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Libano in fermento. E un film sul calcio narra storie dei rifugiati

In Libano, l’economia è letteralmente al collasso, il debito pubblico è alle stelle e la gente non ha alcuna certezza sul proprio futuro, a fronte di una classe politico-economica che continua ad arricchirsi impropriamente. Quando in piazza si grida ‘La gente vuole la caduta del regime‘, non si parla solo dei politici corrotti ma di un intero sistema economico che non ha la minima considerazione per la giustizia sociale.

A parlare a Voci Globali è Stefano Fogliata, voce narrante e autore del film documentario Footballization (2018) che narra le storie che stanno dietro i campi profughi libanesi.

Da alcuni anni Stefano vive a Beirut, dove si è trasferito prima come operatore umanitario della Caritas Ambrosiana e poi come ricercatore in studi umanistici e interculturali con l’Università di Bergamo.

Sono appena rientrato da Beirut, dove ho vissuto alcuni giorni la piazza insieme a migliaia di altri libanesi – racconta Stefano – fra il decimo e il ventesimo giorno della protesta, quindi non nel momento dello scoppio e neanche negli ultimi giorni. Quello che posso dire è che fin da subito nella quotidianità si respirava un entusiasmo misto alla volontà di restare nel lungo periodo, con le strade occupate da parte di migliaia e migliaia di persone, soprattutto dal primo pomeriggio fino a notte inoltrata.

Le proteste in piazza sono in corso dal 17 ottobre scorso e il bersaglio è l’intero sistema politico su base confessionale che ha retto fin qui le sorti del Paese e che però non rappresenta più la popolazione. A scatenare il malcontento, soprattutto una crisi economica ormai cronica che vede metà della popolazione vivere sotto la soglia di povertà, con un Pil che sfiora valori vicini allo zero, e con una imprenditoria ormai in affanno.

Nel Paese dei Cedri, secondo il World Inequality Database,  soltanto l’1% dei libanesi detiene il 25% della ricchezza, e il 50% solo il 10%.

La miccia della mobilitazione è stata accesa dall’introduzione della tassa giornaliera di 20 centesimi di dollaro sui programmi che usano il sistema VoIP (WhatsApp o Facebook) e la messa a punto di una nuova legge di bilancio che prevede l’aumento dell’IVA e del prezzo dei carburanti.

In più, a spingere avanti la mobilitazione è stata anche la carenza di infrastrutture, con una rete elettrica che copre solo il 65% della domanda, e il problema dei rifiuti esploso in tutta la sua gravità nel 2015.

Questo, in un contesto in cui il problema delle disuguaglianze appare sempre più marcato.

Al punto in cui la protesta è arrivata, i manifestanti non chiedono più riforme, ma solo alla  classe politica di andarsene – sottolinea Stefano. E aggiunge: Molti bersagli delle proteste di piazza a parole si sono dichiarati a favore dei manifestanti, ma la piazza ha tenuto a far capire che la via mediana non va più bene, e che non saranno certo le promesse a provocare la smobilitazione.

Il debito pubblico libanese – sono i dati della Banca Mondiale – corrisponde a circa il 150% del suo PIL, vale a dire intorno ai 155 miliardi di dollari. E l’elevato tasso di corruzione e i meccanismi clientelari che reggono il sistema economico non hanno fatto che aggravare il quadro già disperato.

Del resto, la crisi va avanti da almeno 7 anni, quando iniziò la guerra in Siria nel 2011, che è anche all’origine di circa un milione e mezzo di rifugiati (uno ogni quattro abitanti) che “pesano” sui servizi pubblici.

Fra chi protesta –  racconta Stefano – si nota una assoluta trasversalità sia per quanto riguarda le classi sociali ed economiche, sia per quanto riguarda religione e zone di appartenenza.

Non ultime, in strada sono scese anche le donne, che chiedono più diritti per loro stesse.

Vedo soprattutto la spinta dal basso di questa rivoluzione, fa notare Stefano. Un deciso cambiamento rispetto ad altre mobilitazioni del passato. Se in caso di proteste molto più borghesi e di carattere molto meno economico si parlava principalmente inglese in piazza, o quello che è l’arabo classico, viceversa la lingua di questa rivoluzione è il dialetto libanese, cioè il dialetto che viene parlato da tutti in famiglia e a casa. Una lingua che si sente propria, e che accomuna tutti i vari status socioeconomici, estremamente radicata.

Stefano racconta delle emozioni che gli sono arrivate dalla piazza:

Un entusiasmo che non vedevo da anni, mosso dalla speranza di cambiare le sorti di un popolo. Tradotto in centinaia e migliaia di tende che occupavano lo spazio pubblico, con bambini che giocavano a calcio nella piazza o signori che si fumavano narghilè a due passi dalle attrazioni turistiche principali. Quasi come per riprendersi uno spazio che gli è stato sottratto negli ultimi cinquanta anni.

Il sistema politico che ha retto fino ad oggi il Libano è quello ancora speculare alla governance seguita alla guerra civile del 1990, fondata sulla divisione del potere sulla base di quote (secondo quanto previsto dagli accordi di Taif), ma che è ormai distante da quella che è oggi la società libanese.

In questo momento – commenta – la rivoluzione sta prendendo delle pieghe sempre più cupe, e sempre meno chiare. E questo non favorisce certamente uno sviluppo relativamente non violento delle proteste.

L’Italia sta guardando con il fiato sospeso all’evolversi della situazione del Paese dei Cedri, considerando anche che il Belpaese è uno delle nazioni europee che esporta di più in Libano e che dal 1987 coopera attivamente in ambiti che vanno dallo sviluppo industriale al patrimonio culturale, dalla sanità alla protezione ambientale.

Sono stato talmente sorpreso dalla protesta – confessa Stefano – che la prima cosa che ho pensato è quella di raccontarla e scriverla. È un evento talmente importate che anche molti libanesi lo stanno raccontando. In Libano del resto il ruolo della cultura è importante, basti pensare che i primi spazi che sono stati aperti post-guerra civile sono stati proprio il teatro e il cinema.

E anche di cinema parliamo con Stefano, visto che il suo documentario Footbalization sta circolando in alcune sale italiane.

Il documentario Footballization parla “del Libano e dei rapporti con i rifugiati, del suo confinare con la Siria e della storia di un compagno di squadra che doveva arrivare in Italia“. La storia si sviluppa attorno alla stagione calcistica dell’Al-Aqsa.

Il mio percorso con l’Al-Aqsa e la conseguente realizzazione del documentario deve incredibilmente tutto al caso. Ho incrociato questo campo da calcio di ritorno da un incontro nel campo di Borj el-Barajneh e da lì, attraverso l’incontro con il guardiano di quello spazio, non me ne sono più andato. Come spiega nel film lo stesso ragazzo, dopo quell’incontro fortuito mi ha invitato ad allenarmi con l’Al-Aqsa, e da lì sono passate 2 stagioni di allenamenti, partite e condivisioni di vita. Questo mi ha portato ad addentrarmi in profondità nei vissuti dei miei compagni di squadra, sia come persone che come calciatori. C’era così tanta umanità da raccontare – sia sul campo da calcio che nel campo profughi- che ho pensato di realizzare un film.

L’Al-Aqsa è la squadra palestinese del campo di Borj-el Barajneh, dove si allenano palestinesi-libanesi, siriani, libanesi. Quali sono le problematiche legate al mondo del calcio in Libano?

I rifugiati – che siano palestinesi storicamente residenti in Libano dal 1948 o siriani solo recentemente giunti nel Paese, sono esclusi dal calcio ufficiale, dove sono previste delle minime quote disponibili per coloro che non hanno la cittadinanza. Questo significa che quasi tutti si sono reinventati una carriera – marginale e non retribuita – nelle miriadi di campionati e leghe organizzate dagli stessi rifugiati. La coppa palestinese è l’unica competizione per i rifugiati a livello nazionale: arrivare a giocarsi la finale era una grande emozione per tutti noi.

Ci racconti il tuo rapporto con la vita quotidiana nel campo profughi di Bourj El-Barajneh?

Inizialmente è stato complicato farsi accettare come uno di loro, proprio perché uno di loro non lo sei, visto il colore e la valenza del mio passaporto. Ma trovarmi in quegli spazi di sera, e non in orari in cui un italiano è percepito solo come un operatore umanitario, mi ha aiutato nel presentarmi per quello che ero: una persona desiderosa di trovare una squadra con cui giocare. Il calcio si è dimostrato l’unico vero e valido alleato: giocare con delle persone, e non solo osservarle, significa condividere spazi, rinforzare alleanze e inimicizie con altri club. Significa quindi entrare in dinamiche quotidiane di complicità che sono il vero valore aggiunto del documentario. Non sono state riprese “toccata e fuga”, ma un lungo lavoro di acquisizione di fiducia e comprensione reciproca. Per me il campo profughi è stato il campo da calcio, e viceversa.

 Nel film hai raccontato anche l’incontro con il campione Jamal-al Khatib.

L’incontro con Jamal al-Khatib nasce da molti racconti di ex calciatori che mi parlavano di questa “leggenda del Libano”. Solo dopo mesi ho scoperto che questa leggenda era ancora in vita, e che viveva a pochi passi da casa mia. Jamal ci porta in un mondo leggendario a cavallo di una guerra civile, dove un uomo è in grado di posticipare una guerra e dove un altro uomo può giocare in tre diverse nazionali maggiori per via del suo talento calcistico. Ripartire dal passato per comprendere le storture di oggi: Jamal ci ha permesso di fare tutto ciò partendo dalla sua carriera da calciatore e dall’attuale impegno come dirigente della Nazionale palestinese in esilio.

 Quali sono le sfide quotidiane che hai voluto raccontare allenandoti con ragazzi siriani, palestinesi, libanesi?

Ho voluto raccontare le sfide legate principalmente al mondo del calcio, simbolo per alcuni di riscatto e per molti altri di ulteriore frustrazione. Le persone intervistate nel documentario sono in primis “persone con un numero sulla schiena”: l’aspetto del calcio non è complementare, ma il principale angolo da dove poi ripartire per osservare la quotidianità di un campo profughi nel suo quotidiano.

Quanto le ferite della Guerra civile libanese sono presenti ancora negli abitanti?

Sono presenti ferite culturali e sociali prima ancora che politiche. Ma i fatti di questi giorni ci fanno sperare in un futuro non più settario: in piazza le persone vogliono la fine di queste divisioni e si grida “la guerra civile non è finita nel 1990, la guerra finisce oggi“.

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