[Traduzione a cura di Gaia Resta dell’articolo originale di James Rodgers pubblicato su The Conversation]
La guerra mediatica che ha accompagnato l’invasione russa dell’Ucraina ha provato l’importanza del ruolo rivestito dal giornalismo nei conflitti del 21esimo secolo, e ha anche dimostrato come i regimi autoritari abbiano il potere di limitare la copertura delle notizie, persino nell’era degli smartphone e dei social media.
Con una mossa che ricorda la leggi draconiane di altri tempi sulla censura, il Governo russo ha avviato la sua guerra mediatica pochi giorni dopo l’invasione. La nuova legislazione prevedeva che i giornalisti rischiassero il carcere in caso rifiutassero di seguire diligentemente la linea ufficiale seconda la quale la guerra doveva essere definita una “operazione militare speciale”.
Come dichiarato in quell’occasione dal direttore generale della BBC, Tim Davie, la legislazione “sembra criminalizzare il metodo del giornalismo indipendente”. La BBC ha quindi sospeso temporaneamente la corrispondenza dalla Russia, presumibilmente per valutare nel frattempo la reale entità del rischio corso dai suoi reporter.
Alla fine hanno ripreso a lavorare, con Steve Rosenberg e i suoi colleghi che hanno raccontato al pubblico internazionale storie come quella di Denis Skopin, professore universitario a San Pietroburgo licenziato per aver protestato contro la guerra. Per The Guardian, Andrew Roth ha curato dei reportage sull’attivismo contro le ostilità, tra cui la silenziosa ribellione di coloro che piangono le vittime ucraine della macchina bellica del Cremlino.
Molti altri corrispondenti, però, sono partiti – spesso quando i loro editori ritenevano che non fosse più sicuro per loro rimanere – e non vi sono ancora tornati.
L’eco del bando bolscevico degli anni ’20
Quello che di fatto è un divieto verso il giornalismo indipendente, potrebbe essere considerato un complimento: una prova della capacità dei giornalisti di mettere in dubbio la giustificazione del Cremlino per la guerra.
Tutto ciò, unito all’inaccessibilità di numerosi siti internazionali di notizie e piattaforme social dall’inizio del conflitto, ha fatto sì che le corrispondenze affidabili dalla Russia siano soggette a più restrizioni adesso rispetto al periodo precedente all’era di riforme e apertura che caratterizzò la fine dell’epoca sovietica.
In effetti, la situazione attuale è simile a quella di un secolo fa, quando il neonato Governo bolscevico espulse i corrispondenti internazionali dalla Russia perché i loro Governi e giornali avevano sostenuto la parte “sbagliata” nella guerra civile (i controrivoluzionari Bianchi). Allora, come oggi per alcuni giornalisti, gli eventi in Russia venivano riportati da Riga, nella confinante Lettonia.
Minacciando punizioni e carcere, l’approccio della Russia alla guerra mediatica è stato brutale e, per certi versi come spiegato in seguito, efficace.
Zelensky: un performer consumato
Per altri versi, molto meno. Il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, ha dimostrato un grande talento (presumibilmente derivato dai suoi trascorsi di attore) nell’utilizzo dei media e dei format moderni (il suo video sulla “Giornata della Vittoria” in cui traccia delle similitudini, indirizzate al pubblico russo, tra la Seconda guerra mondiale inflitta dai Nazisti e l’invasione del suo Paese, ne è un ottimo esempio).
Le apparizioni sui media di Zelensky, così coinvolgenti e sicure, contrastono con i video di Putin che hanno indotto i tabloid britannici a speculare sulla sua salute e sulla possibilità che impiegasse degli attori per alcune delle sue apparizioni televisive.
Come la Russia usa l’esercito e i media in tempo di guerra
Se per l’opinione pubblica occidentale l’Ucraina sta vincendo la guerra, la Russia sta invece consolidando con successo il consenso del Paese.
Si tratta di un processo iniziato molto tempo fa. Sono stato in Russia nel 2019, per il quinto anniversario dell’annessione della Crimea, e rimasi colpito dalla prevalenza di un immaginario e di un sentimento legato al militarismo; non soltanto nella stampa ma anche nei murales per le strade di Mosca e delle altre città che ho visitato.
La combinazione di media e militarismo è stata parte integrante e indispensabile dell’uso fatto dalla Russia della guerra nelle relazioni internazionali dell’era putiniana. Un argomento, questo, già discusso insieme al mio co-autore, il dottor Alexander Lanoszka, nel nostro paper del 2021: “Russia’s rising military and communication power: From Chechnya to Crimea” [“Il crescente potere militare e comunicativo della Russia: dalla Cecenia alla Crimea“, NdT].
Il maggior successo del Cremlino risiede nell’aver applicato limitazioni del 20esimo secolo ai media del 21esimo. Certo, le restrizioni possono essere eluse. La società russa è altamente alfabetizzata a livello tecnologico (pensiamo a quante operazioni di hackeraggio sono attribuite ai russi) e chi volesse leggere notizie dai media occidentali può farlo con un piccolo sforzo.
Ma molti non sembrano interessati a provare. Come scoperto da Rosenberg in un reportage per la BBC da Belgorod, non lontano dal confine russo con l’Ucraina, del 10 febbraio, le comunicazioni ufficiali vengono ampiamente prese per buone. “L’Occidente ha sempre voluto distruggere la Russia” ha detto un residente.
Questo è il livello raggiunto dalla guerra mediatica a 12 mesi dall’invasione su larga scala da parte della Russia (gli ucraini giustamente fanno notare che la guerra in sé è iniziata realmente nel 2014). Non essendosi verificata la vittoria lampo che il Cremlino aveva immaginato, la guerra è stata adesso riformulata – non soltanto sulla base delle versioni approvate da Putin, ma anche dell’invio di armi dall’Occidente all’Ucraina – come un conflitto tra la Russia e i Paesi occidentali.
Il futuro della guerra mediatica
L’Ucraina dovrà mantenere alta l’attenzione delle agenzie di stampa internazionali. Il discorso di Zelensky l’8 febbraio a Londra – che sembra essere stato di grande ispirazione per i parlamentari britannici che l’hanno ascoltato – doveva essere necessariamente trasmesso in televisione e sui social media per ottenere l’impatto desiderato, e perché la consegna dell’elmetto di un aviatore ucraino producesse l’effetto voluto.
C’è una politica occidentale che dovrebbe essere modificata nella prossima fase della guerra mediatica, anche se ho ben poche speranze. L’Unione Europea e il Regno Unito hanno sbagliato a bloccare Sputnik e Russia Today: questi organi di stampa hanno ampliato come mai in passato la loro portata e la loro influenza, e sono riusciti a indossare la maschera (per quanto sembri assurdo) dei martiri della libertà d’espressione.
Il pubblico occidentale deve poter sapere ciò che viene detto al pubblico russo. In una guerra mediatica, come in qualsiasi altra guerra, più conosci il nemico e meglio è.
Come riferitomi da Vladislav Zubok, docente di Storia Internazionale presso la London School of Economics:
Anche nei momenti peggiori della guerra fredda i giornalisti parlavano tra di loro e facevano da intermediari. Si incontravano. Dialogavano. Ora non più.
Questo dovrebbe cambiare. Un giorno questa guerra finirà e USA, UK, UE e gli altri dovranno forgiare un nuovo rapporto con la Russia. Difficilmente si tratterà di amicizia, ma anche un rapporto che accetti la distanza, le divisioni e il disaccordo può essere meglio gestito dal tipo di dialogo del quale il giornalismo può essere il punto di partenza.
Tale livello di comprensione reciproca non deve diventare un’altra vittima di questa guerra mediatica. Lasciamo che i giornalisti facciano il loro lavoro.
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