Patrasso, Pátra in greco, si trova a circa tre ore di bus da Atene. Situata nel distretto dell’Acaia, sulla costa occidentale, è uno dei principali porti di collegamento fra Grecia e Italia. Giornalmente, da qui partono traghetti con destinazione Brindisi, Bari, Ancona e Venezia. Giornalmente, da qui, decine di persone sfidano la sorte cercando di attraversare un confine invisibile a chiunque possegga un passaporto europeo, ma ben tangibile per tutti coloro i quali quel medesimo passaporto rappresenta solo una lontana aspirazione. People on the move, in inglese. Ovvero tutte quelle persone che raggiungono l’Europa con l’intento di trovarvi rifugio.
Reperire informazioni su ciò che accade a Patrasso non è molto semplice. Per questo mi affido a No Name Kitchen, un’organizzazione indipendente che da più di tre anni si occupa di provvedere supporto materiale alle persone che cercano di raggiungere l’Europa centro-settentrionale attraverso la rotta balcanica, svolgendo al tempo stesso un meticoloso lavoro di monitoraggio sulle violenze che accompagnano i respingimenti illegali perpetrati dalle autorità lungo le frontiere.
Dal febbraio del 2019, No Name Kitchen è presente anche a Patrasso. Contatto quindi Matilda Zacco, una volontaria che da circa tre mesi opera in loco con il team internazionale dell’organizzazione. Bastano pochi messaggi per accordarci: passerò tre giorni con loro, cercando di capire meglio cosa succede in questo lembo di terra ellenica affacciato sul Mar Adriatico.
Arrivo nel tardo pomeriggio di un lunedì di novembre. Matilda mi aspetta alla stazione degli autobus con il van dell’organizzazione, carico di cibo e medicinali. Mi dice che hanno appena finito il giro di distribuzione, ma che se voglio può mostrarmi la zona del porto e cominciare a darmi qualche informazione di base per orientarmi ed essere più preparata a ciò che vedremo insieme domani.
Ciò che balza immediatamente all’occhio percorrendo la strada a doppia corsia che costeggia l’area portuale è la doppia recinzione che protegge l’accesso alla banchina. È qui che inizia il Game, espressione utilizzata dagli stessi migranti per riferirsi al tentativo di attraversare illegalmente la frontiera fra Grecia e Italia. Espressione paradossalmente adatta a descrivere l’impresa, il cui esito positivo – come in un gioco d’azzardo che si rispetti – dipende fondamentalmente dalla buona sorte.
Matilda mi indica alcuni uomini vestiti di nero che camminano sul marciapiede accanto alla recinzione. Mi fa notare che indossano dei guanti e che portano una bottiglietta d’acqua a tracolla, assicurata con dei lacci sottili. È una sorta di dress-code, l’uniforme ormai collaudata dei protagonisti del Game. Mi spiega che l’impresa consiste nel saltare entrambe le recinzioni, raggiungere l’area del porto in cui sostano i camion in attesa di imbarco e trovare un buon nascondiglio – se si è molto fortunati all’interno del rimorchio; se, come quasi sempre accade, lo si è di meno, in qualche anfratto fra ruote e motore. È l’unico modo per raggiungere l’Italia e, da lì, proseguire verso i tanti agognati Paesi nordeuropei.
Il contesto in cui chi tenta la traversata è costretto a muoversi è tuttavia ancor più complesso di quanto possa apparire: gli ordini di difficoltà che rendono il Game estremamente rischioso – se non a tratti impossibile – sono vari e stratificati. Me ne rendo conto nei due giorni successivi, prendendo parte alla routine quotidiana dei volontari di No Name Kitchen.
La giornata comincia con l’abituale giro per le factories, ovvero i tre stabilimenti industriali abbandonati che si trovano proprio davanti al porto di Patrasso. Al momento, all’interno di questi edifici fatiscenti vivono circa 200 persone. Sono tutti uomini di origine afghana che hanno avuto accesso a questo riparo di fortuna pagando una quota agli smuggler, i trafficanti il cui ruolo non è ancora ben chiaro nemmeno ai volontari dell’organizzazione a cui faccio riferimento. Le informazioni raccolte su queste figure dai contorni sfumati sono poche, confuse e frammentarie; chi vive all’interno delle factories è restio a parlarne, per paura di mettersi nei guai e perdere l’unico riparo accessibile fra un tentativo e l’altro di “vincere” il Game.
Non appena il van varca il cancello d’ingresso di quella che i volontari chiamano big factory – dei tre edifici occupati, quello che ospita il maggior numero di persone, probabilmente circa un centinaio – provo un senso di straniamento. Tecnicamente ci troviamo ancora a Patrasso: il porto è dall’altra parte della strada, i traghetti e le navi da crociera sono ben visibili, così come le file di camion in attesa dell’imbarco. Eppure la sensazione è quella di trovarsi altrove, in un non-luogo dove tutto e tutti fluttuano in un tempo sospeso, in un’attesa dai margini indefiniti. Un’attesa che, come confermano le varie esperienze degli abitanti delle factories, potrebbe durare pochi giorni o svariati mesi.
La sensazione si intensifica quando mi addentro nelle viscere della factory insieme alla mia accompagnatrice.
Nel piazzale antistante all’ingresso, sulla destra, noto un gruppetto di uomini armati di spazzolino e dentifricio che si affacendano ai lati di un piccolo canaletto d’acqua. Matilda mi spiega che sono stati gli occupanti a crearlo, e mi indica anche una sorta di perimetro circolare costruito con poche file di mattoni giusto accanto al rigagnolo: è la moschea.
Poco più avanti, in una stanza affacciata sul piazzale di cemento, è stata organizzata una cucina con un piccolo fornello a gas provveduto da No Name Kitchen. Nel locale ristagna un odore pungente di olio e spezie, le pareti sono annerite e sul pavimento, negli angoli, ci sono bucce di aglio e di cipolle rosse – resti di perseveranti tentativi di rendere quantomeno tollerabile l’attesa in questo limbo grigio.
Proseguiamo ancora, fino a raggiungere uno stanzone enorme. In passato doveva essere la parte principale della fabbrica, il locale macchinari; oggi è una sorta di museo del passaggio. Il pavimento polveroso è disseminato di vestiti, zaini, involucri di medicinali e qualsiasi altra cosa riconducibile alle migliaia di persone che qui hanno vissuto – più o meno a lungo – in attesa di vincere il Game.
Matilda mi indica una scaletta laterale, invitandomi ad alzare lo sguardo: per una questione di sicurezza, le persone dormono ai piani alti.
Capisco meglio il significato dell’espressione “questione di sicurezza” quando ci imbattiamo in Ashraf (il nome è stato cambiato per ragioni di protezione), un abitante della factory che ci invita a bere del tè nero in un salotto di fortuna attrezzato con dei pallet impilati l’uno sull’altro.
Ashraf è da poco uscito da un centro di detenzione. Circa due mesi fa, tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, la polizia ha fatto irruzione nelle factories, rastrellando con violenza i dormitori alla ricerca di persone senza documenti. Raid del genere non sono rari, fanno parte della politica di deterrenza promossa dal governo conservatore di Mitsotakis.
Quella mattina di fine estate, però, a farne le spese è stato Ashraf. Senza documenti per scelta, è stato portato nel centro di detenzione di Corinto in attesa che la sua posizione legale venisse definita; il rischio era che venisse rimpatriato forzatamente. Dopo mille sforzi e peripezie, Ashraf è riuscito a mettersi in contatto con un avvocato, tramite il quale ha fatto domanda di asilo in Grecia. Ora ha dei documenti che attestano la sua regolarità sul territorio, ma nonostante questo è tornato a Patrasso, nella factory davanti al porto. In Grecia non ci vuole rimanere.
Ashraf non è l’unico a trovarsi in questa posizione ambigua. Molti dei migranti che tentano il Game sono passati per le isole dell’Egeo (le tristemente note Lesvos, Samos e Chios) o per il fiume Evros, per poi raggiungere Patrasso nella più totale invisibilità. Si tratta di una scelta deliberata. O forse sarebbe meglio dire obbligata, se si considera il funzionamento del Regolamento UE n. 604/2013, meglio noto come Trattato di Dublino. Tale documento stabilisce i criteri di determinazione dello Stato membro competente per l’esame della domanda di protezione internazionale presentata dai cittadini di Paesi terzi; in mancanza di requisiti specifici – e quindi nella maggior parte dei casi – si applica il criterio del primo Paese di ingresso.
In concreto, questo meccanismo blocca le persone nei Paesi frontalieri (Spagna, Italia e Grecia), condannadole a infinite attese in balìa di procedure di asilo farraginose e sistemi di accoglienza saturi e mal gestiti.
Per questa ragione gli occupanti delle factories preferiscono rimanere invisibili: nel caso in cui il tentativo di attraversamento del confine dovesse andare a buon fine, un semplice controllo da parte delle autorità nella banca dati europea EURODAC farebbe emergere la Grecia come primo Paese d’ingresso – e quindi Paese competente all’esame della domanda di asilo – facendo a sua volta scattare il trasferimento forzoso dell’interessato ai sensi del Regolamente Dublino. Una trappola di cui chi si avventura nel Game è ben consapevole.
Uscendo dalla big factory ci imbattiamo in un ragazzino. È alto e robusto, ma la voce acuta e la totale assenza di peluria sul viso lasciano intuire la sua giovanissima età. Matilda mi dice che i minori non accompagnati che tentano il Game sono moltissimi. Il più giovane ha 14 anni e una caviglia dolorante, i volontari lo stanno curando a seguito di una caduta mentre cercava di scavalacare la doppia recizione del porto. Secondo i suoi documenti, di anni ne ha 20.
Nel frattempo il ragazzino alto si è avvicinato, scambiamo qualche parola e gli consegniamo una mascherina, strumento indispensabile in tempi di covid-19. Lui la piega con cura, la ripone in una busta di plastica e se la infila in tasca esclamando “Italia! Italia!”. La mascherina buona, da usare quando i suoi piedi toccheranno finalmente terra dall’altra parte del mare. Poi, sorridendo amaramente e indicando se stesso con il pollice, aggiunge “Italia, old man”. E in un inglese stentatissimo ci racconta che ieri un suo amico ha finalmente vinto il Game. All’undicesimo tentativo, è riuscito a raggiungere l’Italia.
Intanto, a pochi metri da noi, è cominciata l’erogazione delle cure di primo soccorso. Le problematiche di salute sono tutte riconducibili a cadute durante i tentativi di scavalcamento o a percosse subite a seguito di cattura da parte della polizia.
Come dettagliamente spiegato nell’ultimo rapporto di Border Violence Monitoring Network, il porto di Patrasso è costantemente pattugliato dalla polizia greca e da ICTS Hellas, una società di sicurezza privata che sul proprio sito Internet descrive entusiasticamente gli ottimi risultati ottenuti relativamente alla “localizzazione di immigrati clandestini”. Ciò che però il sito Internet non menziona è il metodo usato per “localizzare” e fermare chi cerca di imbarcarsi: pestaggi particolarmente violenti, abusi verbali e psicologici, sequestro e distruzione di beni personali e documenti, attacchi da parte di cani.
Secondo quanto riportato dal portale di informazione locale Tetarto, nel luglio di quest’anno si è verificato un episodio di violenza particolarmente grave e disumano: due giovani afghani, di 21 e 22 anni, sono stati catturati dalla polizia all’interno del porto e poi gettati in mare con i polsi ammanettati. Secondo le testimonianze raccolte, i due sono sopravvissuti al tentativo di annegamento solamente perché gettati in un punto in cui l’acqua non è particolarmente alta e, ancora sotto shock, sono fuggiti da Patrasso immediatamente dopo il rilascio.
Matilda mi dice anche che nei racconti di chi torna dopo aver fallito il Game ricorre una misteriosa stanza dove chi viene preso dalla polizia verrebbe rinchiuso per ore e ore, senza possibilità di comunicare con l’esterno. Elemento ancor più allarmante, i poliziotti costringerebbero chi è trattenuto a firmare un foglio in cui si dichiara che vengono somministrati tre pasti al giorno; in realtà, il pasto sarebbe uno soltanto e non verrebbe fornita acqua.
Gli abusi fin qui descritti sono tuttavia solo il primo degli ostacoli da superare. Sfuggire alla polizia all’interno del porto e avere la fortuna di riuscire ad imbarcarsi non significa infatti aver vinto il Game. Il rischio che qualcosa vada storto durante il viaggio o all’arrivo in Italia è altissimo.
A settembre, InfoMigrants ha riportato la notizia di un ventiquattrenne afghano trovato morto in un traghetto salpato da Patrasso e diretto ad Ancona. Secondo le prime ipotesi, il giovane sarebbe morto di asfissia.
Ancora, in un post di No Name Kitchen datato 2 novembre si riporta il caso di un ventenne respinto in Grecia subito dopo lo sbarco in Italia. Stando alla testimonianza del diretto interessato, la polizia italiana lo avrebbe ammanettato e trattenuto per ore, ignorando le sue continua richieste di ricevere assistenza sanitaria per poi respingerlo a Patrasso sempre via mare – per un totale di circa 64 ore consecutive di viaggio.
Chiedo a Matilda cosa ne sia di chi, invece, riesce a raggiungere le coste italiane sano e salvo e a evitare il respingimento. Mi spiega che molto spesso chi vince il Game vuole tagliare completamente i ponti con il proprio passato, con il vissuto in Grecia e in particolare con l’esperienza di Patrasso. Quindi, semplicemente, ad un certo punto queste persone svaniscono.
A fine giornata, tornando verso il centro di Patrasso, guardo il paesaggio scorrere dal finestrino del van. Da un lato, il porto e i profili bianchi dei traghetti; dall’altro, gli edifici grigi e fatiscenti dove il tempo si è fermato. Così vicini, separati da pochi metri di strada; così lontani, separati da un fossato pieno di coccodrilli che hanno le sembianze di poliziotti e trattati europei.
L’area portuale di Patrasso è un microcosmo in cui tempo e spazio assumono tutto un altro significato. È il punto in cui l’esistenza delle frontiere si avverte per davvero, in maniera fisica e violenta. Quelle stesse frontiere che sulle carte geografiche appaiono così naturali e innocue. Quelle stesse frontiere che da cittadini europei abbiamo il privilegio di dare per scontate e poco rilevanti. Ma le frontiere esistono, e qui a Patrasso – così come in innumerevoli altri punti d’Europa e del mondo – feriscono e uccidono.
[Tutte le foto sono dell’autrice dell’articolo]