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Lavoro e migranti, “sfruttamento di Stato” vs integrazione

Sono molti i pregiudizi, le convinzioni errate, il “senso comune” che costruiscono etichette su richiedenti asilo, migranti, rifugiati. Medici Senza Frontiere, con la campagna Anti-slogan, prova a sfatare alcuni di questi miti: dal “portano le malattie” fino ad arrivare all’associazione tra immigrazione e terrorismo.

Nonostante gli sforzi profusi per sviluppare una narrazione del fenomeno fedele alla realtà, promossa tra gli altri anche dall’Associazione Carta di Roma, capita ancora che da un’opinione imprecisa si arrivi a proporre una soluzione ad un problema reale che si allontana dai principi della tutela dei diritti umani. Un esempio in questo senso è la sezione del “piano Minniti“, promosso dal Governo, dedicata al “lavoro”, gratis, per i richiedenti asilo.

Il provvedimento prevede l’introduzione di “lavori di pubblica utilità, finanziati con fondi europei” per tutte quelle che persone che, all’interno del sistema di accoglienza, sono in attesa dell’audizione alla Commissione territoriale di riferimento e, quindi, di una risposta alla propria richiesta di protezione internazionale. Il ministero dell’Interno specifica anche che “non si creerà una duplicazione nei mercati del lavoro, perché non sarà un lavoro retribuito“.

L’idea di far “lavorare” – virgolette rese necessarie dal fatto che, quando si parla di assenza di retribuzione, dovremmo utilizzare il concetto di volontariato – i migranti risponde, da un lato, alla diffusa sensazione che “non fanno nulla dalla mattina alla sera” e che “bighellonano per le nostre città in cerca di un wifi libero“; dall’altro, all’effettiva eccessiva lunghezza del periodo d’attesa di una risposta dalle autorità, attesa che spesso si trasforma in un limbo fatto di incertezze e instabilità.

Da quanto emerge, la partecipazione alle attività di lavoro socialmente utile dovrebbe diventare un prerequisito fondamentale per ottenere lo status di rifugiato. Tuttavia, come sottolinea il Consiglio Italiano Rifugiati (CIR), “non si può assolutamente legare il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria al presupposto di un lavoro del richiedente o del suo impiego in lavori socialmente utili. Questi sono principi incompatibili con le normative internazionali e nazionali.”

Inoltre, l’introduzione dell’obbligo lavorativo richiama la logica dello sfruttamento contro la quale per decenni si sono battute tutte le associazioni sindacali. Che tutele, infatti, ci sarebbero per questi lavoratori non-lavoratori? Che garanzie e quale sicurezza? E, una volta concluso il periodo dell’accoglienza, cosa accadrà a queste persone che non avranno avuto modo di cercare un’occupazione alternativa? Inoltre, è naturale chiedersi che “lavori socialmente utili” potrebbero eseguire; certamente un impiego a bassa professionalizzazione dato che, in teoria, conclusosi il percorso di accoglienza di un richiedente asilo, verrebbe sostituito immediatamente da un altro, in un susseguirsi di “numeri senza qualità”.

Un gruppo di donne migranti al lavoro fotografate da Roberto Bonvallet, distribuita secondo Licenza Creative Commons.

Il “piano Minniti”, di fatto, mira ad inquadrare da punto di vista legislativo e a promuovere l’ampliamento di esperienze diffuse in molti Comuni, soprattutto nel Centro Nord. Nella maggioranza dei casi, come evidenziato da questo reportage di TerreLibere, i richiedenti asilo non fanno altro che pulire le strade e curare i giardini pubblici. Quando, poi, ci sono stati casi di proteste e piccoli scioperi, la reazione prevalente è quella dello sdegno: l’idea è che i richiedenti asilo rifiutandosi di lavorare gratis dimostrino ingratitudine verso chi li ospita e non che stiano richiedendo gli stessi diritti che spettano a qualsiasi lavoratore, tutelati da norme nazionaliinternazionali.

“Invece di affrontare con lungimiranza e umanità quel fenomeno storico che è l’immigrazione, sottolinea la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti insieme all’Associazione Antigone, il Governo italiano non riesce ad abbandonare l’ottica emergenziale e si ostina a proporre politiche miopi e inadeguate.” Infatti, è vero che, in alcuni casi, i richiedenti asilo dopo mesi e anni di profonde difficoltà e violenze subite nei Paesi d’origine e durante il viaggio si trovano in una situazione di stasi in cui “stanno con le mani in mano”, così come è vero che partecipare a progetti collettivi e lavorare rappresentino passi avanti sul piano di un’accoglienza che sappia anche integrare, ma è ben diverso imporre un lavoro socialmente utile standardizzato per tutti e strumentale alla conquista di un status.

Esistono già molti progetti sviluppati da associazioni, grandi e piccole, spesso sostenute da enti locali o fondazioni che, autonomamente e con fine formativo, promuovono l’integrazione, l’incontro e l’accoglienza attiva, coinvolgendo i richiedenti asilo senza cadere nello sfruttamento. La Lega Calcio Friuli Collinare, per esempio, promuoveCalcioxenia”, un progetto di inclusione sociale che mette al centro i richiedenti asilo presenti sul territorio regionale e il calcio. 

Finanziato con 30mila euro dal bilancio regionale, “Calcioxenia” include in un programma di allenamenti e partite di calcio a cinque oltre 80 giovani provenienti da Paesi lontani, fisicamente e culturalmente. “La finalità, secondo l’assessore Gianni Torrenti, è creare una vera e propria vita associativa. Si parla di allenamenti, di vita di spogliatoio, di tutto ciò che chiamiamo terzo tempo, compresa la pizza tutti assieme a fine torneo. Attraverso questo progetto, i richiedenti asilo potranno imparare le regole del calcio, ma anche della vita sociale. Si dice sempre che lo sport insegna la disciplina, ecco in tutto ciò vi è anche la disciplina delle relazioni umane nella nostra società.”

A Bologna, invece, l’integrazione passa attraverso la radio e, in particolare, nel piccolo studio di Radio Alta Frequenza, un progetto di Mosaico di Solidarietà onlus sostenuto dalla Fondazione del Monte e dalla Fondazione Carisbo. Richiedenti asilo, studenti e ragazzi appartenenti alla seconde generazioni preparano, fianco a fianco, trasmissioni, approfondimenti, interviste per raccontare il loro punto di vista sul mondo e su quanto accade nella città dove vivono.

René e Moussa vengono dal Mali, mentre Taye è senegalese. Sono ospiti del CAS di Crespellano, nella provincia bolognese, gestito dalla Cooperativa Arca di Noè. Tra un rap e l’altro, raccontano parte della loro storia. Moussa è giovanissimo, è in Italia da meno di un mese, in Mali studiava Inglese e Francese, per questo forse se la cava già abbastanza bene con l’italiano: “Imparo la lingua ascoltando la musica pop, ma mi piacerebbe fare l’elettricista o qualcosa del genere… In radio ho tanto da scoprire, magari in futuro potrei fare il tecnico radio.” René è d’accordo, lui in Mali faceva il contadino e non era mai andato a scuola, oggi insegna ai contadini emiliani come si fa l’orto africano, frequenta una palestra di boxe tre volte a settimana, nel tempo libero studia i nomi delle verdure in italiano e fa lo speaker in radio. “Mi piace chiacchierare, ma soprattutto quando vivi una situazione così difficile e pesante, per me è normale cercare di aiutare chi ha bisogno. Il lavoro, in generale, è importante per tutti, per noi è un modo per lasciarsi alle spalle il passato. Senza un lavoro vero e proprio che alternative mi restano per essere indipendente?”.

René sta aspettando l’esito del ricorso che ha presentato dopo aver ricevuto un diniego, vuole restare in Italia, in fondo il suo “futuro migliore” l’ha già trovato; sogna solamente di trovare un’opportunità per poter restare legalmente. Taye, invece, è titolare di protezione umanitaria. Lavora come imbianchino, ma spera prima o poi di potersi iscrivere all’Università per studiare Informatica e per poter ambire ad ottenere un lavoro più vicino alle sue passioni. “Credo che ogni società abbia bisogno di persone che lavorano, così come noi tutti riteniamo che il lavoro sia fondamentale nella vita di ogni essere umano. Io non voglio chiedere soldi a nessun altro, quello che serve davvero è un sostegno della ricerca di un impiego”, basti pensare alle enormi difficoltà che un richiedente asilo incontra per completare un’operazione semplice come l’apertura di un conto in banca.

La differenza tra un “lavoro socialmente utile” e l’attività in radio oppure nello sport è che, nel secondo caso, viene rispettata e ricercata quella che è un’attitudine individuale del richiedente asilo che può scegliere in che settore impegnarsi. C’è, poi, chi come René le prova tutte per sperimentare, e chi invece va dritto al proprio obiettivo.

Ognuno, racconta Taye, ha qualcosa che gli piace fare, un’attività di cui non si stanca e non sente la fatica. Penso che si debba dare a ciascun giovane, indipendentemente dalla provenienza, una chance di avere un lavoro che gli piace. Questo per me è il rispetto. Altrimenti l’impressione è quella, per noi, di essere un semplice strumento. Non si può ignorare la dimensione della motivazione individuale. Solo così si può, tra l’altro, superare la sensazione di isolamento.” Proprio la portata dell’integrazione e del dialogo attraverso un’attività che possa anche dare una forma di gratificazione è fondamentale anche per René che, sorridendo, spiega: “È importante conoscersi, parlare, confrontarsi. Molta gente ha paura dei migranti e li capisco. Prima mica c’erano per le strade così tante persone di colore. Ma, appena arrivato, era strano anche per me, non ero abituato a tanti bianchi!”.

[Tutte le fotografie scattate nella sede di Radio Alta Frequenza sono opera di Angela Caporale per Voci Globali/Licenza Creative Commons]

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