Lo scorso 12 giugno si è celebrata la Giornata mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile. Secondo quanto riportato dalla FAO, e in un report della Coldiretti, l’attenzione va posta sull’importazione di prodotti agricoli e alimentari provenienti dal lavoro di circa 108 milioni di bambini. Tra le lavorazioni citate vi sono: il riso basmati del Vietnam; le rose dal Kenya; le conserve di pomodoro dalla Cina e la carne del Brasile.
Questo elenco non può essere tuttavia considerato esaustivo, in quanto l’illegale manovalanza dei minori non è circoscritta soltanto ad Africa, Asia e Sudamerica. Il fenomeno coinvolge anche la “civile” Europa e avvicinando la lente d’ingrandimento alla cartina anche l’Italia.
È del 2013 il report “Game Over” di Save the children che indagava la presenza del lavoro minorile in Italia. Dallo studio è emerso che qui lavorano circa 260.000 minori, particolarmente in età compresa tra i 12 e i 15 anni, occupati nelle attività di ristorazione; vendita; agricoltura e allevamento e in minor parte artigianato; baby-sitting; lavoretti d’ufficio e attività nei cantieri.
Sebbene in larga parte l’occupazione di questi ragazzi costituisca un aiuto all’attività familiare svolto soltanto occasionalmente o in periodi stagionali, per il 32% costituisce anche lavoro svolto per terzi e motivo di abbandono precoce della scuola dell’obbligo. Il principale rischio infatti è la lesione del diritto allo studio dei bambini provenienti da famiglie indigenti che, mandati a lavorare per necessità, vengono di fatto privati di una formazione che gli permetta di acquisire conoscenze specifiche da applicare a mansioni maggiormente qualificate.
L’indagine ha realizzato anche una mappatura delle diverse intensità di rischio di lavoro minorile a seconda del territorio, rilevando un rischio molto alto in Sicilia e in isolate aree di Sardegna, Calabria, Puglia e Lazio con una progressiva diminuzione salendo più a Nord.
Quanto agli Stati Uniti d’America invece, la normativa in vigore vieta l’utilizzo di manodopera di bambini fino ai 12 anni, tuttavia per l’attività agricola è consentito che dopo il compimento del dodicesimo anno d’età il ragazzino possa lavorare part-time nella fattoria di famiglia, mentre nelle altre industrie l’età minima per cominciare a lavorare è di 14 anni. Le limitazioni riguardano soltanto la tipologia di lavoro in termini di pericolosità che i ragazzini andranno a svolgere e il numero di ore complessivo di occupazione, limitato durante l’anno scolastico. Tali regole si ricavano da leggi federali ispirate ai criteri generali del Fair Labor Standards Act del 1938.
Il principale settore nel quale si denuncia uno sfruttamento illecito del minore negli USA è rappresentato dalla produzione di tabacco e tra gli Stati coinvolti vi sono North Carolina, Kentucky, Tennessee e Virginia. Oltreché subire uno sfruttamento ingiustificato, i minori vengono qui quotidianamente esposti ad un ambiente altamente insalubre.
L‘America d’altronde non eccelle quanto a tutela del minore e chiaro segnale ne è la mancata ratifica della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, testo che guida invece l’operato in termini di legislazione interna e di buone pratiche degli Stati firmatari (l’Italia la ratificava già nel 1991) nei confronti dei minori d’età.
Vale la pena segnalare tuttavia che quanto all’ambito del lavoro minorile nemmeno la Convenzione ONU stabilisce regole chiare ed esaustive per scongiurare lo sfruttamento, all’art. 32, II comma infatti si legge che:
“gli Stati parti, in particolare: a) stabiliscono un’età minima oppure età minime di ammissione all’impiego; b) prevedono un’adeguata regolamentazione degli orari di lavoro e delle condizioni d’impiego; c) prevedono pene o altre sanzioni appropriate per garantire l’attuazione effettiva del presente articolo” e in tali termini l’America, seppur non firmataria, rispetta quanto prescritto.
Viene allora da chiedersi dove si trovi il labile limite tra caporalato/sfruttamento del lavoro e occupazione legale anche nei Paesi cosiddetti civilizzati, i quali dietro un finto garantismo legale sembrano in realtà legittimare limitazioni alla tutela dell’infanzia.