Voci Globali

Nigeria del Nord, il volto femminile del desiderio di pace

[Nota: Traduzione a cura di Stefania Gliedman dall’articolo originale di Buki Adenekan pubblicato su openDemocracy]

Dimostrazione culinaria durante la distribuzione di generi alimentari del Programma alimentare mondiale in un campo di rifugiati a Bosso, Nigeria. Wikimedia/ECHO/Anouk Delafortrie. Alcuni diritti riservati
Dimostrazione culinaria durante la distribuzione di generi alimentari del Programma alimentare mondiale in un campo di rifugiati a Bosso, Nigeria. Wikimedia/ECHO/Anouk Delafortrie. Alcuni diritti riservati

In Nigeria la crisi migratoria va letta alla luce di più fattori, tra questi il desiderio di pace, la ricerca di stabilità e specifici ruoli di genere. I dati pubblicati nel giugno 2016 dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni parlano di 2 milioni di nigeriani costretti ad abbandonare le proprie case.

Nella stessa chiave di lettura vanno incluse le questioni sistemiche che gravano sul Paese. Il 60% dei nigeriani vive in condizioni di estrema povertà, senz’acqua e altri generi di prima necessità; il 70% di questo segmento demografico è costituito da donne e bambine.

L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) parla di 59,5 milioni di sfollati a livello globale, di cui il 17% provengono dall’Africa Subsahariana, inclusi Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sudan del Sud e Nigeria. Secondo le statistiche, 3,7 milioni sono rifugiati e 11,4 milioni invece sfollati interni, di cui 4,5 milioni solo nel 2014.

Insicurezza alimentare, degrado ambientale e violenza

La Nigeria del Nord è caratterizzata da un clima semi-arido che, con meno di 600 millimetri di precipitazioni all’anno, diventa la zona più secca di tutta la fascia del Sahel africano, con conseguenze devastanti per la biodiversità del terreno. L’agricoltura si concentra nella parte centrale del Paese, e rappresenta il 42% del Prodotto interno lordo nazionale. L’80% dei nigeriani nel Nord vive di pastorizia e produzione agricola, ma la regione rimane la meno efficiente da un punto di vista sia economico che infrastrutturale.

L’alto tasso di povertà da un lato, e gli attacchi terroristici di Boko Haram dall’altro, hanno contribuito alla distruzione delle aree agricole del Paese, con un conseguente accentuarsi dell’insicurezza alimentare e una diminuzione della produzione di generi alimentari, per cui i contadini si sono visti costretti ad abbandonare le proprie case. E chi è fuggito non ha intenzione di tornare, per paura del conflitto.

Secondo il Consiglio norvegese per i rifugiati (NRC), gli attacchi di Boko Haram nella Nigeria Nord-orientale hanno avuto un impatto catastrofico sulla disponibilità di generi alimentari e sull’accessibilità delle terre coltivabili. Circa 900.000 persone non riescono a far fronte alle esigenze alimentari di base, mentre 3,9 milioni devono ricorrere a misure di sostegno alimentare (il 60% di queste famiglie a rischio nel solo Stato di Borno).

Le violenze nel Paese hanno esacerbato l’impatto dei cambiamenti climatici, contribuendo al degrado ambientale in tutta la regione, con effetti devastanti sulle già scarse risorse di prima necessità, come cibo e acqua.

Le artefici del cambiamento

La violenza continua e i disastrosi danni ambientali ad essa legati hanno avuto serie ripercussioni soprattutto sulla popolazione femminile. Nella Nigeria del Nord più della metà degli sfollati  – per la precisione il 53% –  sono appunto donne.

Nonostante il carattere patriarcale della società nigeriana, le donne hanno sempre avuto un ruolo attivo nella lotta contro Boko Haram, sia sotto forma di propaganda che di azione in campo. Si sono sempre schierate in prima linea contro i ribelli, specialmente ad Abuja e Borno, dove hanno dato voce al proprio impegno in favore del cambiamento con proteste e azioni politiche. Si pensi ad esempio alla “Million Women March” dell’aprile 2014 ad Abuja, subito dopo il rapimento per mano di Boko Haram delle studentesse di Chibok.

Il gruppo delle Madri preoccupate di Borno, fondato dalle donne della capitale Maiduguri, è attivo sul fronte pacifista dal 2009.  Sempre a Maiduguri esistono diversi gruppi di vigilantes impegnati nella lotta contro Boko Haram, come la Civilian Joint Task Force, che conta 10.000 membri, di cui una cinquantina sono donne.

Come raccontano Ishaya Ibrahim e Sadia Ismail, che ho conosciuto personalmente durante il mio soggiorno in Nigeria,  le donne hanno un ruolo chiave sia nella resistenza attiva sul campo che nella loro condizione di sfollate. Ecco quanto racconta Ishaya, scampata alle atrocità di Borno:

[Gli uomini di Boko Haram] sono arrivati [a Chibok] con le motociclette e hanno preso d’assalto le chiese, scagliandosi contro le porte. Le donne sono state portate fuori. I 43 uomini sono rimasti in chiesa. Li hanno uccisi tutti. Hanno sparato ad alcuni, ad altri hanno tagliato la testa. Dopo di che sono risaliti sulle moto e hanno cominciato a dare la caccia quelli che si erano nascosti o dati alla fuga. Alle donne è toccato seppellire i morti.

Una sfollata che ha trovato riparo nella baraccopoli di Sainte Therese a Yolo. Boko Haram le ha ucciso il marito. Flickr/ECHO/Isabel Coello. Alcuni diritti riservati.

Ishaya descrive il modo in cui le donne reagiscono per far fronte a situazioni drammatiche. Molte, per la maggior parte vedove, hanno dovuto rimettersi in gioco, facendosi carico della gestione familiare, o assumendo un ruolo di leader all’interno della propria comunità; donne che hanno seppellito mariti, padri, fratelli, e che si trovano ora a dover prendere decisioni difficili.

Sadia Ismail collabora con la fondazione Ace Charity ad Abuja; ha lavorato come volontaria con bambini del campo Area 1 dal luglio 2015 al gennaio 2016, insegnando matematica, inglese e sviluppo socio-emotivo. Con altri milioni di connazionali ha abbandonato il nordest del Paese per cercare rifugio in aree più sicure.

Prima di trasferirsi ad Abuja, viveva con il marito e i suoceri a Gwoza, nello Stato di Borno. Era un martedì sera dell’agosto 2014 quando gli spari degli uomini di Boko Haram li costrinsero, assieme a molti altri, a fuggire. Dopo l’attacco, Sadia si ritrovò a vagare con la famiglia per giorni.

I ribelli di Boko Haram uccidevano tutti quelli che trovavano. Gli uomini si erano nascosti in una caverna alla periferia di Gwoza, e le donne portavano loro da mangiare, tutti i giorni.

La storia di Sadia dimostra come le donne vengano spinte dalle circostanze ad attingere alla propria capacità di adattamento, in contesti di estrema incertezza. La caverna in cui si erano rifugiati gli uomini si trovava nelle montagne attorno a Gwoza, al confine con lo Stato di Adamawa. Quella stessa zona era frequentata anche dagli stessi ribelli di Boko Haram, che l’avevano scelta come rifugio già dal 2009; il che rendeva ancora più temeraria l’impresa di consegna quotidiana del cibo ai famigliari rifugiati nella caverna.

Vi sono poi le sopravvissute alle violenze di Boko Haram, che tornano a casa ma che vengono poi emarginate, assieme ai figli avuti dai ribelli; i bambini, frutti di matrimoni forzati, vengono considerati “sangue marcio”, e pertanto rifiutati dai membri delle loro stesse comunità.  A tutto ciò si aggiungono gli enormi problemi emotivi legati ai maltrattamenti, agli abusi fisici e psicologici subiti.

Purtroppo la frammentarietà delle informazioni al riguardo rende difficile capire quante siano ancora nelle mani di di Boko Haram e quante siano riuscite a fuggire. Il fatto che nei campi di rifugiati i funzionari incaricati siano per la maggior parte uomini, non aiuta certo le vittime di abusi sessuali a farsi avanti.

Le protagoniste del conflitto

Come racconta Chitra Nagarajan, “le donne vittime e sopravvissute delle violenze sono solo un lato della medaglia: esistono anche quelle attivamente impegnate sia nel Jamāʻat Ahl as-Sunnah lid-daʻwa wal-Jihād [Boko Haram, o JAS, NdT] che in gruppi opposti che invece lottano contro la setta estremista.”

Se da un lato le donne vengono spesso identificate come vittime in caso di crisi o di guerra, non va trascurato il fatto che molto spesso abbiano invece un ruolo attivo nel conflitto stesso. Le seguaci di Boko Haram non sono sempre figure passive e apolitiche, ma spesso diventano attiviste consapevoli in campo religioso e politico. Sono inoltre un tassello chiave nelle strategie del gruppo, che si è imposto con efficacia nell’intera regione. Non di rado ragazze insospettabili che nascondono un’arma sotto i vestiti riescono a muoversi indisturbate.

Intervistata dalla CNN, una vittima sfuggita ai ribelli, racconta che le bambine facevano a gara per trasportare le bombe, non tanto perché si fossero convertite all’ideologia della setta, ma perché cosi facendo speravano di mettere fine agli abusi sessuali che erano costrette a subire.

La mancanza di dati ufficiali sulle violenze sessuali e sui numeri delle combattenti non giova certo alla strategia adottata dal Governo nigeriano per far fronte alla crisi. Se da un lato le donne schierate in favore della pace vedono riconosciuto il proprio impegno, a quelle che sfuggono dalle mani di Boko Haram non viene offerto nessun tipo di appoggio, e le sfollate nei campi rifugiati non hanno alcuna possibilità di sostentamento. I volti e le voci delle vittime che fanno ritorno alle proprie comunità di appartenenza si perdono nel pregiudizio di una società che vede in loro unicamente lo stigma indelebile del gruppo terroristico. Questa situazione crea ulteriore vulnerabilità e potrebbe degenerare in un esacerbarsi del malcontento, e quindi in altra violenza.

Sia il Governo nigeriano che la comunità internazionale devono iniziare a guardare alle donne come artefici del cambiamento, come forza di mobilitazione sociale in grado di mitigare l’impatto della violenza e del degrado ambientale. La situazione delle sfollate va urgentemente analizzata e gestita. Infine, le donne vanno coinvolte nelle fasi strategiche di progettazione e attuazione delle misure di intervento.

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