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Covid-19, India in quarantena: la grande fuga e le scuse di Modi

Circa due settimane fa, nel secondo Paese più popoloso del mondo è stato imposto il blocco agli spostamenti e alle attività economiche. Qualche giorno dopo, il lockdown si è tramutato in un grande esodo, la cui entità non si registrava dall’epoca della divisione territoriale fra India e Pakistan. Guardando a quanto è successo, emergono gli effetti della disgregazione sociale e le responsabilità del Governo indiano.

Riepilogando gli eventi di marzo, l’India ha osservato con apprensione lo sviluppo della pandemia causata dal Covid-19 sin dall’inizio e, nonostante la minaccia apparisse ancora distante, le prime misure preventive erano già state prese nelle prime settimane del mese. Prima limitando le manifestazioni pubbliche come l’Holi Festival, poi bloccando l’ingresso nel Paese degli stranieri, ritirando i visti già rilasciati con la conseguente riduzione dei voli verso l’India, fino alla chiusura delle scuole e dei musei.

Misure intraprese perché la diffusione del virus, a ritmi paragonabili a quelli italiani, sarebbe stata insostenibile per lo Stato indiano e avrebbe portato l’intero Paese al collasso entro pochi giorni. Per questa ragione, l’idea di un possibile lockdown era già nell’aria.

Anche la chiusura dei musei tra le varie misure attuate dal Governo – Foto di Fabio Fortunato

Il giorno decisivo è stato il 19 marzo. Subito dopo il tramonto, il Primo ministro indiano, Narendra Modi, è apparso a reti unificate per una dichiarazione alla Nazione. Al termine del discorso si è compreso che, a partire dai giorni seguenti, sarebbero state implementate due ulteriori misure: il blocco totale dei voli nazionali e internazionali per una settimana e l’imposizione di un coprifuoco sperimentale di sole 14 ore per testare la capacità della popolazione di far fronte al divieto di uscire di casa.

Misure eccezionali, considerando l’alta stagione turistica, la densità delle popolose città indiane e l’instabilità economica di ampie fasce della popolazione. Malgrado l’ampia portata e la severità dei provvedimenti, Modi ha invitato la popolazione alla calma sollecitando il rispetto delle indicazioni annunciate.

Mentre la vita quotidiana sembrava proseguire come al solito, si sono registrati i primi segnali di allarme. Gli hotel e le guesthouse hanno iniziato progressivamente a svuotarsi. Gli aeroporti si sono riempiti di turisti che anticipavano la partenza per evitare il blocco aereo. Le biglietterie sono state assediate da chi voleva modificare la data del proprio viaggio. I supermercati erano stracolmi di clienti giunti per fare provviste di viveri e disinfettanti.

Il coprifuoco avrebbe dovuto avere una durata di sole 14 ore. Ma in molti, sin da subito, ne hanno dubitato. Infatti, il giorno stesso della “sperimentazione”, è emerso che si trattava di un espediente volto a non allarmare la popolazione. È così cominciato il lockdown.

Oggi,  allo stesso modo che in Italia, in India si può uscire esclusivamente per l’acquisto di viveri. Nessun assembramento viene tollerato. Chi si allontana dal proprio domicilio è sanzionato con opprimenti esercizi forzati e percosso con i “lathi”, i tradizionali manganelli in dotazione alle forze di polizia indiana derivati dalle forze di dominazione britannica.

Nell’immediato, l’effetto più devastante è stato la grande fuga di milioni di lavoratori dalle città. Il loro spostamento verso i villaggi non è però dovuto direttamente all’imposizione del totale lockdown, ma è riconducibile a un deliberato abbandono delle fasce più deboli della popolazione proprio della classe politica indiana.

Difatti, la grande fuga è stata generata dal licenziamento in massa degli operai non protetti dai soprusi dei proprietari e dall’impossibilità per gli operatori dell’economia informale –  come i venditori di “street food” o gli autisti dei “risciò” – di svolgere il proprio lavoro all’aperto.

A svuotarsi sono stati sopratutto gli slum, cioè i luoghi in cui risiedono da diversi anni le persone giunte dai villaggi alla ricerca di fortuna. È stato così ottenenuto l’effetto che alcune politiche di qualificazione non sono riusciute a realizzare negli anni passati.

Il popoloso slum di Pilkhana, Kolkata – Foto di Fabio Fortunato

Le principali conseguenze di questa migrazione sono due. Da una parte, un reale incremento del rischio che la diffusione della pandemia arrivi anche nelle zone rurali risultate finora non toccate dal virus. Queste potrebbero ora essere colpite più incisivamente, a causa della totale mancanza di strutture sanitarie attrezzate per un’eventuale emergenza.

Dall’altra parte, ed è ciò che già sta accadendo, la morte dei migranti – soprattutto dei loro figli – durante il  viaggio per l’impossibilità di trovare cibo. E spesso, chi riesce a ritornare nei villaggi locali viene recluso in celle, dove praticare il distanziamento sociale è pura utopia.

Probabilmente questi rischi sono stati ignorati in modo del tutto deliberato. Infatti, le decisioni non sono state assunte nell’arco di una sola giornata ma – come abbiamo evidenziato all’inizio – nel corso di tre settimane. La probabilità che si creasse una situazione prossima al disastro sociale era stata segnalata anche dagli operatori delle Ong e dalla popolazione locale. Preoccupazioni rimaste inascoltate dal Governo. 

Modi ha presentato le proprie scuse alla Nazione, che però sono solo populistiche dal momento che non accolgono le possibili soluzioni avanzate da diverse parti politiche e sociali. Tra queste: dichiarare illegali i licenziamenti indiscriminati e avviare un reale piano di aiuti alimentari per i più poveri in sostegno alle iniziative solidali già portate avanti dai singoli cittadini e alcune Ong.

Secondo le ultime notizie, i morti registrati a causa della migrazione sono almeno 24. Un numero destinato a crescere. Per questo motivo non è più tempo di fare dichiarazioni. Ora, è necessario adottare tutte le misure per evitare che gli indiani continuino a morire di fame ancor prima che di coronavirus.

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