Il prossimo maggio in Iran si terranno le elezioni presidenziali. Come sta cambiando il Paese, oggi così centrale nel determinare gli equilibri in Medio Oriente? Lo abbiamo chiesto al giornalista Antonello Sacchetti, autore del libro “La rana e la pioggia – L’Iran e le sfide del presente e del futuro” (Infinito Edizioni)
Antonello, l’Iran è un Paese che conosci bene e da vicino: quali sono i cambiamenti più significativi nell’ultimo decennio?
In Iran negli ultimi dieci anni si sono vissute stagioni molto diverse. Il mio primo viaggio in Iran fu all’inizio del primo mandato di Mahmud Ahmadinejad, e gli otto anni successivi furono segnati da momenti drammatici, come la crisi elettorale del 2009, con l’Onda Verde, i sospetti di brogli, la repressione e uno stato di effettiva chiusura del Paese. Ancora nel 2012 l’atmosfera era molto pesante: le sanzioni da parte di Usa e Ue avevano isolato la Repubblica islamica e in molti temevano un attacco da parte israeliana ai siti nucleari. Attacco che avrebbe avuto conseguenze catastrofiche per tutto il Medio Oriente. Poi l’elezione del moderato Hassan Rouhani nel 2013 ha aperto una fase politica diversa. È ripreso il dialogo con l’Occidente, come anche gli scambi commerciali, e il turismo occidentale sta registrando un boom clamoroso. Ovviamente non sono tutte rose e fiori: rimangono i problemi relativi ai diritti umani e anche l’economia non ha registrato i miglioramenti sperati. Di fondo, però, il Paese è cresciuto per quello che riguarda l’innovazione tecnologica e si è sviluppata anche una inedita coscienza ambientalista. Il Paese dei giovani – che raccontai nel mio I ragazzi di Teheran del 2006 – è diventato un po’ più “anziano”, forse un po’ più realista. Molti giovani recatisi nel decennio scorso a studiare in Europa e negli Usa, oggi hanno riportato in patria un bagaglio di esperienza e di conoscenze preziosissimo, alla base di un movimento di startup davvero interessante.
Partiamo dal sottotitolo del tuo libro, “Le sfide del presente e del futuro dell’Iran”. Il nuovo presidente degli Stati Uniti ha imposto nuove sanzioni all’Iran, ma già con Obama l’accordo mostrava nodi irrisolti. Cosa sta veramente cambiando con Trump e quali sono gli umori del popolo iraniano rispetto alle mosse di Washington?
Secondo la Guida Khamenei, Trump ha semplicemente svelato il vero volto degli Stati Uniti. È una situazione molto particolare: in generale, i conservatori iraniani hanno sempre preferito l’approccio pragmatico dei repubblicani a quello più ideologico dei democratici. Va però detto che Trump è un repubblicano anomalo, ancora difficile da decifrare. I suoi primi passi in politica estera sono stati disastrosi. L’opinione pubblica iraniana lo percepisce come una minaccia e non ha tutti i torti: il cosiddetto muslim ban ha colpito nel vivo la comunità iraniana negli States che conta quasi un milione di persone. Bisognerà vedere cosa accadrà alle elezioni presidenziali in Iran a maggio. Di sicuro, la retorica di Trump favorisce i conservatori contrari al dialogo e al compromesso con l’Occidente. Nel 2002 Bush junior inserì l’Iran nell'”Asse del male” (con Iraq e Corea del Nord) assestando un colpo tremendo alla stagione riformista di Khatami. In molti si chiesero: che senso ha dialogare con l’Occidente se poi comunque finiamo “nell’elenco dei cattivi”? Detto questo, non darei giudizi apocalittici. Recentemente, un alto diplomatico iraniano mi ha detto durante una conversazione privata: “In Iran abbiamo 3.500 anni di Storia; passerà anche Trump.”
Quali sono secondo te i rischi del possibile ritiro americano dai teatri mediorientali?
Dipenda da cosa intendiamo. In un certo senso, se gli Usa si occupassero meno di Medio Oriente, forse farebbero meno danni. Basti vedere quali conseguenze terribili abbiano avuto le scelte in Iraq, Siria, Libia e in generale nelle cosiddette primavere arabe.
Come viene percepito oggi in Iran il processo di trasformazione della politica e dell’economia locali?
Non so se sia corretto parlare di trasformazioni effettive o solo di intenzioni, più o meno dichiarate. Il processo di distensione e dialogo portato avanti dall’attuale presidente ha ovviamente i suoi avversari. Ci sono forze politiche ed economiche che nel periodo delle sanzioni e dell’isolamento si sono arricchite attraverso il mercato nero. Forse alcune dinamiche – come quelle riguardanti i mezzi di comunicazione, il digitale – sono ormai irreversibili. Su molte altre la partita è aperta e tutt’altro che scontata: non è affatto detto che le forze del cambiamento avranno la meglio su quelle della conservazione. Certo, la popolazione è giovane e tra dieci anni la generazione che ha fatto la rivoluzione sarà in età da pensione. Ma non dimentichiamo che la Repubblica islamica, così come è oggi, nelle sue innumerevoli storture, è l’unico Stato davvero stabile in un’area davvero travagliata. Prima di optare per cambiamenti radicali, gli iraniani ci penseranno mille volte. La rivoluzione loro l’hanno già fatta nel 1979, non credo ne aspettino altre.
A che punto è oggi il sistema finanziario iraniano a livello normativo?
È una questione complicata, perché l’Iran è stato finora escluso dal circuito finanziario mondiale. Anche dopo la fine delle sanzioni, il sistema è bloccato e sottocapitalizzato. Nel Paese ci sono 31 istituti di credito, con un livello di patrimonializzazione molto basso rispetto alle medie europee e con un livello di crediti in sofferenza piuttosto preoccupante: la media al 20% degli attivi, con punte fino al 40%. Anche dopo la fine delle sanzioni, la maggior parte degli istituti di credito europei sono stati molto titubanti a investire in Iran per paura di possibili ritorsioni da parte Usa.
In che modo Teheran può crescere nei rapporti con la Cina?
L’interscambio commerciale con Pechino è cresciuto molto negli anni di Ahmadinejad, quando le porte dell’Occidente e dell’Europa in particolare si sono chiuse. In quegli anni (2005-2013) Teheran ha venduto greggio non raffinato alla Cina ed ha importato beni a basso costo e di scarsa qualità da Pechino. Non è stato uno scambio molto conveniente per l’Iran. Bisogna vedere cosa accadrà a maggio: se Rouhani sarà rieletto – cosa niente affatto scontata – lo sguardo dell’Iran sarà comunque ancora rivolto a Occidente. Se dovesse prevalere un candidato conservatore, è probabile che il rapporto con la Cina potrebbe tornare di grande attualità.
Parliamo della guerra in Siria. La politica iraniana in Siria secondo te è stata più mossa da motivazioni geopolitiche o da motivazioni religiose?
Tutta la politica estera iraniana è da sempre mossa da principi di interesse nazionale. La religione c’entra davvero poco, se non come copertura ideologica a strategie prettamente geopolitiche. La Siria è l’unico alleato strategico di Teheran in Medio Oriente. L’unico dei Paesi arabi, vale la pena ricordarlo, che lo appoggiò nella guerra di difesa contro l’Iraq. Per fare un esempio del pragmatismo iraniano in politica estera, basti guardare alla sua posizione nel lungo conflitto in Afghanistan, dove ha sempre sostenuto la fazione tagika, di lingua persiana ma sunnita, e non gli hazara, la minoranza sciita.
Se, oltre la Siria, Iran e Russia stringeranno nel tempo un’alleanza strategica, quali potrebbero essere le conseguenze?
Non so se esista la possibilità concreta di un’alleanza a lungo termine con la Russia. L’Iran ha fatto una rivoluzione anche – se non soprattutto – per riscattarsi da una condizione geopolitica di sudditanza nei confronti degli Stati Uniti; non si metterebbe mai in una condizione di inferiorità con Mosca. Non credo nemmeno che ci siano poi tutti questi punti di contatto tra Russia e Iran. Gli altri Paesi sono già di fatto avversari di questo “asse”. Non c’è solo il fronte siriano, anche quello dello Yemen e la crisi in Bahrein. Fronti sui quali Iran e Arabia Saudita si confrontano di fatto in guerre per procura. Ad ogni modo, la Russia è stata nella Storia, un avversario della Persia, o una minaccia. E l’opinione pubblica non credo sarebbe mai entusiasta di una scelta simile. Oggi vive questa “alleanza” come una scelta tattica, soprattutto in funzione anti Daesh. Vale la pena ricordare che Russia e Iran sono i soli Paesi – oltre ai diretti interessati Siria e Iraq – a combattere l’Isis con forze armate di terra.
Finito il bipolarismo, si apre davvero la stagione del multipolarismo?
Di fatto, credo che esista un multipolarismo di secondo livello. Oltre al fatto che forse un bipolarismo si sta in qualche misura ricreando, credo che in Medio Oriente, ad esempio, ci siano potenze di medio livello che abbiano una forza attrattiva nei confronti di altri Paesi. Certamente l’Iran lo è.
Ci sveli qual è il significato del titolo del tuo libro, “La rana e la pioggia”?
Il titolo prende spunto da una poesia del 1952 di Nima Yooshij, padre della poesia persiana contemporanea. Secondo una credenza popolare del Nord dell’Iran, quando tre rane cantano, vuol dire che sta per piovere. Per Nima, la pioggia è una metafora della rivoluzione, di un cambiamento epocale. L’Iran viene spesso descritto come un Paese in procinto di cambiare; all’indomani dello storico accordo sul nucleare (luglio 2015) questo tema è divenuto quanto mai attuale. Nel libro ho cercato di affrontarlo con uno sguardo molto personale, non legato cioè soltanto alle questioni sociali ed economiche, ma anche alle mie esperienze.