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Fatimah, l’artista irachena che insegna la libertà alle donne

Fatimah Jawdat

Benvenuti a Diwaniyah, a metà tra Baghdad e Basra, nel cuore dell’antica Mezzaluna Fertile. È una delle città più conservatrici dell’Iraq, situata sulle rive del fiume Eufrate, abitata da contadini che vivono all’interno di un rigido sistema tribale. Ed è questo sistema tribale a esercitare un dispotico controllo sulle vite di madri, mogli, sorelle e figlie, cui spesso viene negata l’istruzione o uno stipendio adeguato per le lunghe ore di lavoro.

In una piccola casa di campagna è nata Fatimah Jawdat, ventisei anni – ed è proprio qui che è iniziata la sua ribellione.

La mia vita è stata diversa da quella delle altre donne di Diwaniyah: i miei genitori mi hanno sempre dato completa libertà. Libertà di studiare, lavorare e inseguire le mie passioni.

Fatimah Jawdat

Fatimah si è laureata in Arte all’Università del Qadisiyah nel 2015, e da allora è emersa come promettente attrice e artista performativa nei teatri di varie regioni dell’Iraq e nel progetto internazionale The Flowers of Evil.

La mia prima vittoria è stata salire su un palco di fronte a centinaia di uomini, esprimendo idee e concetti con il mio corpo – lo stesso corpo femminile che a Diwaniyah viene avvertito come un fardello di cui provare vergogna, rifiutato e condannato dalla società maschile.

Da allora Fatimah si serve dell’arte come arma di difesa per risvegliare le coscienze e rappresentare tre diverse realtà: il settarismo, la condizione femminile e la negligenza del Governo iracheno nella vita di tutti i giorni.

È proprio Fatimah a raccontare a Voci Globali della macabra scoperta fatta a Baghuz, in Siria, durante il mese di febbraio, dove le truppe britanniche hanno rinvenuto cinquanta teste umane gettate nella spazzatura: appartengono a donne Yazide, le schiave del sesso dello Stato Islamico, un’altra disumana conseguenza del germe del settarismo. L’atroce massacro sembra essersi verificato poco prima della caduta della roccaforte e della resa dei miliziani.

I media hanno rivolto pochissima attenzione all’accaduto – ma io ho scelto di dedicarvi una rappresentazione teatrale e di movimentare altri artisti a livello internazionale. Voglio essere la voce delle donne Yazide e di tutte le minoranze che continuano a soffrire in questa regione del mondo, scegliendo un approccio provocatorio. È la maniera migliore per rompere gli schemi e far riflettere le persone.

Uno degli appelli avviati da Fatimah. In alto a destra, l’artista thailandese di fama internazionale Vasan Sitthiket

Fatimah insegna anche Teatro all’Istituto Femminile di Belle Arti di Diwaniyah.

Io non condanno la religione, ma condanno questa gabbia plasmata a servizio dell’uomo per tutelare i suoi interessi e le sue comodità, che viene erroneamente chiamata religione. Il mio obiettivo è insegnare alle mie studentesse ad abbandonare i preconcetti, a praticare la libertà di pensiero. Purtroppo sono ancora spaventate a metterla in atto nella realtà – la nostra società tribale non lo consentirebbe. Però la praticano nelle loro teste, ogni giorno. Credo sia un inizio.

Intanto, quello di Fatimah non sembra essere l’unico atto di ribellione a Diwaniyah. Nel 2016 infatti è stata creata la prima squadra femminile di wrestling del Paese. Un’iniziativa singolare – ma anche un grande passo avanti, che dà finalmente accesso alle donne al mondo dello sport – e di uno sport completamente maschile, per di più. Ed è così che venti ragazze tra i 15 e i 30 anni si allenano tre volte a settimana nella palestra di Diwaniyah, indossando magliette e pantaloncini colorati, prima di ritornare rapidamente ai loro hijab neri.

Fatimah rappresenta la condizione femminile in una delle sue performance

Ma Fatimah vuole soffermarsi soprattutto sulla costante noncuranza del Governo iracheno, e sulla situazione di totale anarchia che regna sovrana nel Paese.

Voglio che il mondo là fuori sappia che in Iraq non si muore solo per il terrorismo e per i conflitti. In Iraq si muore anche dove i conflitti non ci sono. Si muore per piccoli episodi quotidiani di negligenza.

Fatimah si riferisce infatti agli incidenti stradali, agli incendi, alle alluvioni che distruggono le abitazioni.
Poi ci mostra un video che riprende dozzine di uomini che tentano invano di nuotare mentre vengono risucchiati dalla corrente del fiume Tigri.

Il filmato risale al 21 marzo scorso, durante i festeggiamenti del Nowruz, il Capodanno persiano, nella città di Mosul. Una nave con una capienza di cinquanta persone è stata sovraccaricata con più di duecento passeggeri, solo per fare più soldi. Ovviamente il peso non ha retto e la nave è sprofondata nel fiume. La maggior parte della gente è affogata o dispersa – soprattutto donne e bambini – e quello che doveva essere un giorno di festa si è trasformato in un’altra giornata di pianto. Tutto questo non succederebbe se ci fosse un minimo di controllo da parte delle autorità.

Racconta poi di come buona parte della popolazione si ammali continuamente a causa di acqua contaminata da scarti animali e altre sostanze nocive o di come molti bambini siano morti cadendo nelle fogne a cielo aperto che non vengono mai delimitate come bisognerebbe.

Ci chiamavano la culla della civiltà, la terra delle meraviglie. Oggi l’Iraq è un corpo malato che ha bisogno di cure e noi Iracheni siamo persone reali, con un volto e una storia, persone cui la morte dà la caccia ogni giorno, assumendo sempre sembianze diverse.

Un’altra provocatoria installazione di Fatimah

 

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