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Catalogna, l’ascesa e il declino del sogno indipendentista

Bandiere indipendentiste catalane, immagine da Flickr in licenza CC / Oscar Miño Peralta

“Quanti articoli stai scrivendo su quest’argomento?” esordisce Roger, laureato in Scienze Politiche all’Università di Barcellona. Secondo lui, non ne basterà soltanto uno per riassumere la complessità del conflitto politico tra nazionalisti catalani che aspirano ad una secessione dal resto della Spagna e coloro che invece auspicano una risoluzione che permetta alla Catalogna di partecipare al progetto delle diverse comunità autonome che compongono lo Stato iberico.

Barcellona ai tempi del Covid è una città che non rinuncia allo stile di vita mediterraneo, nonostante non ci si possa riunire in più di sei persone e sia obbligatorio l’uso della mascherina in tutti gli spazi pubblici – anche all’aperto. La situazione sanitaria si è aggravata con la bella stagione e, più recentemente, la riapertura delle scuole.

All’ombra dello spettro di una nuova ondata del virus, si cerca “la nuova normalità”, sebbene sia chiaro che qualcosa non è al suo posto; un po’ lo stesso accade al nazionalismo catalano nella sua versione indipendentista: il movimento è ammalato, ma non (solo) di Covid.

Manifesto pro-indipendentista a Granollers (a nord di Barcellona), foto dell’autrice

Facciamo un passo indietro.

Il catalanismo politico, ossia la concezione della Catalogna come una nazione (non necessariamente indipendente), ha dato origine ad una serie di varianti a seconda del tipo di rapporto che si ritiene debba esserci con la Spagna. Proposte storiche sono state il regionalismo, l’autonomismo e il federalismo; ciascuna di queste concede un diverso livello di autogoverno alla Catalogna che, seppur integrata nello Stato spagnolo, preserverebbe in misura più o meno ampia i tratti della propria cultura.

Il nazionalismo rappresenta una parte dei movimenti politici catalanisti: si tratta di un flusso di pensiero trasversale, che riunisce partiti dalla sinistra alla destra. Ma mentre tutti i nazionalisti catalani sono catalanisti, non è sempre vero il contrario.

I promotori dell’indipendenza dalla Spagna all’interno del movimento nazionalista catalano rimangono per lungo tempo una minoranza: dopo la morte di Franco, l’organizzazione in comunità autonome soddisfa gran parte dei catalani, che appoggiano la Costituzione spagnola del 1978, tipica di uno Stato decentralizzato. John Carlin, giornalista e scrittore che ha partecipato al documentario Two Catalonias, ricorda: “quando sono arrivato in Catalogna, nel 1998, il movimento indipendentista erano tre uomini e un cane”.

La traiettoria del movimento registra una spettacolare crescita a partire dal giugno 2010, in reazione a una sentenza della Corte costituzionale spagnola sullo Statuto di Autonomia della Catalogna. Rispondendo a un ricorso del Partito Popolare (PP), la Corte taglia diversi articoli sensibili, come quello riguardante l’identità nazionale. Dal 2012, il PP rincara la dose promulgando una serie di leggi “ricentralizzanti”.

Altri fattori che contribuiscono all’innesco del “procés” separatista sono la crisi economica degli anni 2008-2014 e la corruzione del partito che aveva governato la Catalogna per anni (CiU, ora sciolta). Il 9 novembre 2014, un’elezione permette di formare un Governo indipendentista: l’asse del dibattito politico si sposta quindi da destra versus sinistra ai secessionisti o botiflers (in catalano, un insulto che denomina i traditori).

Nel settembre 2017, l’ex-presidente catalano Carles Puigdemont promuove una legge referendaria e il voto, in cui i catalani sono chiamati a decidere sull’indipendenza (ritenuto illegale dal Governo centrale), si svolge il 1 ottobre. Invece di fare campagna per il “No”, come è accaduto in Scozia, Madrid sceglie la linea dura: la giornata del “1-O” è segnata dalle violenze inflitte dalla Guardia Civil (la polizia paramilitare spagnola, di cui 10.000 agenti sono inviati per l’occasione) a coloro che tentano di votare.

Scheda di voto del referendum di autodeterminazione della Catalogna (2017). Immagine da Flickr in licenza CC / Miquel Bohigas Costabella

Secondo quanto dichiarato dalla Generalitat, il 42% dei 5 milioni di catalani aventi diritto di voto presenzia alle urne nonostante gli scontri, con circa il 90% che si esprime a favore della secessione. La Catalogna viene proclamata Stato indipendente in forma di Repubblica da Puigdemont, che però immediatamente dopo fugge in Belgio (dove tuttora si trova in esilio) e installa Quim Torra, ampiamente visto come suo burattino, a capo del Parlamento.

Martí, un giornalista di Girona, ricorda così quel 1 ottobre: “Io stesso sono stato picchiato per aver esercitato una pacifica disobbedienza. Chiediamo il diritto di decidere il nostro futuro come popolo e questa è la risposta (legale) che otteniamo”. L’uso eccessivo della forza da parte della polizia spagnola in occasione del referendum è stato confermato nel corso di inchieste realizzate da organizzazioni internazionali come Human Rights Watch.

Il diritto all’autodeterminazione, contemplato nella Carta delle Nazioni Unite, così come nelle risoluzioni 1514 e 2625 dell’Assemblea Generale, è stato spesso citato come principio che giustifica l’indire un referendum sulla questione indipendentista in Catalogna. Gli Stati protetti dal diritto alla secessione sono quelli che agiscono “in conformità con il principio di uguaglianza dei diritti”, ossia le democrazie – come è considerata a livello internazionale la Spagna.

Tuttavia alcuni ritengono che, nei confronti degli indipendentisti catalani, i princìpi democratici vacillino. Per Bernat, separatista convinto, “negli ultimi tre anni molte persone sono state perseguitate dal sistema giudiziario spagnolo” per le loro idee.

Martí condivide questo punto di vista, anche a seguito della propria esperienza; il 19 dicembre 2019 ha dovuto comparire con altre persone davanti alla polizia, poichè accusato di aver bloccato una strada, ma precisa: “Non eravamo lì. Io lavoravo nel mio ufficio”. Non si tratterebbe di un episodio isolato, ma di una precisa volontà politica di dissuadere i separatisti dall’organizzare azioni di disobbedienza civile: “la Spagna è ben lungi dall’essere la Turchia o altri Paesi con crescenti tendenze anti-liberali. Quando però è in gioco l’unità spagnola, molti (in Spagna e in Europa) chiudono un occhio.

Le proteste cui Martí si riferisce hanno come obiettivo il rilascio di diversi leader catalani, che attualmente scontano dai 9 ai 13 anni di carcere per aver organizzato il referendum del 2017. Amnesty International si associa e denuncia: la condanna per sedizione “viola i loro diritti alla libertà di espressione e all’assemblea pacifica”.

Il Palau de la Generalitat, sede della presidenza della Catalogna, affigge uno striscione che recita “Libertà d’opinione e d’espressione”, foto dell’autrice

Oggi si continua a rivendicare senza nascondersi, mantenendo viva la metamorfosi dello spazio pubblico in un barometro politico. Su balconi, muri, facciate di edifici sono esposti striscioni o bandiere indipendentiste, accompagnate da nastri gialli che simboleggiano l’appello a liberare i prigionieri catalani. Sbiaditi dalla lunga esposizione al sole, sono gli emblemi di un movimento il cui apice sembra ormai passato.

Per il giurista Francesc de Carreras, questa fase decadente del separatismo è un’evidenza, parallela alla perdita di dinamismo economico della regione: i sostenitori dell’indipendenza “hanno insistito che tutte le disgrazie capitassero alla loro Catalogna idealizzata e sembra che finalmente ci siano riusciti: siamo in declino“. In effetti, da due anni il PIL di Madrid ha superato quello catalano; gli investimenti stranieri e il settore bancario spagnolo si sono concentrati sulla capitale, anche a causa dell’incertezza circa il futuro della Catalogna, analizza la London School of Economics.

Altri vedono un nesso di responsabilità con l’ascesa dell’estrema destra in Spagna, avvenuta in piena crisi indipendentista. Belén Barreiro, sociologa, spiega alla BBC: “la polarizzazione […] sulla questione catalana è ciò che più divide” i partiti tradizionali, offrendo “uno dei detonatori per la crescente popolarità” di gruppi ultraconservatori come Vox. Proprio il Parlamento catalano è stato la culla di Ciudadanos, partito che si oppone al “nazionalismo obbligatorio” e che da poco dopo il referendum è la prima forza politica in Catalogna.

Volantini del partito indipendentista catalano Candidatura d’Unitat Popular, foto dell’autrice

L’ONU ha recentemente rinnovato la richiesta per il rilascio dei leader catalani, il cui processo di petizione per la grazia ha inizio in questi giorni, mentre il tribunale supremo spagnolo riesaminava la condanna del presidente Torra per non aver rimosso dei simboli indipendentisti durante la propria campagna elettorale. La sentenza è stata confermata come previsto, il che significa che la Catalogna si trova ora senza un leader; il piano degli indipendentisti a questo punto è di non presentare un nuovo candidato in segno di dissenso, aspettando le prossime elezioni (nel 2021).

L’elevato numero di contagi da coronavirus costituisce un ulteriore motivo di tensione tra Barcellona e Madrid, che si rivolgono critiche vicendevoli riguardo alle scelte fatte in materia di misure sanitarie e prevenzione, con alcuni quartieri della capitale attualmente in lockdown.

Bernat ammette che il movimento “è in una fase di stallo”. Anche a causa delle “politiche di parte che i partiti indipendentisti hanno portato avanti da dopo il referendum, non c’è una leadership chiara, non c’è una buona organizzazione, non possiamo fare manifestazioni a causa del Covid.” Per Roger, se la risposta del Governo centrale al referendum è stata inaccettabile, quella dei nazionalisti è stata insufficiente: i partiti hanno dimostrato che le strutture statali della Catalogna indipendente che avevano promesso non erano pronte, o meglio “i politici non erano pronti ad affrontare lo Stato centrale, solo la gente lo era”. E adesso, in molti “si sono disamorati. E disamorarsi significa de-mobilitarsi”, il che potrebbe compromettere irrimediabilmente il futuro del movimento.

Un lieve disgelo delle relazioni è avvenuto con il leader socialista Pedro Sánchez, a capo del Governo dal maggio 2018. Ma il futuro non è affatto chiaro. Al centro del dibattito c’è un soggetto intangibile, quello politico; la Catalogna resterà tale, se tale la rende chi la compone.

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