sfida per l’Etiopia e tutti i Paesi ospitanti.
Va inoltre tenuto in considerazione la possibilità che i rapporti di potere esistiti fino a ora nel continente africano possano mutare in maniera considerevole. Diverse potenze politiche vedono il conflitto in Etiopia come un’ottima opportunità per espandere la propria influenza.
In particolar modo, si prevede che l’Egitto non tarderà a cogliere questa occasione. Il Cairo ha visto negli anni affievolirsi il suo potere offuscato dell’ascesa etiope e ha dei vecchi conti in sospeso con Addis Abeba a causa delle diatribe riguardanti la costruzione della grande diga sul Nilo Blu.
Infine, con la coalizione dell’Unione Africana già fragile e i partner non più disposti a sostenere il peso dei fardelli fin ora sostenuti da Addis Abeba, si teme che le campagne di mantenimento della pace e della stabilità in Africa possano fallire se ulteriori truppe etiopi venissero ritirate e le operazioni attualmente in corso in Paesi come il Mali o la Repubblica Centro Africana venissero sospese.
Ultimi sviluppi
Sia il Governo federale che quello tigrino considerano l’altro illegittimo. Il cessate il fuoco indetto a luglio 2021 ha sortito gran pochi effetti e i comunicati pubblicati rispettivamente dai rappresentanti delle due parti si contraddicono l’un l’altro accusandosi a vicenda di non voler prendere parte alle negoziazioni e di non voler deporre le armi.
Fino ad ora molte potenze globali e stakeholders si sono limitati interpretare la parte degli osservatori. Ma nelle ultime settimane, gli Stati Uniti hanno finalmente deciso di agire in maniera più concreta e minacciano di mettere in atto pesanti sanzioni finanziarie contro ogni gruppo o individuo sorpreso a perpetuare violenze o ostacolare la distribuzione degli aiuti umanitari. Questa mossa, volta a supportare la demilitarizzazione della regione, è stata tuttavia pesantemente criticata dalla Cina.
Il silenzio sulla questione sembra essersi finalmente rotto, grazie anche al lavoro di advocacy svolto nei mesi scorsi da svariati musicisti e artisti etiopi residenti all’estero che si sono offerti di divenire portavoci per la pace.
Nelle parole della musicista e attivista culturale Meklit Hadero: “Gli appelli all’unità nazionale possono sembrare futili quando la Storia stessa non è stata riconciliata, ma il peso di non guardarsi negli occhi l’un l’altro è certamente troppo pesante da sopportare.”
La scorsa settimana, l’Etiopia ha annunciato l’espulsione di sette alti funzionari delle Nazioni Unite, accusati di sostenere i ribelli del TPLF con materiale di comunicazione e beni di prima necessità, concedendo loro soltanto 72 ore per lasciare il Paese. La mossa è stata prontamente respinta dall’UN.
Il 4 ottobre, Ahmed è stato riconfermato per un secondo mandato alla carica di Primo ministro in seguito alle ultime elezioni parlamentari – iniziate a giugno e protrattesi in molti seggi fino a settembre. La nomina è stata ampiamente contestata e molti dei partiti di opposizione si erano in precedenza ritirati in segno di protesta per impossibilità di poter sostenere le votazioni in Tigrè.
Con il numero di vittime e dei dispersi in costante crescita anche nelle aree di Afar e Amhara l’unica soluzione appare una gestione collaborativa dell’emergenza. Si spera che con l’intensificarsi delle pressioni internazionali le autorità di Addis Ababa e di Makalle riescano infine a trovare un punto di incontro per preservare i diritti e le vite dei tigrini.