Il fenomeno del medical brain drain dal Continente che per le Nazioni Unite soffre “il più grande carico di malattie del pianeta (per popolazione)“, non accenna ad arrestarsi. In Africa resta appena il 3% del personale sanitario a livello globale, e il diritto alla salute sembra sempre più un privilegio per pochi.
Mentre l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) conta un fabbisogno di 13,4 operatori ogni mille abitanti perché si possano raggiungere i livelli minimi di copertura sanitaria universale (UHC) nell’Africa in cui sono ancora 615 milioni le persone escluse dalle cure essenziali, l’ultimo studio sullo stato delle cose denuncia una media di 2,9 professionisti ospedalieri (infermieri e operatori di comunità per lo più) per mille pazienti. Meno di uno deve rispondere alle esigenze terapeutiche di mille persone in 11 Paesi, e la carenza è tanto critica da far scendere quel valore sotto lo 0,5 in Madagascar, Benin, Repubblica Centrafricana, Ciad e Niger.
L’emergenza cresce se si fa riferimento alle sole figure specializzate. Stando ai più recenti dati raccolti dall’OMS, al 2020 gran parte dei Paesi dell’Africa occidentale contavano un medico, o meno, ogni 10 mila persone, 22 in meno rispetto alla soglia raccomandata. In Zambia, il rapporto è addirittura di uno a 12 mila. E restano solo 12 neurochirurghi nell’Uganda da 44 milioni di abitanti da quando il Covid-19 ha ucciso il dottor Jonh Baptist Mukasa, per fare un esempio.
Da due decenni ormai, medici e infermieri fuggono dall’Africa per prestare servizio nei Paesi ad alto reddito, dove possono godere di ambienti e condizioni di lavoro nettamente più favorevoli a quelle offerte dai Paesi d’origine. La pandemia da Covid-19 sembra ora aver accelerato, al costo di milioni di vite, il processo di emigrazione sanitaria che investe in special modo la Regione sub-sahariana, la stessa che registra, tra gli altri, il primato mondiale per mortalità infantile e materna.
L’analisi dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) in merito al contributo del personale migrante nella crisi da Covid-19 in Europa rivela che 6 Stati dell’Africa sub-sahariana (Liberia, Zimbabwe, Gambia, Malawi, Sierra Leone e Capo Verde) figurano tra i 10 Paesi da cui emigra oltre il 50% degli operatori sanitari.
Se si pensa che – così riporta la Brooking Institution – all’Africa è destinato meno dell’1% del finanziamento globale per la salute, ecco spiegata la ragione della crisi. Spendere per la sanità africana 10 volte meno rispetto al resto del mondo significa consegnare ai professionisti della cura infrastrutture fatiscenti, attrezzature scarse e obsolete, un carico di lavoro pro capite insostenibile e un enorme divario salariale rispetto ai colleghi egualmente qualificati attivi oltre confine.
Un chirurgo a New York guadagna una media di 400 mila dollari l’anno, in Zambia ne porta a casa poco più che 12 mila, cifra che va ulteriormente dimezzata se si intende parlare dello stipendio di un dottore in Kenya.
“Si studia così duramente per diventare un medico. Io, come molti dottori, non posso permettermi una casa in cui vivere. Non dovrebbe essere così. Noi salviamo vite”, ha dichiarato al DW il dottor Lumumba Otegbeye a proposito dell’emorragia di medici e infermieri che sta svuotando le corsie degli ospedali della Nigeria.
Nello Zimbabwe si opera a mani nude, per 200 dollari al mese. I pazienti hanno liste sulle cose da procurarsi prima di arrivare in ospedale: farmaci, bende, aghi, gas anestetico. Manca tutto. I medici comprano di tasca propria ciò che è necessario quando per qualcuno quella spesa è troppo da sostenere.
“Quello che stavamo facendo non era curare i pazienti. [..] Quella non è medicina”, ripeteva ad Associated Press il dottor Wallace Hlambelo in occasione di uno sciopero, come gli altri, finito nel vuoto. Era il 2019, e da allora è triplicato il numero di operatori sanitari che hanno deciso di lasciare il Paese.
Non solo le ragioni economiche e quelle delle condizioni di servizio. Anche le questioni di sicurezza agiscono da potenti fattori di spinta da molti Paesi dagli equilibri sociali già fragili.
Come accade in Sudan, terreno di una lunga serie di sanguinose guerre civili che si giocano persino su quelli che il dottor Al-Mandhari, direttore regionale dell’OMS per il Mediterraneo orientale, ha recentemente definito “attacchi mirati contro operatori sanitari, pazienti e strutture” che “sono una flagrante violazione del diritto umanitario internazionale”. O anche nella Repubblica Democratica del Congo, flagellata da conflitti che durano ormai da quasi trent’anni e dove sono stati denunciati 599 episodi di violenza o minaccia di violenza contro medici e infermieri tra il 2016 e lo scorso gennaio.
Per quanto un’istantanea della migrazione di competenze mediche dall’Africa sia complessa e difficile da delineare con precisione, si stima che un quinto dei medici di origine africana lavori in Paesi ad alto reddito e alto rapporto medico-paziente, Regno Unito, Stati Uniti, e Canada in testa.
Una ricerca della Camera dei Comuni rileva che nel 2021 aveva origini e formazione straniera il 38% degli operatori sanitari registrati nel Regno Unito. Al quinto posto tra i Paesi di invio di lavoratori c’è la Nigeria, lo stesso Paese che, secondo l’OMS, conta meno di 75 mila medici ancora sul territorio a fronte di una popolazione da 211 milioni di abitanti.
Sono numeri che raccontano di quanto le raccomandazioni dettate dal Codice di condotta globale sul reclutamento internazionale del personale sanitario si stiano dimostrando poco più che un fallimentare tentativo di argine alla “caccia” di medici e infermieri a scapito dei Paesi che sopportano le più gravi carenze di forza lavoro per la salute.
Le economie sviluppate continuano infatti a giocare sul loro potere attrattivo per ingaggiare professionalità formate a spese del Continente che ospita la grande maggioranza dei Paesi che la Banca Mondiale classifica come a basso-reddito. E ignorano sfacciatamente l’impatto negativo a lungo termine che la perdita di ogni singolo medico esperto produce sull’intera comunità di appartenenza. Perdita che, in una sorta di circolo vizioso, è tanto sanitaria quanto finanziaria e quindi socio-economica.
Si calcola che, a fronte di un notevole risparmio per i Paesi di reclutamento, l’Africa stia perdendo circa 2 miliardi di dollari l’anno a causa della fuga dei cervelli per la cui formazione ha speso mediamente tra i 25 e 59 mila dollari cadauno. È evidente quanto questo contribuisca a danneggiare il già precario sistema della sanità africana, e dunque, a cascata, ad ingrossare le fila di medici e infermieri pronti a cercare “pascoli più verdi”. Da lì, è breve il passo per gli scenari più critici per il diritto alla salute della popolazione.
La sfida ai principi di equità nell’interdipendenza tra i sistemi sanitari è emersa con forza nel pieno dell’emergenza Covid-19. Solo negli ultimi due anni, 9mila sono i medici partiti dalla Nigeria in direzione soprattutto del Regno Unito che non solo, come gli altri, ha allentato i requisiti di visto per gli operatori sanitari, ma ha addirittura promosso incentivi aggiuntivi a favorire i trasferimenti a lungo termine. A migliaia hanno già pronte le valigie, e l’allarme cresce in tutto il Continente, dall’Algeria al Sudafrica.
“Senza le giuste politiche in atto, affrontare la fuga dei cervelli dall’Africa diventerà uno sforzo ancora più impegnativo, che porterà inevitabilmente a un aumento della disuguaglianza globale e all’abbandono di sistemi sanitari già inadeguati“, si legge nel rapporto dell’Unione Africana sulla migrazione degli operatori sanitari africani nel periodo post Covid-19.
Se la situazione è già altamente critica, si teme che entro il 2030 l’Africa soffrirà un deficit di oltre 6 milioni di operatori sanitari. Le drammatiche dimensioni delle ricadute sociali di un tale esodo sono facilmente immaginabili e non potranno limitarsi senza aprire a nuove, complesse, considerazioni e azioni politiche.