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Leggi e violenze che negano alle donne il diritto di appartenersi

Il mio corpo è mio! Un concetto semplice, un diritto chiaro, di quelli che non vorremmo dover costantemente rivendicare. Eppure, sono ancora centinaia di milioni le donne in tutto il mondo che non sono libere di decidere per sé e su di sé, perché “le loro vite sono gestite da altri“.

Il tema del diritto all’autodeterminazione e all’integrità corporea che per troppe è ancora un miraggio, è al centro del rapporto del Fondo delle Nazioni Unite per le popolazioni (UNFPA) sullo Stato della popolazione nel mondo 2021, rilanciato in Italia dall’Associazione italiana donne per lo sviluppo (AIDOS).

In media – emerge dall’indagine svolta in 57 Paesi dal Nord al Sud del mondo – le donne godono solo del 75% dei diritti garantiti agli uomini, e appena la metà delle ragazze e delle donne sceglie, libera da coercizioni, discriminazioni, e violenze, in materia di assistenza sanitaria, contraccezione, e sessualità. Significa che a quasi una donna su due è negato il diritto di richiedere cure per la salute sessuale e riproduttiva quando ne ha bisogno, quello di dire no al sesso, oppure sì al matrimonio come anche alla pianificazione familiare solo se, con chi, e quando lo vuole.

In troppe, a causa della scarsa scolarizzazione e del mancato accesso a un’educazione completa in quanto a salute e diritti, non sono nemmeno consapevoli di avere potere di scelta e controllo sulle proprie vite. Non sanno di avere il diritto a non essere violate. Non sanno di poter vivere libere da atti perpetrati sui loro corpi senza il loro consenso.

16 Days of Activism Against Gender Violence starts“, di Eric Kanalstein / UNAMA, licenza CC/Flickr

Sono i loro corpi, ma non hanno voce in capitolo. È la negazione del diritto ad appartenersi, radicata nella discriminazione di genere “che riflette e sostiene – si legge tra le 164 pagine di relazione i sistemi di potere patriarcali“. Norme sessiste “perpetuate dalla comunità [..] e rafforzate dalle istituzioni politiche, economiche, legali e sociali, come scuole e media, e persino dai servizi sanitari“, fanno dei corpi delle donne oggetto di “scelte fatte da altri“, che siano il partner, la famiglia, i legislatori.

La percentuale delle donne private della propria autonomia fisica raggiunge quota 90% in Mali, Niger, e Senegal, ma “nessun Paese, oggi – sottolinea lo studio delle Nazioni Unitepuò affermare di aver raggiunto l’uguaglianza di genere nella sua totalità“.

Basti pensare che le esigenze non soddisfatte di contraccezione, nel 2019, hanno riguardato 217 milioni di donne, mentre ogni anno le complicazioni legate alla gravidanza e al parto uccidono – nel 99% dei casi nei territori a basso e medio reddito – decine di migliaia di adolescenti tra i 15 e i 19 anni, e sono 4 i milioni di aborti clandestini che, per la stessa fascia d’età, contribuiscono alla mortalità e alla morbilità materna. E che i servizi essenziali per la salute sessuale e riproduttiva sono stati ovunque considerati “meno necessari” nel contesto della pandemia da Covid-19.

Traffico di donne, soprattutto nella forma della schiavitù sessuale; matrimoni infantili e forzati legati alle pratiche della dote, del prezzo o del rapimento della sposa, della vedova ereditata; stupri e violenze domestiche normalizzate; mutilazioni genitali, test di verginità, e coercizione riproduttiva; sterilizzazioni o contraccezione forzata, specialmente contro disabili, membri delle comunità indigene, e appartenenti alle minoranze perseguitate; delitti d’onore e femminicidi. Forme diverse, spesso interconnesse, dello stesso problema: l’accettazione sociale della violazione dei corpi femminili.

L’empowerment femminile, che si realizza prima di tutto nell’eliminazione di tutte le pratiche dannose consumate sui corpi delle donne, è tra gli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile. Tuttavia, i sistemi di troppe nazioni non ne difendono ancora neppure formalmente l’autonomia corporea.

Più di 30 Paesi non riconoscono alle donne il diritto di muoversi liberamente fuori dalle case. In 20 Stati, tra cui Russia, Thailandia, e Venezuela, vigono leggi sul matrimonio riparatore (cd. leggi “marry your rapist“) che, permettendo di evitare le conseguenze penali dello stupro a chi sposi la sua vittima – spesso anche se minorenne, e costretta ad acconsentire nel nome dell’onore familiare o per scongiurare lo stigma sociale – “addossano il fardello della colpevolezza sulle vittime, e cercano di sanare una situazione che è criminale“, per usare le parole di Natalia Kanem, segretario generale e direttrice esecutiva UNFPA. Norme sullo stupro coniugale non sono previste in 43 ordinamenti; e anche laddove tale abuso è perseguito, le sanzioni inflitte per il sesso non consensuale all’interno del matrimonio sono spesso significativamente inferiori rispetto agli altri casi. La violenza, per milioni di donne, è una minaccia lunga tutta la vita.

Afghan TV Show Addresses Violence against Women“, di UN Photo/Jawad Jalali, licenza CC/Flickr

Sono donne sette su dieci delle 40 milioni di vittime di schiavitù nel mondo. Il 58% delle donne uccise ogni anno muore per mano di un membro della famiglia. Una donna su tre, a livello globale, è stata picchiata, costretta ad avere rapporti sessuali, o abusata in altro modo; e si parla di “pandemia ombra” in riferimento all’aggravarsi della violenza di genere nell’anno del Covid-19. Le probabilità di essere stuprate sono tre volte maggiori per le donne con disabilità.

Nella sola India, 8 mila donne muoiono ogni anno per abusi e violenze connessi alla pratica della dote; e, principalmente in Medio Oriente e Asia meridionale, il percepito dovere di punire le violazioni di norme e codici comportamentali contro la rispettabilità propria o della famiglia – come la separazione dal marito che abbia pagato il prezzo della sposa, il rifiuto di contrarre matrimonio combinato, l’intraprendere una relazione con persona di religione, gruppo etnico, o casta diversa, o l’aver avuto rapporti prematrimoniali o extraconiugali – ‘giustifica’ il consumarsi di circa 5 mila delitti d’onore all’anno.

Nonostante la Convenzione sui diritti del fanciullo sia la più ratificata al mondo, 650 milioni sono ad oggi le spose bambine, 12 milioni in più ogni anno, soprattutto in Asia meridionale, Africa sub-sahariana, e in aree dell’America Latina e dei Caraibi. Il Niger, con il 76% delle ragazze costrette alle nozze prima dei 18 anni, registra il tasso più alto al mondo di matrimoni precoci. Pregiudizi di genere, e strategie sociali tipiche delle economie di sussistenza a motivare la diffusione massiva dell’usanza, che aumenta esponenzialmente nei contesti di conflitto, sfollamento, e di crisi umanitaria in generale.

A 13 anni, quando frequentavo la scuola primaria, mi hanno obbligata a sposare un uomo più grande di me. Di trent’anni. [..] Dopo un po’ sono rimasta incinta, e lui ha cercato di picchiarmi. Ho provato a scappare due volte, ma mi hanno sempre riportata da lui“, racconta Aisha a Save the Children.

Ancora 150 milioni di ragazze, si teme, saranno derubate dell’infanzia e costrette al matrimonio entro il 2030. Le conseguenze per la salute e lo sviluppo, devastanti: le spose bambine, più di ogni altra, subiscono violenza domestica, maltrattamenti, e abusi sessuali dal partner; sono gravemente esposte al rischio di contrarre malattie e infezioni sessualmente trasmissibili (incluso l’HIV); e le gravidanze infantili e adolescenziali troppo spesso uccidono o ammalano loro o i loro neonati. Smettono di studiare, e perdono ogni prospettiva di un futuro libero, a riprova di quanto il controllo sulle scelte sul corpo voglia dire controllo su tutti gli aspetti della vita.

Sebbene siano ormai internazionalmente riconosciute come una grave violazione dei diritti umani delle donne, e siano ancora soltanto cinque i Paesi in cui non sono formalmente criminalizzate (Liberia, Sierra Leone, Somalia, Ciad, e Mali), le mutilazioni genitali femminili (FGM) sono pratica usuale in almeno 27 Stati africani, come anche in alcune zone dell’Asia e del Medio Oriente. In Somalia, il fenomeno riguarda praticamente l’intera popolazione femminile.

Poi toccò a me. Ormai ero terrorizzata. [..] Vidi le forbici scendere tra le mie gambe [..] Sentii il rumore, come un macellaio che rifila un pezzo di carne. Un dolore lancinante, indescrivibile, e urlai in maniera quasi disumana. [..] Ricordo ancora le urla strazianti di Haweya, anche se era più piccola, aveva quattro anni, scalciò più di me per cercare di liberarsi dalla presa della nonna, ma servì solo a procurarle brutti segni sulle gambe di cui portò le cicatrici per tutta la vita” – è parte della testimonianza di Ayaan Hirsi Ali, scrittrice e attivista somala per i diritti delle donne che nella sua autobiografia “Infedele” racconta la cruda realtà dell’infibulazione.

Campaign road sign against female genital mutilation“, di Amnon s (Amnon Shavit), licenza CC/Flickr

Già più di 200 milioni di ragazze e donne sopravvivono con addosso le cicatrici e le conseguenze, drammatiche e irreversibili per la salute fisica e psicologica, di questa estrema forma di discriminazione e violenza diretta esclusivamente contro i corpi femminili, e sono 4 milioni le bambine tra i 9 e i 15 anni che rischiano di subirla ogni anno. 2 milioni in più i casi attesi nei prossimi anni a causa della pandemia da Covid-19, che chiudendo le scuole sta interrompendo i programmi di aiuto e protezione delle giovani.

Collegate a tradizioni socio-culturali, e presunte ragioni religiose usate a coprire la volontà di aggredire la sessualità e il desiderio sessuale femminile, fino a una volta su quattro, riporta l’Agenzia ONU per l’infanzia (UNICEF), queste pratiche rientrano tra i “servizi medici” forniti dalle comunità, come a voler rendere sicuro, morale, e difendibile quello che è un oltraggio al diritto fondamentale delle bambine all’integrità fisica, alla salute, all’essere libere dalla tortura e dai trattamenti crudeli, inumani e degradanti.

La lotta contro questa e tutte le altre umiliazioni dei corpi femminili che sono figlie di una cultura di spregio per la libertà e la dignità delle donne, passa innanzitutto dal costruire una società che sappia riconoscere che noi donne “abbiamo il diritto inalienabile di scegliere che cosa fare del nostro corpo, per proteggerlo, prendercene cura ed esprimerci attraverso di esso come riteniamo opportuno. La nostra qualità di vita dipende da questo. La nostra stessa vita dipende da questo“, come scritto sul rapporto ONU.

Che ancora milioni di donne non possano dire “Questo è il mio corpo e questa è la mia scelta“, che è “il fondamento per una vita dignitosa e indipendente“, è qualcosa che dovrebbe indignarci tutte e tutti.

Il progresso autentico e duraturo dipende soprattutto dall’eliminazione delle disuguaglianze di genere e di tutte le forme di discriminazione, nonché dalla trasformazione delle strutture economiche e sociali che le consentono e perpetuano. Gli uomini devono essere nostri alleati in questo. Tutte e tutti insieme dobbiamo adoperarci per contrastare le discriminazioni ovunque e ogni volta che le incontriamo. Tolleranza significa complicità“, questo il messaggio di Kanem in premessa al dossier 2021.

Clear legal basis needed to combat violence against women“, di P. Naj-Oleari, licenza CC

L’Italia non rientra tra i Paesi osservati dall’analisi ONU, ma non ci è poi troppo lontana quella (mala)cultura del possesso e controllo del corpo femminile che intrappola milioni di donne in tutto il mondo.

Il delitto d’onore e il matrimonio riparatore sono stati aboliti appena 40 anni fa, e le vittime di violenza sessuale hanno dovuto attendere il 1996 perché quello perpetrato contro di loro fosse rubricato come un delitto contro la persona. I dati raccolti dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ci dicono che oltre il 30% delle donne ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita; e che più di un milione e 300 mila italiane sono state vittime di stupro o tentato stupro, nel quasi il 63% dei casi dal compagno attuale o precedente.

Nel marzo 2019, la Polizia di Stato registrava in media una vittima di violenza di genere di sesso femminile ogni 15 minuti. Nel 2020, riporta l’Istituto di ricerche economiche e sociali (EURES), è stata uccisa una donna ogni tre giorni, e l’incidenza del contesto familiare nei femminicidi ha raggiunto il valore record dell’89%. Nel 2021, a chi denuncia uno stupro è ancora chiesto come fosse vestita, quanto avesse bevuto, cosa abbia fatto il giorno dopo.

Tolleranza significa complicità“, ci piace rimarcarlo.

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