È il 1980 quando circa duemila persone accerchiano il Pentagono di Washington per protestare contro la corsa al nucleare.
A condurre la marcia è un gruppo di donne vestite di bianco, che cammina in silenzio erigendo pietre tombali, simbolo della logica necrofila adottata dai governi e presente nel sistema socio-economico; a seguire sono le donne vestite di rosso, che suonano tamburi e gridano in onore della collera e della disperazione. L’ultima fascia di donne è vestita di nero, accompagnata dal resto dei partecipanti alla manifestazione. Riunitesi, leggono la dichiarazione realizzata in collettività:
“Ci siamo riunite qui al Pentagono oggi perché abbiamo paura per le nostre vite. Paura per la vita di questo pianeta, della nostra Terra e della vita dei bambini che sono il futuro dell’umanità. (…) Siamo nelle mani di uomini che il potere e la ricchezza hanno distaccato non solo dalla realtà, ma anche dall’immaginazione. Abbiamo molta ragione ad avere paura.”
La marcia delle donne al Pentagono – conosciuta come la Women’s Pentagon Action – è ricordata come una delle azioni simbolo della lotta ecofemminista, movimento che trova origine in un periodo di mobilitazioni globali, portate avanti particolarmente da donne in difesa delle proprie comunità e dei luoghi naturali fonti di sussitenza e centro della vita per intere popolazioni e specie viventi.
Iniziano le donne indiane del movimento Chipko nel 1973, che abbracciano gli alberi proteggendoli dalla deforestazione voluta dalle grandi imprese agricole. In Kenya, invece, Wangari Maathai guida il progetto di riforestazione delle Terre, portato avanti dalle donne dal 1977.
Negli stessi anni si formano associazioni e proteste in contrasto alla sottrazione delle terre indigene, alla sterilizzazione forzata delle donne native, alla localizzazione di industrie pericolose particolarmente nel sud del mondo, contro le discariche di rifiuti tossici, contro il nucleare, e molto altro. Quello che si chiede è una revisione dei valori all’interno del sistema di produzione economica: che il mito del progresso e dello sviluppo senza limiti vengano messi in discussione, data la mortalità, la disuguaglianza e la violenza che ne caratterizzano le pratiche.
Così nasce l’ecofemminismo, un insieme di movimenti eterogenei e ramificati, accompagnati poi da un’analisi teorica altrettanto variopinta e multidisciplinare.
È Françoise D’Eaubonne – femminista francese – che nel 1974 utilizza per prima il termine eco-femminismo, con il quale tenta di concepire una pratica femminista che liberi le donne e nello stesso tempo l’intero pianeta dal sistema distruttivo vigente. Il termine vola oltreoceano e viene adottato soprattutto negli Stati Uniti (si veda la filosofa Mary Daly, per esempio) e in Sud America (dalla teologa brasiliana Ivone Gebara, tra le più importanti), e poi in Asia, tornando nuovamente in Europa tra i movimenti ambientalisti, femministi, pacifisti e anti-nucleare. Cresce contemporaneamente una coscienza spirituale femminista che – sulla base della verità legata al corpo della donna – apporta una riflessione nel contesto teologico, filosofico e del pensiero scientifico.
Non si tratta dunque “solamente” di rivendicazioni politiche e materiali, ma insieme alle contestazioni prende forma una volontà collettiva di interrogare le basi di pensiero che legittimano il sistema oppressivo e coloniale, incurante di chi e cosa sacrifica in nome del mercato.
Le teorie ecofemministe presuppongono una connessione tra lo sfruttamento della natura e la subordinazione della donna, chiarendo quelli che sono i nessi ideologici che caratterizzano ed uniscono ogni tipo di oppressione – di genere, di classe, di razza, di specie. L’idea nasce non solo dalla consapevolezza acquisita durante le mobilitazioni, ma anche dall’osservazione della vita quotidiana delle donne, esperte nel campo della cura e della sussistenza, particolarmente in determinati contesti sociali.
Si riconosce dunque, nella storia e nella cultura occidentale (in particolare), un pensiero comune che ha reso inferiore la natura e insieme le categorie umane e le caratteristiche ad essa accostate, “naturalizzate”, dominabili e aventi meno dignità di coscienza e partecipazione.
L’analisi più teorica e critica va di pari passo con l’intento di valorizzare ciò che è stato sminuito, sia per quanto riguarda rivendicazioni politiche e di diritto – dunque dando spazio alle voci emarginate dei popoli e delle categorie umane e naturali oppresse – sia nei confronti della concezione che abbiamo dell’umanità e della convivenza sulla Terra.
È alla natura dunque che si vuole ridonare coscienza attiva, dignità, rispetto di essere conservata nelle sue dinamiche; così come alla naturalità intrinseca all’essere umano, non distaccato dalla natura, ma bensì parte di essa, abitante di un unico corpo in cui tutto è interdipendente e sopravvive grazie all’alterità e alla relazione tra diversi.
L’ecofemminismo mette in moto una prassi oggi sempre più necessaria; fa luce sulla fragilità delle condizioni del pianeta e di chi subisce gli effetti di una produzione economica estenuante, senza scrupoli e senza rispetto degli equilibri naturali.
Sono le donne che prendono spazio e mettono in campo saperi storicamente svalutati o inutili per la produzione; sono i nativi che lottano per la sopravvivenza delle loro comunità; sono i giovani che chiedono un’azione politica seria in grado di affrontare il cambiamento climatico; sono le mamme preoccupate per la vita dei propri figli.
L’eterno accostamento tra la natura e il femminile, e tra la natura e le diverse categorie umane subordinate, viene ribaltato, permettendo che da una situazione di oppressione storica si passi alla partecipazione attiva nella creazione di alternative e di resistenze. Prassi guidate dall’affermazione radicale dell’interdipendenza che ci caratterizza, della bio-diversità necessaria alla vita di qualità, e della cura che dobbiamo imparare ad avere nei confronti della vita – in ogni sua forma.
Il movimento accoglie rivendicazioni che siamo abituati a vedere separate, con la consapevolezza che è un cambiamento dell’intero sistema che dobbiamo immaginare.
Oggi i movimenti di matrice ecofemminista presentano molteplici forme. Le resistenze e le contestazioni riguardano soprattutto i territori rurali e indigeni americani, asiatici, medio-orientali e africani.
Ricordiamo ad esempio, le donne Mapuche che difendono le terre in cui abitano dall’estrazione delle grandi multinazionali; il Movimento Dos Trabalhadores Sem Terra – in cui le donne svolgono un ruolo centrale nelle proteste e nell’organizzazione di comunità agroecologiche. Anche l’esperienza delle donne in Rojava viene citata tra le pratiche ecofemministe, dati i principi di liberazione femminile in corrispondenza a uno stile di vita ecologico e democratico sui quali si basa.
In Italia e in Europa, come in America Latina, esistono collettivi e movimenti ecofemministi, attivi localmente e internazionalmente; sono in aumento corsi universitari (soprattutto in Nord America), letteratura per adulti e libri per bambini che adottano un punto di vista ecofemminista.
Ciò che unisce i movimenti è una coscienza intersezionale e una volontà di proporre pratiche alternative, in grado cioè di rifiutare i rapporti di potere, di colonialismo e di violenza, immaginando condizioni “altre” di convivenza, di politiche, di economia. In grado di creare una contro-cultura, resistente e originale, eterogenea e aperta a sempre nuovi interrogativi, a nuovi orizzonti, ad altri modi di essere e cooperare.
D’altronde, la crisi ambientale e strutturale odierna ci impone di ri-pensarci e – come suggerisce Donna Haraway, ecofemminista statunitense – di restare a contatto con il problema, responsabilmente, evitando atteggiamenti catastrofici, ma consapevolizzando l’attualità delle condizioni che stiamo vivendo.