[Traduzione a cura di Elena Rubechini dell’articolo originale di Anthony Pereira pubblicato su The Conversation.]
Con l’insediamento del nuovo presidente brasiliano, Jair Bolsonaro, è cresciuta la paura che il tasso di deforestazione dell’Amazzonia aumenterà. I motivi per essere preoccupati sono fondati ma ci sono anche diversi fatti, interni e non, che potrebbero ostacolare la distruzione dell’ambiente.
Cominciamo dalle cattive notizie: Bolsonaro e il suo gabinetto considerano la salvaguardia dell’ambiente un ostacolo allo sviluppo. Il nuovo ministro dell’Ambiente Ricardo Salles, che ha affermato che il dibattito sul cambiamento climatico è “una questione secondaria”, è stato recentemente condannato dal tribunale per favoreggiamento nei confronti delle aziende minerarie quando era Segretario all’ambiente per lo Stato di São Paolo. Sotto la sua guida il ministero, che ha già perso alcuni dipartimenti chiave, soffrirà tagli al budget.
Il neopresidente ha anche espresso l’intenzione di limitare il potere dell’IBAMA (l’Istituto brasiliano dell’ambiente e delle risorse naturali rinnovabili, ndt.) di poter multare i privati e le compagnie che inquinano e deforestano illegalmente. Intanto il tasso di deforestazione nell’Amazzonia brasiliana, che era sceso di circa il 75% tra il 2004 e il 2017, è risalito ancora prima che Bolsonaro si insediasse. Si stima che tra agosto 2017 e luglio 2018 sia cresciuto del 13,7%.
Recentemente Bolsonaro ha scritto in un tweet di voler mettere fine alla dipendenza degli agricoltori dai fertilizzanti importati (il 75% viene dall’estero). Estrarre i materiali in Brasile potrebbe tuttavia danneggiare ulteriormente l’ambiente. Sulle sponde del fiume Madeira in Amazzonia è stato scoperto da poco il più grande deposito di potassio con cui si producono fertilizzanti.
Il nuovo presidente è anche favorevole a costruire più dighe (la proposta è di costruirne 334) e ha annullato l’impegno preso dal precedente governo di ospitare la prossima conferenza ONU sul clima. Bolsonaro ha preso anche la decisione di destinare in via provvisoria al ministero dell’Agricoltura la facoltà di stabilire i confini delle terre degli indigeni, prima di competenza del ministero della Giustizia. In questo modo è probabile che si avveri la promessa di non creare nuove riserve indios.
Il movimento ambientalista in Brasile
Bolsonaro trova però davanti a sé degli ostacoli. Per il nuovo presidente lo sviluppo agricolo e la protezione dell’ambiente sono incompatibili ed è disposto a sacrificare quest’ultima per creare spazio per le coltivazioni, e per favorire l’attività mineraria e la produzione di legname. Ma in Brasile ci sono anche altre voci, e ascoltare quelle che promuovono un’agricoltura sostenibile che preserva la biodiversità è meglio sia per lo sviluppo del Brasile che per il clima globale.
Prima dell’insediamento Bolsonaro aveva affermato di voler accorpare il ministero dell’Ambiente a quello dell’Agricoltura ma era stato convinto ad abbandonare l’idea in parte grazie alle critiche delle ONG ambientaliste e dei dipendenti del ministero dell’ambiente e in parte grazie all’intervento di alcune aziende agricole preoccupate che i danni all’immagine dovuti all’essere associati alla deforestazione precludesse loro l’accesso ai mercati, in particolare quello europeo.
Il movimento ambientalista brasiliano è vecchio quanto le sue controparti in Europa e America del Nord. È grazie alla sua forza se nella Costituzione del 1988 si sono incluse diverse misure di tutela ambientale quali la conservazione di alcune aree, la demarcazione delle riserve indios e un sistema di licenze ambientali. E José Lutzenberger, ambientalista pioniere ed ex ministro dell’Ambiente, ha aiutato a organizzare il Summit della Terra a Rio nel 1992 e a demarcare l’enorme riserva indigena Yanomami.
La conferenza di Rio ha fatto parte del processo che ha portato all’Accordo di Parigi del 2015 in cui la partecipazione brasiliana è stata fondamentale. Negli ultimi giorni di mandato, il presidente uscente Michel Temer ha consegnato al suo successore un rapporto con la raccomandazione che il Brasile rimanesse nell’accordo di Parigi e proseguisse con l’obiettivo di raggiungere un’economia a zero emissioni di carbonio entro il 2060.
Pressioni dall’estero
Ci sono anche fattori esterni a produrre pressione sull’amministrazione Bolsonaro. La Norvegia offre un contributo pari al 93% dei fondi che l’Amazon Fund ha elargito a 102 progetti, una cifra che ammonta a centinaia di milioni di dollari. Questi fondi forniscono incentivi al rafforzamento delle leggi per l’ambiente e la creazione di mezzi di sussistenza sostenibile nella foresta pluviale.
I finanziamenti norvegesi sono legati al mantenimento del tasso di deforestazione entro certi limiti come è stato ricordato a Temer durante la visita a Oslo nel giugno 2017.
Tenere gli occhi aperti
L’amministrazione Bolsonaro probabilmente agirà in sordina per raggiungere alcuni dei suoi obiettivi. Oltre a indebolire il ministero dell’Ambiente potrebbe informalmente avvisare i governatori degli Stati e le delegazioni congressuali che la legge sulla deforestazione non sarà più applicata severamente. Pertanto, gli osservatori devono stare attenti a non ritrovarsi davanti a fatti già compiuti. Delle ottime fonti di informazione in Amazzonia sono le organizzazioni dei cittadini e quelle giornalistiche che lavorano ad esempio alla pubblicazione di InfoAmazzonia e O Eco con il sostegno internazionale. Un altro esempio è il Pulitzer Centre che amministra il Rainforest Journalism Fund, una sovvenzione finanziata dal governo norvegese per i giornalisti che denunciano i casi di deforestazione.
Il ministro degli Affari Esteri brasiliano, Ernesto Araújo, ha affermato che le iniziative come gli accordi di Parigi del 2015 sono di ispirazione neoliberale, a favore della globalizzazione, e fanno parte di una gigantesca macchina di propaganda della “cultura marxista”. Interferendo nella gestione dell’Amazzonia, le ONG internazionali e gli Stati stranieri stanno violando la sovranità brasiliana.
Ma è solo fumo negli occhi. Nell’accordo di Parigi il Governo brasiliano si è volontariamente impegnato a ridurre le emissioni di gas serra del 37% entro il 2025 e del 43% entro il 2030 prendendo il 2005 come anno di riferimento. Il Fórum Brasileiro de Mudança do Clima (un luogo per lo scambio di idee sul riscaldamento globale, ndt.) che è stato il fautore di tutto questo conta sull’apporto di 340 entità governative, imprese, ONG e accademici. Il Paese parte avvantaggiato nella transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio potendo contare su energie relativamente pulite e sessanta milioni ettari di pascoli abbandonati che si potrebbero rimboscare.
Preservare la foresta pluviale amazzonica è di vitale importanza per il pianeta e in Brasile sono in molti a volerlo fare. Non accettano il fatto che lo sviluppo e la salvaguardia dell’ambiente si debbano escludere necessariamente a vicenda e sostengono una riconversione dell’economia amazzonica verso mezzi di sussistenza sostenibili. Resta da vedere se nei prossimi anni la loro visione avrà la meglio.