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Dall’orrore alla disperazione: la crisi dei rifugiati in Kenya

[Traduzione a cura di Manuela Beccati dall’articolo originale di Joash Ntenga Moitui* pubblicato su Pambazuka News]

Una classe di bambini somali nel campo profughi di Dadaab (pubblico dominio)

La decisione di chiudere i campi profughi in Kenya, che ospitano centinaia di migliaia di persone provenienti da Paesi limitrofi, è sconsiderata e rappresenta una chiara violazione del diritto internazionale. Il provvedimento non risolve peraltro il problema della sicurezza, minacciata dalla presenza delle milizie di Al Shabaab. Molti profughi costretti a tornare in Somalia saranno facilmente conquistati dai reclutatori del terrorismo.

Il dilemma tra l’accoglienza dei rifugiati e la difesa della sicurezza nazionale affligge il governo keniota. Quale sarà ora il destino di 600.000 profughi che non saranno più ospitati sul suolo del Paese? Non si tratta di rifugiati provenienti dalla Siria, Grecia o Germania, bensì centinaia di migliaia di persone provenienti dalla Somalia, Sudan del Sud e altre zone di conflitto nel Corno d’Africa orientale. Nel corso degli anni, il Kenya è stato un paradiso sicuro, sinonimo di pacificazione, sviluppo e base per le missioni ONU. Il cambiamento improvviso potrebbe pregiudicare le relazioni con la comunità internazionale. In molti casi, il governo ha affermato che questi campi profughi sono “terreno fertile” per il terrorismo, essendo centri di formazione e reclutamento per le milizie di Al Shabaab. Un funzionario del governo ha dichiarato: “L’attacco a Garissa è l’esempio di un attacco pianificato nei campi profughi“.

Con la chiusura di Dadaab, il più grande campo profughi al mondo, aumentano le preoccupazioni sull’applicabilità del diritto internazionale in questa crisi umanitaria, sulla convergenza tra le politiche delle Nazioni Unite e dei governi nazionali e sul principio di non-respingimento. Il principio di non-respingimento nel diritto internazionale proibisce la riconsegna di una vittima di persecuzione al suo persecutore. Il trasferimento forzato dei rifugiati in Somalia, una nazione che sta ancora affrontando problemi di stabilità a causa dei 25 anni di guerra civile, desta particolare inquietudine dato che il numero complessivo dei suoi rifugiati e sfollati è salito al picco più alto dalla seconda guerra mondiale. La Somalia è anche alle prese con la questione dell’estremismo violento da parte dei militanti di Al Shabaab. Il ritorno di questi profughi darebbe un nuovo impulso al reclutamento di militanti di Al-Shabaab, rafforzando la loro base e fornendo loro la possibilità di attuare violazioni dei diritti umani, come succede in Iraq e in Siria con l’ISIS. Ciò è contrario al principio di non-respingimento.

Veduta aerea del campo Ifo 2 di Dadaab, sul confine somalo-keniota. Tutto il campo ha un'estensione di 50 chilometri quadrati (UN Photo/Evan Schneider, 2014, CC)

In confronto alla crisi migratoria del Nordafrica, dove i richiedenti asilo rischiano la vita in viaggio verso l’Europa, Dadaab rappresenta la crisi dei rifugiati in modo chiaramente diverso: qui il sistema di sostegno è prostrato per via dell’acutizzarsi dei fenomeni nella patria di origine, e le risorse sono ridotte al minimo pur dovendo sostenere le vittime in fuga da siccità, guerre e devastazioni. L’effetto moltiplicatore di tutto questo è che i soccorsi e le organizzazioni umanitarie sono stati messi a dura prova. Le esigenze di finanziamento dell’UNHCR sono salite a oltre il 130% dal 2009 a fronte di un aumento di bilancio di appena il 70%, secondo un rapporto del Migration Policy Institute di Washington. Questo ha portato alla malnutrizione infantile nei campi profughi. Il Programma Alimentare Mondiale (PAM) è in forte difficoltà con le operazioni di finanziamento a Dadaab, causa della diminuzione delle razioni negli ultimi 12 mesi. Oggi, l’alimentazione quotidiana per i rifugiati è pari a un terzo in meno del minimo richiesto dalle Nazioni Unite. I problemi che devono affrontare i rifugiati vanno messi subito in agenda.

Nel 2011 il campo di Dadaab ospitava più di 470mila richiedenti asilo, nel 2016 insieme a quelli di Kakuma sono arrivati a 600mila (Photo: EC/ECHO/Daniel Dickinson, CC)

Non c’è dubbio che alla chiusura imminente dei campi profughi conseguiranno violazioni dei diritti umani. Somalia e Sudan del Sud continuano a confrontarsi con il massiccio dislocamento e delocalizzazione dei loro cittadini. Inoltre, il ritorno forzato in massa potrebbe creare tensioni derivanti da disordini civili. La migrazione della popolazione verso un luogo non più abitato per un lungo periodo quasi certamente porterà all’instabilità e alla vulnerabilità, e di conseguenza alla guerra civile.

* Joas Ntenga Moitui è ricercatore presso il Centro per i diritti umani e le Policy Studies (CHRIPS) dell’Università Pan africana, Yaounde, Camerun. E-mail: joash.moitui@gmail.com

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