[La notizia è in costante dinamica: l’amministrazione Biden, nelle settimane che seguono la pubblicazione dell’articolo, continua a lavorare per smantellare l’eredità politica di Trump rispetto all’immigrazione]
Joe Biden si è fermato in Texas. O meglio, il suo staff. Precisamente a El Paso, nel bel mezzo della linea che per 3000 chilometri separa gli Stati Uniti dal Messico. Qui, nelle scorse settimane una delegazione di funzionari ha visitato i centri dove i migranti minorenni non accompagnati vengono detenuti temporaneamente, dopo aver attraversato il confine.
Nel 2021 le strutture hanno visto impennare il numero di bambini che varcano la frontiera da soli: i centri di accoglienza sono sovraffollati – fino al 363% nella Valle del Rio Grande. Questo significa ragazzini affamati, che dormono per terra, possono farsi la doccia una volta alla settimana e soltanto in quel momento vedere il sole dalla finestra, riferiscono i legali dei minori in custodia.
Un contesto americano a metà tra la sfida e la crisi, a seconda del colore politico che lo racconta, ci mostra che la gestione migratoria funziona – per meglio dire, è disfunzionale – più o meno allo stesso modo a qualsiasi longitudine.
Di fronte ai numeri più alti dell’ultimo decennio (78.000 persone fermate dagli agenti USA a gennaio, un dato in continua crescita), Biden può fare di più e se sì, come? Com’è percepita la situazione attuale da chi lavora sul campo?
Il presidente ha detto che andrà a Sud, “a un certo punto“. Certamente ha ereditato il caos, frutto di deterrenti disumani quanto inutili, non dissimili da quelli europei. Nonostante le barriere (naturali, o create dalle varie amministrazioni statunitensi) e gli strumenti di sorveglianza mirati a ridurre l’attraversamento di persone da una parte all’altra del muro, “non è cambiato niente” , ammette lo stesso Biden:
Qualcuno suggerisce che c’è stato un aumento del 31% sotto Trump [dei passaggi di migranti nel primo trimestre 2019, ndr] perchè era un bravo ragazzo e stava facendo cose buone al confine? Non è questa la ragione per cui stanno arrivando. […] è il momento in cui possono viaggiare con la minor probabilità di morire lungo la strada a causa del caldo nel deserto, numero uno. Numero due, stanno venendo a causa delle circostanze nel loro Paese.
La povertà cronica del Centro America, aggravata dalle recenti catastrofi naturali, è uno dei motori che porta i migranti a scontrarsi con un miscuglio di vecchie politiche di Trump, la parziale inversione di rotta di Biden e la risposta del Messico, unica via possibile per migliaia di persone in viaggio verso una vita migliore.
Alla chiusura della frontiera col Guatemala e lo schieramento della Guardia nazionale messicana per frenare l’avanzata delle carovane migranti, sono corrisposti 2,5 milioni di dosi di vaccino AstraZeneca opportunamente avanzati agli USA, che Washington invierà in Messico.
A questo si aggiungono due nuovi fattori: il respingimento anche a 1200 chilometri da dove i migranti vengono intercettati, una tattica che disorienta i deportati e li priva dei loro contatti. E il Covid-19, sia come causa della perdita di posti di lavoro che ha gettato tante persone in povertà, spingendole a spostarsi; sia come argomento per espellere chiunque rappresenti un rischio per la salute pubblica (400-500 persone al giorno), attraverso il cosiddetto titolo 42. Trump ha messo in atto questa norma all’inizio della pandemia, e Biden deve ancora revocarla.
L’attuale amministrazione applica il titolo 42 ad adulti e anche famiglie, ma non ai minorenni senza accompagnatori. In un tentativo disperato di mettere in salvo i propri figli, alcuni genitori preferiscono separarsene e mandarli oltre il confine da soli.
L’organizzazione Al Otro Lado ha raccolto la testimonianza di una donna proveniente dall’Honduras, che negli scorsi mesi ha fatto questa scelta. La madre non sa quando potrà rivedere le sue bambine: “A volte penso di buttarmi [nel fiume] a morire, perchè più a lungo sto qui, più mi sento di non voler vivere.”
Ci sono anche una famiglia haitiana, espulsa due volte, a cui gli agenti statunitensi non hanno lasciato usare il telefono; donne deportate insieme ai loro neonati partoriti su suolo americano (quindi formalmente cittadini USA), appena dopo un cesareo; o un quindicenne del Guatemala e sua madre, rapiti in Messico dopo essere stato respinti a febbraio. “È ora che […] Biden ponga fine a questo crudele ordine dell’epoca di Trump e accolga con dignità le persone che fuggono da violenze e persecuzioni“, insistono i militanti di Al Otro Lado.
Durante i primi 100 giorni del suo mandato, il neo-eletto capo di Stato USA ha fatto passi avanti – quantomeno simbolici – su più temi menzionati in campagna elettorale. In materia di immigrazione, il democratico aveva promesso di disfare provvedimenti emanati da Trump, come l’ordine esecutivo che vietava l’ingresso ai viaggiatori da Paesi musulmani; era stato più vago sulle nuove migliorie da apportare al sistema nel complesso.
I funzionari di Biden “hanno fornito pochi dettagli” su come intendono fare per risolvere i problemi “che hanno tormentato i loro predecessori“, lamenta Politico: “Chiedete a un progressista […] e la maggior parte insisterà sul fatto che deve muoversi più velocemente. […] Chiedete a un repubblicano,” e vi dirà che “sta sbagliando tutto“.
Pochi giorni fa, il giornalista John Oliver ha spiegato come mai gli Stati Uniti stanno reinsediando meno rifugiati sotto Biden che durante il Governo Trump. Sono seguiti comunicati di associazioni come International Refugee Assistance Project (IRAP), che invitano la società civile a sollecitare il presidente perchè aumenti tempestivamente il numero di ammissioni nel Paese e provveda ai trasferimenti.
Venerdì scorso, dopo aver procrastinato ed eluso la domanda in conferenza stampa per settimane, Joe Biden ha annunciato il mantenimento dell’attuale quota sui rifugiati – fissata da Trump ai minimi storici. IRAP ha definito la faccenda “molto deludente“, perchè “non c’è una vera scusa per proporre un aumento da 15.000 a 62.000, consultarsi con il Congresso e poi tornare indietro e dire: in realtà, continueremo con il tetto di rifugiati più basso di sempre“.
Sono bastate poche ore: di fronte alle critiche di democratici e attivisti, la Casa Bianca ha fatto marcia indietro e ribadito l’impegno a reinsediare migliaia di persone in più – a partire dal mese prossimo. Anche l’assistenza umanitaria che il nuovo capo di Stato intende ripristinare, in Paesi come il Venezuela (ai cui cittadini senza documenti negli USA è stato garantito uno status legale temporaneo) o la Palestina, rimane per ora limitata a piani d’azione che devono concretizzarsi.
Per Padre Calvillo, direttore della Casa del Migrante a Ciudad Juárez (una delle associazioni chiave della città messicana a poche miglia da El Paso), Trump e l’attuale presidente si sono rivelati uguali, anche se hanno agito con metodi diversi: “il primo ha battuto i pugni sul tavolo […] per raggiungere il suo scopo, e il secondo ha usato la diplomazia e i vaccini per raggiungere lo stesso fine: che non arrivino più migranti.”
Con l’arrivo di Andrés Manuel López Obrador alla presidenza in Messico, “è stata proposta una politica umanitaria che ha aumentato l’ingresso delle carovane di migranti a metà 2019“, secondo la ricercatrice a capo del progetto Redes Migrantes Sin Fronteras della Texas A&M University, Rubria Rocha de Luna.
“Di fronte a tale situazione, gli Stati Uniti hanno minacciato di imporre tariffe sul commercio messicano, il che ha segnato significativamente il modo in cui la migrazione è stata poi affrontata. Da quell’anno, il Messico […] serve, in pratica, come Paese terzo sicuro, anche se senza successo poiché non ci sono le condizioni per garantire l’accesso ai servizi sanitari, al lavoro e all’istruzione per i migranti” – un braccio di ferro che ricorda il patto UE-Turchia, e che Biden non ha provveduto a correggere se non in minima parte.
Redes è un’iniziativa digitale sviluppata da un’équipe in cui tutti i membri hanno vissuto la migrazione a livello personale, una guida che può essere consultata dai migranti per avere informazioni su associazioni e rifugi, sia in Messico che negli USA. A causa dell’aumento delle deportazioni negli scorsi anni, del crescente numero di carovane dal Centro America e dell’emergenza Covid, molte persone non riescono a trovare un posto dove passare la notte o hanno urgente bisogno di assistenza legale, riporta Rocha de Luna.
“Esperanza” è il nome dell’accampamento di migranti al punto di entrata di El Chaparral (Tijuana), sviluppatosi negli ultimi mesi. Proprio come accade alle porte d’Europa, anche in Messico la politica di esternalizzazione genera mostri di frontiera, che in questo caso vedono più di duemila persone vivere in condizioni estremamente precarie.
Nell’attesa – a tempo indeterminato – di riuscire a passare, la comunità si è organizzata: hanno cuochi, guardie di sicurezza e insegnanti per i bambini. Ma secondo l’ONG Border Angels, attiva sul posto, c’è bisogno di cibo, acqua potabile, coperte. La direttrice Dulce Garcia commenta: “si aggrappano alla speranza, per questo il campo si chiama così. Per alcuni di loro, letteralmente, questo è tutto ciò che hanno.”
Border Angels opera anche negli Stati Uniti, in un contesto speculare alle operazioni di soccorso nel Mar Mediterraneo: in America, il grande ostacolo naturale che i migranti devono sfidare per raggiungere la meta USA non è una distesa d’acqua, ma di sabbia. Spedizioni di escursionisti sostituiscono le operazioni di salvataggio dei marinai europei, su un terreno arido dove le temperature già sfiorano i 40 gradi a inizio aprile e l’acqua non è il pericolo, ma sinonimo di sopravvivenza.
David Yu Greenblat è un volontario del programma Water Drops, che distribuisce taniche di acqua potabile e altri beni di prima necessità in vari punti del deserto californiano, attraverso cui passano i migranti che riescono a scavalcare il muro.
“Dire che alcuni esseri umani sono “illegali”, quando tutta questa terra è stata rubata ai popoli indigeni, è offensivo” commenta Yu Greenblat, facendo riferimento ai Kumeyaay, una tribù di Nativi americani che per 10.000 anni hanno abitato nella zona oggi divisa tra Messico e USA.
“La maggior parte dei migranti che attraversano il cosiddetto confine [creato nel 1848 al termine di un conflitto tra i due Stati nordamericani, ndr] percorrono antichi sentieri Kumeyaay […], hanno essi stessi radici indigene“, ricorda il volontario.
“L’attuale politica federale statunitense di prevenzione della migrazione attraverso la deterrenza ambientale […] è iniziata durante l’amministrazione Clinton negli anni ’90” spiega.
“Le aree facili da attraversare sono bloccate da barriere fisiche, sorveglianza intensa e pattugliamento pesante da parte di agenti paramilitari dotati di armi da fuoco. I viaggiatori sono incanalati verso le regioni più remote e pericolose del deserto e delle montagne, e per una traversata che prima richiedeva ore adesso ci vogliono giorni. I tassi di mortalità sono aumentati vertiginosamente” da allora, ma invece di cambiare linea, i leader politici hanno alzato le recinzioni (una tattica già vista nella “Fortezza Europa”).
Iniziative di supporto alle persone in movimento nel deserto esistono anche in Arizona, come No More Deaths, ONG che ha partecipato al documentario Immigration Nation, denunciando l’interferenza delle pattuglie statali di guardia al confine nel lavoro umanitario e l’ostruzionismo nei confronti delle famiglie in cerca dei propri cari scomparsi.
Rispetto a Donald Trump, è facile pensare a Biden come a un lassista e attriburgli un “effetto chiamata”.
Gli annunci diffusi nei supermercati in Honduras in cui si chiede ai migranti di non venire non funzioneranno certo per gli USA, come non sono stati efficaci per l’Europa. La speranza non si ferma con le barriere fisiche, ma si scalfisce coi deterrenti psicologici – quelli che ancora esistono nella nuova amministrazione: tempi di permanenza eccessivi in centri senza servizi di base, omissione di informazioni e respingimenti in posti sconosciuti, separazione dai propri cari, diritti negati proprio dalla terra verso cui si tende per vederli finalmente rispettati.
Gli stessi rappresentanti dell’UE (che pure hanno le loro travi negli occhi a cui pensare) hanno sottolineato come il respingimento di migliaia di cittadini centroamericani nelle aree messicane di frontiera mentre aspettano l’esito delle proprie richieste di asilo “ha generato un peso strutturale“, oltre a mettere a rischio la sicurezza dei migranti, soggetti a ogni sorta di abuso. Viene da chiedersi come non riescano a unire i puntini con le politiche, di identico stampo, implementate alla periferia del proprio continente.
Non è giusto pensare a un capo di Stato come al male minore, anche se lo è. Non solo non è radicale, come certi repubblicani sostengono, cancellare l’eredità di Trump: sull’immigrazione, il presidente più influente del mondo deve fare molto di più che sostituire il termine “straniero” con “non cittadino” (una misura che, per ora, dimostra un cambiamento nei toni più che nella sostanza).
Senza prescindere dal considerare gli arretrati causati dalle misure del governo precedente, a Biden non bisogna chiedere semplicemente una tabula rasa, ma che modifichi il sistema. Alcuni indizi lasciano presagire che le intenzioni del presidente siano più ambiziose di quanto visto finora, come un rapporto sull’impatto della migrazione climatica – compreso uno studio sulle opzioni per la protezione e il reinsediamento degli sfollati a causa del clima – ordinato a febbraio.
Per le migliaia di persone in movimento, o bloccate al confine o nel limbo del programma di reinsediamento, c’è da sperare che i prossimi 100 giorni siano migliori di questi.
[Salvo dove diversamente indicato, le foto dell’articolo sono del volontario dell’ONG Border Angels David Yu Greenblat, scattate in California, USA e postate sul suo profilo Instagram @d_yu_g]