Voci Globali

Mozambico, dal sogno socialista alla corruzione e poi all’ISIS

Foto dell'utente Flickr Sergio Agostinelli - Licenza CC https://www.flickr.com/photos/sergio-agostinelli/6070199684/

Foto dell’utente Flickr Sergio Agostinelli – Licenza CC

[Seconda parte di un affascinante diario di viaggio attraverso le tappe fondamentali della storia mozambicana. Qui il link alla prima parte della corrispondenza.]

Nei primi anni ’80 lavoravo come direttrice del servizio infermieristico all’Ospedale Centrale di Maputo con circa 1.000 letti, il più grande e attrezzato del Paese. In quel periodo, erano arrivati decine di medici da molti Stati dell’Europa Occidentale, dal Cile di Pinochet e dai Paesi socialisti. Coloro che provenivano dall’area occidentale erano spinti da ideali progressisti. Firmavano contratti locali e guadagnavano quanto i colleghi mozambicani. Ci si intendeva con un’improbabile mistura di lingue, ma si collaborava con entusiasmo. Nacquero amicizie che continuano ancora oggi.

Non dimentico gli autobus di linea provenienti dalle province del Nord, reduci da imboscate realizzate dalla RENAMO sull’unica strada che percorre tutto il Paese. Erano crivellati dai colpi di arma da fuoco e anneriti dal fumo, strapieni di feriti, ustionati, cadaveri, bambini terrorizzati in stato di shock per aver assistito alla morte di parenti e compagni di viaggio. Tutti noi operatori sanitari davamo sangue a turno, spesso senza rispettare l’intervallo stabilito tra una donazione e l’altra, chiamavamo in aiuto i colleghi che non erano in servizio mediante una rete di telefoni fissi o andando a bussare alla loro porta.

Frequentemente rimanevamo senza corrente elettrica e l’acqua era distribuita per poche ore e non tutti i giorni. Con due bambini piccoli dovevamo fare scorte in bidoni. A volte, dovevamo andare a chiederne ad amici che vivevano fuori città e avevano un pozzo. Dai negozi era sparito tutto, vestiti, scarpe e anche prodotti alimentari.

Ben presto fu organizzato il tesseramento che garantiva un minimo vitale di zucchero, sale, riso, olio, fagioli e poco più. Per fortuna, mio marito lavorava in un progetto per la diffusione dell’allevamento dei conigli. Si specializzò a cucinare il coniglio in tutte le salse, perfino frullato nelle pappe dei figli. La nostra tavola era una delle più ambite da amici e conoscenti.

La guerra civile generò migliaia di rifugiati che abbandonarono le loro terre per raggiungere luoghi più sicuri. Le città – le cui baraccopoli già senza fognature, senza acqua canalizzata né energia elettrica – crebbero improvvisamente a dismisura. Si crearono campi di raccolta in cui popolazioni di diverse tribù, lingue e regioni si mescolavano. Le famiglie si separavano e si perdevano.

La struttura della società tradizionale venne così annientata con la perdita dei suoi riti e dei suoi valori. I contadini, ormai disoccupati, si trasformarono in un peso sociale insostenibile, perdendo ugualmente la loro dignità di lavoratori. Aumentava la povertà assoluta, la fame, la malnutrizione infantile e la guerra avanzava sempre di più.

Furono fatti dal Governo anche gravissimi errori, tra cui lo spostamento forzato delle popolazioni rurali disperse sul territorio in “aldeias comunais”, villaggi comunitari, che avrebbero dovuto offrire servizi quali: la scuola, il centro di salute, la cooperativa di consumo e il centro per la commercializzazione dei prodotti agricoli. Pochissimi funzionarono come previsto, creando così scontento tra i contadini che preferirono tornare alle loro terre, guerra permettendo.

Nel 1983 fu lanciata l'”Operazione Produzione“, volta alla diminuzione degli abitanti disoccupati che vivevano ai margini delle principali città attraverso il loro trasferimento forzato nelle campagne della provincia del Niassa, una delle più fertili del Mozambico e con una densità di popolazione di 2 abitanti per km2. L’intenzione poteva anche essere buona, ma l’operazione non fu organizzata e attuata adeguatamente. Per cui si rivelò una catastrofe, portando alla disperazione e alla morte di centinaia di persone. Questi fattori contribuirono a creare indignazione e malcontento, rafforzando le fila della RENAMO.

Il 19 ottobre 1986, l’aereo proveniente da Harare su cui viaggiava il presidente Samora Machel accompagnato da alcuni ministri e collaboratori precipitò in Sud Africa a poche centinaia di metri dal confine con il Mozambico, in circostanze ancora non completamente chiarite ma che suggeriscono tuttora un attentato.

Era evidente che finché lui fosse rimasto in vita sarebbe prevalsa una linea politica di tipo socialista, non più gradita a molti. Con altri infermieri ho dovuto ricomporre le salme di quell’incidente. La maggior parte erano amici e compagni con cui avevo condiviso la vita negli anni della Tanzania. Un grande dolore, incertezza per il futuro, una ferita profonda.

Negli ultimi anni ’80, mi sono trasferita con la famiglia a Chimoio – nella provincia centrale di Manica. In qualità di responsabile provinciale del programma di nutrizione dovevo organizzare il monitoraggio della malnutrizione infantile nei bambini da 0 a 5 anni.

A causa della guerra non si potevano percorrere le strade che portavano ai distretti, perciò ci spostavamo con un piccolo aereo da otto posti, che Medici senza Frontiere affittava in Zimbabwe. Oltre alla supervisione delle attività nelle unità sanitarie, facevamo sondaggi sullo stato nutrizionale dei bambini piccoli, pesandoli e misurandoli casa per casa, raggiungendo a piedi i villaggi più lontani. I risultati erano comunicati alla Commissione Provinciale per l’Emergenza – di cui ero membro – ed erano così stabilite le priorità per la distribuzione di aiuti alimentari. Sono stati gli anni più entusiasmanti della mia vita professionale.

Nel 1992, il nuovo presidente Joaquim Chissano e Samuel Dhlakama, leader della RENAMO, con l’intermediazione dell’Italia e della Comunità di S. Egidio a Roma firmarono l’accordo di pace. La Repubblica Popolare del Mozambico perse il “Popolare”, diventando uno Stato multipartitico.

Il Paese era distrutto, tagliato in due dall’impraticabilità dell’unica strada che metteva in comunicazione il Sud con il Centro e il Nord. Le unità sanitarie e le scuole delle zone rurali in rovina, migliaia di mine antiuomo sparse a casaccio e l’epidemia di HIV-AIDS galoppante.

Fu allora che il Mozambico venne inondato da aiuti di ogni genere: da ONG, da Agenzie di Cooperazione di molti Governi: Stati Uniti,  Canada, Brasile, Unione Europea, India, Giappone e soprattutto la Cina, con progetti e investimenti. Furono istituite di nuovo la medicina e le scuole private.

Grandi imprese straniere, multinazionali e Governi iniziarono a sondare il territorio e il sottosuolo alla ricerca di materie prime: petrolio, gas, pietre preziose, minerali strategici. E con successo.

Sono stati scoperti immensi giacimenti di gas, attualmente sfruttati dall’ENI, dall’Anadarko (USA), dalla Total (Francia). Gli inglesi hanno trovato rubini tra i più quotati al mondo. Gli irlandesi e i cinesi hanno sfruttato enormi riserve di preziosissime sabbie rare, devastando il territorio. I brasiliani hanno estratto il carbone che è acquistato soprattutto dall’India. I cinesi hanno ottenuto concessioni per lo sfruttamento del legname (legni preziosi), ma praticano anche il contrabbando su larga scala, per cui le foreste e la fauna selvatica stanno scomparendo velocemente.

Tutte queste imprese e multinazionali hanno fatto sloggiare i contadini dalle loro terre, impegnandosi a costruire case, scuole, unità sanitarie in altri luoghi spesso non fertili e senz’acqua. Ma hanno mantenuto poco e male le promesse. Hanno dato vita, infatti, a campi di raccolta con costruzioni di pessima qualità che niente hanno a che vedere con il modo di vivere della popolazione rurale.

Per poter ottenere le concessioni, velocizzare gli iter burocratici, aggirare leggi e norme esistenti si è instaurato un sistema di corruzione che ha coinvolto l’apparato statale a partire dai ministri fino ai funzionari di livello inferiore, diffondendosi in ogni angolo della società. Si corrompono i poliziotti per non pagare le multe, gli inservienti del Pronto Soccorso per poter saltare la fila dei malati in attesa, gli infermieri per avere un trattamento speciale, gli insegnanti per far promuovere i figli a scuola e via dicendo.

Malgrado la crescita veloce dell’economia (adesso però bloccata dalla pandemia di coronavirus) dovuta ai grandi investimenti, aumenta la povertà della popolazione rurale e dei lavoratori non specializzati che ricevono stipendi bassissimi in relazione al costo della vita. Basti pensare che circa il 60% dei bambini soffre di malnutrizione cronica, con grave pregiudizio dello sviluppo psico-fisico.

Dal 2017 nel Nord del Paese, soprattutto nella zona di Cabo Delgado e proprio nelle antiche zone liberate del FRELIMO, è sorto un nuovo focolaio di violenza di ispirazione integralista islamica che ha trovato terreno fertile tra i giovani delusi e senza futuro di una popolazione che ha dato tutto per la liberazione del Paese, trovandosi poi abbandonata a sé stessa per anni. E che ora soffre dell’esproprio della sua terra a favore di grandi investimenti da cui non ottiene alcun beneficio. Assiste all’apertura di strade, piste di atterraggio, costruzione di villaggi confortevoli per i tecnici. Vede sfrecciare camion, bulldozer, lussuosi Suv, percependo che girano moltissimi soldi.

I giovani vengono strumentalizzati dall’ISIS (il legame è stato riconosciuto anche dal Governo).  Secondo alcuni, i complottisti, è per creare un’instabilità locale tesa a favorire il libero movimento degli investitori. Altri, invece, sostengono che è per permettere il passaggio impune di ingenti quantità di droghe tra l’Oriente e i Paesi occidentali. Comunque, alla base di tutto c’è la povertà e la disperazione.

Quando racconto del Mozambico, alcuni in Italia mi chiedono perché rimango in un Paese così. Domanda difficile. Ho partecipato, anche se in un angolino, alla lotta di un popolo per la libertà, per la dignità, per il diritto all’uguaglianza, per l’emancipazione delle donne, per la speranza. Ho avuto in cambio, oltre alla nazionalità mozambicana, amicizie indissolubili, legami che non si possono tagliare.

Quando vado all’associazione comunitaria che si occupa di bambini e famiglie vulnerabili e in cui lavoro volontariamente adesso, mi sento bene. Non cambio il mondo, ma contribuisco a migliorare qualche vita. E poi, malgrado tutto, questi sorrisi, queste risate a gola spiegata, questa musica, questa luce, terra rossa e tanto caldo… dove li trovo in Italia?

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