Voci Globali

L’Africa e il dramma dell’immigrazione. Che non finirà.

[Traduzione a cura di Luciana Buttini, dall’articolo originale di Tidiane Kassé pubblicato su Pambazuka]

L’immigrazione è vecchia quanto l’Africa stessa. Da sempre le persone si sono spostate in cerca di una vita migliore. In Africa la crisi economica alimentata dalle politiche di sviluppo imposte nel continente da parte della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e di altri donatori, è uno dei fattori che spinge alcuni a intraprendere pericolose traversate verso l’Europa nel tentativo di migliorare la loro sorte.

In alcune culture africane, il viaggio è un atto iniziale. Si diventa uomini quando si lascia la propria famiglia e si va lontano per conoscere altre persone e altre culture, per confrontarsi con le vere realtà del mondo. Questo significa rinunciare al conforto e alle cure di una madre, alla protezione di un padre. Andare via equivale ad acquisire maggiore esperienza; tornare significa arricchire il proprio gruppo con ciò che si è appreso nell’altro mondo. Questa mentalità segna in maniera indelebile i Soninkés, una comunità transfrontaliera che vive tra il Senegal, il Mali e la Mauritania. In questa zona, i villaggi sono vuoti. Nelle case risuonano essenzialmente le risate delle donne e le grida dei bambini. Gli uomini sono partiti. Sono emigrati altrove. I Soninkés sono una delle popolazioni che si sposta di più in Africa e questo continua dai tempi dell’Impero del Ghana (8°-11° secolo).

A Diawara, un villaggio Soninké che si trova a 800 chilometri dalla capitale senegalese Dakar, più del 50% della popolazione è di nazionalità francese. Quasi tutti sono migranti di ritorno, che rientrano per ristabilirsi nella loro terra d’origine una volta che i loro percorsi in Europa o in Africa si sono conclusi. Coloro che non sono ancora ritornati hanno lasciato le loro mogli e i loro figli in dimore di lusso. Le abitazioni che si sviluppano a Diawara danno l’impressione di un benessere inaspettato. Televisori, frigoriferi, condizionatori, etc. sono dietro le mura. Lontano da Dakar, non si può minimamente immaginare la situazione delle zone rurali dove la povertà colpisce il 70% della popolazione.

Ogni mese, i migranti dalla Francia, dalla Germania, dall’Italia o da qualsiasi altra parte del mondo mandano alle loro famiglie denaro per coprire le spese mensili. Spese mediche, tasse scolastiche, qualsiasi cosa per assicurare il benessere della famiglia. Nella comunità dei Soninkés, il successo dell’emigrazione viene misurato dalla facilità con cui la famiglia viene lasciata nel villaggio. Le rimesse dei migranti sono considerevoli. Infatti nel 2015 la Banca Mondiale ha stimato che i trasferimenti di denaro provenienti dall’emigrazione sono stati pari a 601 miliardi di dollari, compresi i 441 miliardi di dollari ai Paesi in via di sviluppo. In Senegal, questo circuito è stato alimentato da circa 2 miliardi di dollari e questo è molto di più dei contributi degli Aiuti Pubblici allo Sviluppo (APS).

 

Fabbro soninké a Tourimé (Bakel), 2013, foto di Saliou Dit Baba Diallo dal blog http://migrinter.hypotheses.org/

Il denaro inviato non è destinato solo alle famiglie poiché contribuisce anche allo sviluppo della comunità. Dopo l’attuazione dei Piani di risanamento finanziario imposti negli anni ’80 dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dalla Banca Mondiale, gli Stati africani hanno voltato le spalle agli investimenti di sviluppo sociale, non costruendo né ospedali né centri sanitari, scuole ecc, quanto piuttosto privatizzando e licenziando centinaia e centinaia di lavoratori. Oggi queste politiche hanno iniziato a cambiare. L’Africa è un continente in cui, per dieci anni, il tasso di crescita si aggirava intorno al 5%, ma i danni del passato sono incommensurabili e la ricostruzione è davvero difficile.

Far uscire mia madre dalla povertà

Per decenni, i popoli africani hanno preso in mano il proprio destino. Durante questo periodo, in cui gli Stati hanno abbandonato le loro responsabilità sociali, sotto la pressione dei Paesi occidentali e delle istituzioni finanziarie internazionali, lo sviluppo della comunità era diventato un problema solo per gli emigranti. Sono loro, infatti, che hanno costruito scuole, centri sanitari e pozzi o finanziato la costruzione di serbatoi d’acqua e oggi coloro che intraprendono il sentiero dell’esilio hanno le stesse speranze. Magari hanno visto come, con il denaro guadagnato emigrando, un vicino o un cugino è riuscito a far uscire la propria madre dalla povertà e quindi quando s’imbarcano sulla strada del deserto, attraversando la Libia o il Marocco per poi arrivare in Europa, hanno in mente quest’unico motivo.

La maggior parte di loro ha uno stesso punto di partenza. Non conoscono la loro meta e per questo si stabiliranno dove la solidarietà offrirà loro asilo. Molti di loro si perderanno per strada, moriranno di sete nel deserto o annegati nelle acque del Mediterraneo. Ma nessuno di loro penserà mai di abbandonare il viaggio e ritornare a mani vuote. Preferiscono piuttosto morire che dover affrontare lo sguardo di coloro che sono rimasti.

Questi movimenti migratori non sono affatto nuovi. Le migrazioni hanno lasciato un’impronta indelebile nei Paesi africani e fanno parte della loro storia. I primi movimenti da Stato a Stato risalgono a dopo il periodo dell’indipendenza africana e a quel tempo le partenze non miravano all’Europa. Erano per lo più interni all’Africa: dai Paesi africani occidentali, le mete principali erano la Costa d’Avorio e la Repubblica Democratica del Congo (un tempo Zaire) nell’Africa centrale. Oggi, due terzi delle migrazioni africane avvengono ancora all’interno della stessa Africa e sono dirette verso i Paesi produttori di petrolio quali il Gabon o la Guinea Equatoriale, in cui i giacimenti d’oro nero ingannano ancora nonostante la violenza e le deportazioni.

La migrazione verso il Nord rappresenta meno di un terzo della migrazione dall’Africa, sebbene secondo l’Organizzazione Internazionale per le migrazioni migliaia di africani siano tra i 700.000 migranti che nel 2015 hanno attraversato il Mediterraneo per approdare in Europa.

Nessuna prospettiva di lavoro

È a partire dal 1970 che i flussi migratori verso l’Europa hanno iniziato a intensificarsi. Nel prosperare della loro economia, i Paesi europei avevano bisogno di lavoratori da impiegare in lavori non qualificati. Ed è in questo modo che ha iniziato a farsi strada l’immagine dei lavoratori immigrati nelle catene di montaggio automobilistiche o dei netturbini neri nelle strade di Parigi. Fino alla metà degli anni ’80, un cittadino delle ex colonie francesi non aveva alcun bisogno di avere un visto per entrare in Francia. In questa libertà di movimento, il flusso di persone era costante. Infatti con la possibilità di poter tornare a casa se necessario, gli immigrati sono rimasti in Europa solo per il tempo del lavoro, tornando dalle loro famiglie per le vacanze. Così il ricongiungimento familiare era un lusso non necessario.

La chiusura delle frontiere europee è avvenuta in un momento in cui le economie africane entravano in un periodo di crisi. Le politiche di risanamento economico e finanziario attuate sotto l’imposizione della Banca Mondiale e del FMI avevano iniziato ad avere delle conseguenze. Infatti gli Stati destrutturati hanno cominciato a crollare. I laureati disoccupati si sono uniti ai lavoratori licenziati. Per migliaia e migliaia di giovani, che si trovavano senza prospettive, l’emigrazione era la sola soluzione e così il flusso di migranti ha iniziato a svilupparsi negli anni ’90. L’Europa, trincerata dietro i suoi confini, vive oggi in un’illusione di sicurezza. Le frontiere non possono essere sigillate e per questo i migranti africani, bloccati dalle limitazioni nell’assegnazione dei visti, hanno trovato vie alternative. Attraverso il Marocco – per esempio – hanno affrontato le porte di Ceuta e Melilla in cerca di una nuova speranza.

In Senegal, la storia di queste traversate in canoa verso la Spagna è diventata una sorta di aneddoto. Cercando i pesci che erano scarsi sulle loro coste e nelle acque della Mauritania, i pescatori provenienti da Saint Louis si sono trovati a largo delle coste spagnole, a migliaia di chilometri dal  loro punto di partenza. Allora la loro storia è iniziata a diffondersi e altri pescatori, invece di cercare i pesci nei mari vuoti, si sono trasformati in scafisti. Hanno ampliato le loro canoe, facendo salire a bordo centinaia di avventurieri e lanciando così l’immigrazione illegale. Questo ha raggiunto il suo picco tra il 2007 e il 2009.

Centinaia di migranti clandestini hanno perso la vita in mare. Lo scandalo si è diffuso nel mondo a partire dal 2006, quando il carico delle canoe ha cominciato a finire in mare, le persone ad annegare o scomparire. Le loro odissee sono state accompagnate da storie macabre. Il delirio e la follia durante i giorni in mare, i campi di detenzione per coloro che erano in grado di sbarcare ed erano costretti a ritornare nel loro Paese dopo un’avventura andata male, senza aver accesso ai diritti più elementari.

Tuttavia nemmeno coloro che viaggiano attraverso il deserto conoscono un destino migliore. Attraversano il Sahara passando per il Mali e la Nigeria nelle mani degli avventurieri e poi finiscono in Libia o in Tunisia e aspettano l’imbarcazione che li porterà dall’altra parte del Mar Mediterraneo. A volte quest’odissea costa da 1.000 a 2.000 euro, e spesso viene pagata con la tontina (forma di microcredito) vinta dalla madre, con i titoli di proprietà venduti dal padre o i gioielli venduti al mercato.

Quando si diffonde il bilancio delle vittime delle tragedie, prevale una certa apatia tra l’opinione pubblica. A forza di sentire questi numeri, i bilanci delle vittime non procurano più dolore. Mille morti risuonano come una sola morte. L’immagine del corpo di un bambino dimenticato sulla spiaggia o di una donna incinta rigettata dalle onde non sconvolgono più. I morti diventano “anonimi” e i loro numeri restano astratti.  È solo quando il dramma entra in una famiglia o in un villaggio che l’emozione supera l’assopimento. Ma l’evento è raro. Le storie di migrazione a volte sono troppo globali e meno legate ai drammi personali. Un eritreo, un siriano, un iracheno che scompaiono nelle acque del Mediterraneo non significa granché per questa parte del globo. Ecco perché la solidarietà è così difficile da costruire nel Sud, per affrontare questo scandalo.

Il silenzio degli Stati africani

L’emigrazione è spesso un dramma nascosto. La storia di un figlio partito rimane segreta fino a quando possono essere raccontate le notizie dei successi. Le famiglie aspettano di ricevere notizie dal proprio figlio, che è stato assente per più di un decennio, aggrappandosi alla speranza di sapere un giorno dai media che è ancora vivo.

A livello globale, gli Stati africani preferiscono eliminare una questione che è segno del loro stesso fallimento. I giovani che partono, con la certezza di giocare le loro vite alla roulette russa, rappresentano l’esempio vivente della bancarotta delle politiche per l’occupazione e la disperazione di vite con un futuro privo di speranza.

Dieci anni fa, quando Paesi come il Senegal si sono alleati con i Governi europei per essere coinvolti nel Programma di Frontex (riguardante le frontiere esterne europee), i candidati alla migrazione hanno affermato che si trattasse di un tradimento. La polizia perlustrava le spiagge al fine di fermare i tentativi di partenza con le piccole imbarcazioni. Tuttavia il flusso non si è arrestato. Ha deviato per poi alimentare le strade del deserto. I giovani continuano a partire.  I migranti pensano che, in questo momento di disordine, abbiano più possibilità di partire in cerca di una nuova vita, visto che la Libia è un Paese nel caos.

Nell’aprile 2015, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR) ha annunciato il conto alla rovescia per 1.700 migranti morti solo in quel mese. Il silenzio dell’Unione africana in merito a questo dramma procura sdegno. Le rare affermazioni fatte nelle capitali africane si sono limitate ad atteggiamenti di dispiacere e di condanna. Nessuno ha offerto spunti per delle soluzioni. Per affrontare il problema dell’immigrazione clandestina tutti aspettavano il vertice tra l’Unione Europea e l’Unione Africana che ha avuto luogo a Malta lo scorso novembre. Ancora una volta, il destino del continente era nelle grazie degli altri. L’Unione Europea ha promesso 1,8 miliardi di euro, in attesa dei contributi degli Stati africani. Tuttavia questi miliardi non rappresentano affatto la soluzione. Infatti questo denaro finirà, lasciando che il sistema continui a generare esclusione e sofferenza.

La giovane comunità di Soninké penserà sempre di partire. Che sia verso l’Europa o verso altri Paesi africani, porteranno a termine ciò che hanno iniziato.

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