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Cina, l’escalation di violenza nella lotta uigura

[Traduzione a cura di Marisa Petricca dell’articolo originale di Michael Caster pubblicato su OpenDemocracy]


Cento membri della comunità uigura a Oslo, Norvegia, marciano per commemorare l'anniversario del massacro avvenuto ad Urumqi il 5 giugno 2009. Olav Ljone Skogaas/Demotix. Tutti i diritti riservati.
Martedì 26 settembre 2014, un tribunale cinese ha giudicato colpevole Ilham Tohti, un professore uiguro di economia, condannandolo all’ergastolo e accusandolo di separatismo, nell’ambito di uno scandaloso processo politico. William Nee, ricercatore di Amnesty International China, ha scritto: “Questo gudizio vergognoso non si basa sulla realtà. Ilham Tohti ha lavorato in modo pacifico, costruendo legami tra le comunità etniche e per questo è stato punito…

Il giudizio che il Partito Comunista Cinese (PCC) ha imposto al professore potrebbe essere interpretato come un esempio verso gli altri uiguri e una rappresaglia specifica contro Tohti, a causa del suo aperto attivismo per i diritti degli Uiguri. È stato irremovibile nel denunciare che le politiche del governo centrale siano state un abuso verso gli uiguri e che abbiano infiammato il conflitto. Ed è sempre stato costante nel suo impegno all’azione non violenta, il passo necessario da intraprendere per i diritti degli Uiguri in Cina, sostenendone sempre l’autonomia, mai l’indipendenza, nonostante le dichiarazione contrarie del Governo.

A dire il vero, negli ultimi anni, c’è stato un tragico aumento di episodi violenti attribuiti al malcontento degli Uiguri presenti in Cina. Gli Uiguri sono l’etnia turca e la minoranza musulmana predominante, che rivendica come antica madrepatria quella che è l’odierna provincia nord-occidentale cinese dello Xinjiang, che tradotto letteramente significa ‘nuovo territorio.’

Insofferenza e repressione

Le narrazioni storiche cinesi e uigure sono state sempre una fonte di contesa. Gli Uiguri hanno sofferto per la repressione statale, di tipo culturale, linguistica, e sui diritti religiosi. Sono stati svantaggiati da un certo numero di politiche economiche pregiudizievoli, che hanno favorito la maggioranza Han. Anche se le rimostranze uigure hanno scatenato disordini in passato, la recente crescita di violenza è soprendente.

Mentre il Governo cinese, senza perdere tempo, ha dato la colpa di quest’ondata di violenza alla radicalizzazione islamica e all’istigazione da parte delle forze straniere (tutte cose che sono state usate per giustificare un maggiore dispiegamento di forze per la sicurezza), le principali organizzazioni internazionali per i diritti umani indicano come cause della crescente instabilità nello Xinjiang l’aggressione sistematica ai diritti degli Uiguri e l’accresciuta militarizzazione da parte dello Stato.

In modo diffuso sono state riportate esplosioni di violenza su vasta scala, come il massacro nella stazione ferroviara a Kunming, avvenuto nel marzo scorso, oppure l’attentato in un mercato di Urumqi, avvenuto a maggio, ma ancora più comuni sono gli innumerevoli episodi della resistenza quotidiana e le agitazioni rivolte contro gli obiettivi sensibili della repressione statale. Molte manifestazioni pubbliche sono iniziate con piccoli gruppi di Uiguri che protestavano pacificamente verso l’abuso religioso o culturale o mostrando la loro solidarietà verso un amico o parente detenuto. Quest’ultimo è stato il caso a cui è seguita la morte sospetta del 17enne Abdulbasit Ablimit, quando 17 manifestanti uiguri sono stati condannati da 6 mesi fino a 7 anni di detenzione.

I manifestanti pacifici sono attaccati o arrestati dalle forze di sicurezza; tra questi a volte prevalgono i più radicali, che assaltano le sedi della polizia o del Governo armati di coltelli e ascie. A queste azioni le forze di sicurezza rispodono aprendo il fuoco. Queste azioni violente hanno fatto etichettare questi manifestanti separatisti e terroristi. Tutto ciò tende a generare una resistenza ancora maggiore alla violenza della polizia. Una situazione simile ha innescato, in giugno, i gravi disordini di Yarkand che, secondo un resoconto, hanno portato alla morte di circa 2.000 uiguri, anche se il dato non è stato confermato.

Durante tali scontri sono rimasti uccisi membri della polizia, ufficiali sia governativi che civili, e senza dubbio le espolosioni di violenza vengono alimentate dal fondamentalismo religioso, ma la coerenza delle descrizioni sulle cause di questi episodi date dal Governo centrale e la categorica repressione del dissenso degli Uiguri mettono alla prova la validità di tali narrazioni e non si focalizzano sul nocciolo dell’instabilità.

La resistenza sempre più violenta, l’ininterrotto e forse intensificato giro di vite verso i difensori dei diritti degli Uiguri, la tolleranza zero per il dissenso di questo popolo, pongono due quesiti incalzanti.

Primo, perchè non abbiamo più visto una resistenza pacifica da parte degli Uiguri? Se da un lato esperti della comunità come Gardner Bovingdon, James Millward e altri hanno documentato la resistenza non violenta, questa è meno frequente di quanto ci si possa aspettare, considerata la lunga serie di abusi e lamentele generalmente riconosciuti dalle organizzazioni internazionali.

Il silenzio dei difensori dei diritti degli Uiguri di alto profilo, fautori della resistenza non violenta, ha probabilmente ceduto parte dell’ambito strategico e intellettuale alle forze più radicali. Raramente lo Stato cinese fa una distinzione tra la dissidenza uigura pacifica e quella violenta, trattando virtualmente tutte le espressioni di malcontento come connesse all’ideologia separatista fomentata da “forze straniere”, indicendo campagne che colpiscono con la stessa durezza i dissidenti violenti e non.

Secondo, qual è la causa principale dell’ascesa delle manifestazioni violente nel Xinjiang, e quale impatto ha su questo la tollerenza del regime alla resistenza non violenta? Charles Tilly, sociologo, aveva scritto su Regimes and Repertoires che un Governo che limita la tolleranza verso la resistenza civile pacifica, come queste manifestazioni, petizioni o lettere aperte, può aumentare significativamente la probabilità di resistenza violenta e incoraggiare ulteriormente la repressione violenta dello Stato — cioè il ciclo della violenza.

Immagini dallo Xinjiang: tutte le foto che seguono sono di Roberto Galati, su sua concessione.


Atti di dissidenza, atti di terrorismo

Bovingdon spiega su The Uyghurs: Strangers in Their Own Land, che la severa repressione degli Uiguri ha coinvolto sia un’azione collettiva pacifica che la resistenza quotidiana, spesso rafforzando le distinzioni tra Cina uigura e quella Han e il suo ordine politico.

La resistenza civile non violenta ha molto più successo nel raggiungimento di un cambiamento politico rispetto alle insurrezioni violente, spiegano Erica Chenonweth e Maria Stephan su Why Civil Resistance Works, soprattutto grazie alla partecipazione di massa. I movimenti non violenti pongono minori barriere alla partecipazione, al contrario di quelli violenti. La repressione dello Stato, in quanto tale, punta ad alzare i costi della partecipazione; oltretutto limita la resistenza o radicalizza le tattiche contro la violenza. Così i partecipanti del movimento sentono di non avere più l’opzione della dissidenza pacifica e soprattutto che non hanno niente da perdere.

La retorica del Governo cinese continua a negare le accuse di una disuguaglianza strutturale e le rimostranze uigure. Ironicamente, come nota Millwalrd, mentre “la Repubblica Popolare Cinese afferma che il problema del terrorismo uiguro abbia origini estere, la maggior parte del suo sforzo per combattere questo terrorismo è diretto a livello nazionale, verso l’espressione culturale uigura, cosa che peggiora il problema relativo ai loro diritti civili.

Sostenendo che la disuguaglianza non esiste, delegittimando le rivendicazioni uigure e circoscrivendo i canali pacifici in cui esprimere le loro lamentele, la politica del PCC nel Xinjiang continua a generare malcontento. Questo poi viene etichettato come il risultato dell’influenza delle forze straniere, perchè il Governo si rifiuta di riconoscere la possibilità di rimostranze domestiche legittime.

Virtualmente, la partecipazione uigura alla resistenza pacifica può essere considerata in toto come un incitamento al separatismo e affrontata con una grave repressione, perfino nel caso di coloro che partecipano indirettamente attraverso le borse di studio [offerte all’estero, N.d.T].

Le campagne di resistenza iniziano con una liberazione delle coscienze, promosse da studiosi dissidenti e da figure ispiratrici di controcultura.  Anche questi vengono tuttavia zittiti e spesso spariscono, influenzando indubbiamente le azioni di resistenza.


Mettere a tacere gli Uiguri

Nel 1989, il poeta e storico uiguro Turghun Almas pubblicò un resoconto storico di 6.000 anni. La sua conoscenza aveva ben posizionato e rafforzato una narrativa che contraddiceva la storia cinese ufficiale, costruita ad hoc per rafforzare le affermazioni di Pechino riguardante la sua antica dominazione sul territorio e per legittimare la retorica comunista sull’emancipazione delle minoranze schiavizzate. Il libro è stato inserito nella lista nera e Almas è stato messo ai domiciliari fino alla sua morte nel 2001. A marzo del 2002, le autorità hanno bruciato innumerevoli copie del suo libro insieme a centinaia di altri libri, durante dei raid alle bancarelle che li vendevano nello Xinjiang.

Due anni dopo, nel 2004, Nurmuhemmet Yasin venne arrestato, colpevole di incitare al separatismo e condannato a 10 anni di prigione. Nel 2013 – un anno prima era stata programmata la sua liberazione – le autorita annunciarono che era morto in prigione nel 2011. Il suo crimine è stato quello di aver scritto un racconto breve dal titolo Wild Pigeon, allegoria della condizione di cattività in cui si trovano gli Uiguri e degli abusi della dominante etnia cinese Han, un atto di resistenza simbolica. Il direttore della rivista che aveva pubblicato la storia è stato condannato a 3 anni di reclusione.

Abduweli Ayuph ha studiato in Turchia e completato il suo master in linguistica nel 2011, presso l’Università del Kansas, grazie alla borsa della Fondazione Ford. In seguito al suo ritorno in Xinjiang, ha organizzato campagne per i diritti culturali e linguistici degli Uiguri. Aveva il sogno di istituire asili in lingua uigura, un modo per resistere alle crescenti politiche di assimilaggio linguistico. Ha documentato i suoi contatti con ufficiali bilingui “per far sapere alla persone in che modo la Cina stava trattando lo status della lingua uigura“, disse Mamatjan Juma di Radio Free Asia. Ad agosto 2013, Ayup è stato detenuto e poi arrestato con false accuse di “raccolta fondi illegale”, per aver venduto miele e magliette e guadagnare soldi per i suoi centri di lingua.

Ilham Tohti, col quale abbiamo iniziato, è stato accusato di separatismo la prima volta nel giugno 2014, solo dopo vari mesi di detenzione e segregazione. Anche se era stato incarcerato inizialmente il 25 gennaio 2014, e nonostante gli sforzi dei suoi avvocati, non gli è stata concessa alcuna visita legale fino a giugno, e poco dopo l’incontro con uno dei suoi avvocati, Wang Yu, lo stesso fu costretto a lasciare il caso dopo che il suo studio legale aveva ricevuto intimidazioni dal Governo.

Quando ho incontrato Tohti nel 2011, era stato chiaro nella sua discussione sugli abusi ai diritti degli Uigur, e fu incrollabile nel suo impegno per la resistenza non violenta, l’unica strategia per promuovere e proteggere i diritti di questo popolo. Parlando brevemente, dopo l’annuncio delle accuse a giugno, Nicholas Bequelin di Human Rights Watch ha riferito al New York Times che accusare Tohti di separatismo “significava che la Cina stava bruciando tutti i ponti con le voci moderate.” Allo stesso modo, William Nee di Amnesty International ha osservato: “con la violenza in aumento nella Regione Autonoma Uigura dello Xinjiang, è difficile comprendere perchè le autorità si concentrino su un prominente intellettuale uiguro, noto per il suo impegno verso la non violenza e il dialogo tra i gruppi etnici.


Fermare il ciclo della violenza

Il Governo cinese potrebbe fare due cose per affrontare le richieste degli Uiguri e spegnere la resistenza violenta. Potrebbe mettere fine immediatamente alla sua repressione categorica verso tutte le forme della resistenza, cioè non trattando più allo stesso modo i violenti e non, e ciò porterebbe subito alla liberazione di individui come Tohti e Ayup, che sono chiaramente prigionieri di coscienza.

Detenere e far sparire figure ispiratrici che sostengono la lotta pacifica e che agiscono da mediatori nella difesa dei diritti invia solamente un segnale a tutti quelli che vorrebbero resistere che nessuna forma di dissidenza sarà accettata. Il rifiuto dello Stato di riconoscere perfino la legittimità delle proteste in corso o di fare aggiustamenti strutturali, così come le sue politiche di abuso e di tolleranza zero al dissenso, non incoraggeranno la sottomissione alla legge di Pechino. Radicalizzeranno verosimilmente tattiche di resistenza ancora più gravi, rendendo impossibile un percorso pacifico e la presenza di voci moderate che offrano una liberazione delle coscienze.

L’escalation di repressione a tutte le forme di pretese avanzate dagli Uiguri potrebbe rivelare un sentimento profondo di insicurezza del potere e della validità delle rimostranze anti-uigure. Gene Sharp ha osservato che “la repressione è il riconoscimento da parte degli avversari della serietà delle sfide poste da chi fa parte di questa resistenza. In questo senso si potrebbe interpretare la brutalità della repressione data come unica risposta dello Stato alle richieste degli Uiguri. Così, lo Stato rimane attivamente impegnato a smorzare la partecipazione alla resistenza non violenta e a delegittimare le proteste degli Uiguri, alimentando in questo modo l’escalation di violenza.

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