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Voglia di colonialismo, “non fu poi tanto male, molti i benefici”

Colonialismo sì, colonialismo no. No, non siamo fuori tempo. Anzi, il tempo sembra quasi essersi fermato.

Al razzismo hegeliano che sosteneva che “l’Africa non ha alcuna storia e non ha in alcun modo contribuito allo sviluppo dell’umanità” e altre convinzioni su popoli e culture che il filosofo mai aveva conosciuto di persona, vanno aggiunte considerazioni di ogni sorta non più legate ad epoche poco illuminate (altro che Secolo dei Lumi) ma ai nostri giorni.

Nel 1963, nel pieno ardore indipendentista dei popoli africani lo storico di Oxford, Hugh Trevor-Roper, esperto della Germania nazista (o affascinato?) affermava “Non esiste una storia africana“, saggio riproposto con enfasi – nonostante le critiche – in anni successivi. “Forse in futuro ci sarà una storia africana da insegnare. Ma al momento non c’è; c’è solo la storia degli europei in Africa. Il resto è buio totale (darkness, NdR) e il buio non è soggetto della Storia“.

E siamo ai giorni nostri. E a “The case for colonialism” di Bruce Gilley, docente di Scienze Politiche all’Università di Portland. Pubblicato ad agosto sulla Rivista Third World Quarterly (che forse farebbe meglio a cambiare titolo, ancora parliamo di Terzo mondo?) ha generato l’ira di lettori e accademici. Tanto che alla fine gli editori e il direttore responsabile hanno dovuto cedere alle insistenze degli altri collaboratori della testata e ritirare il testo. Ma le teorie di Gilley rimangono sul suo sito (PDF del testo in inglese).

Cosa c’è di tanto vergognoso nel saggio? Così vergognoso da spingere un nutrito gruppo di accademici a dimettersi dalla redazione della rivista e ad aprire una raccolta firme online?  Basta leggere l’estratto del lavoro:

Negli ultimi 100 anni, il colonialismo occidentale è stato mal considerato. È giunto il momento di mettere in discussione questa ortodossia. Il colonialismo occidentale è stato, in linea di massima, sia oggettivamente vantaggioso che soggettivamente legittimato nella maggior parte dei luoghi in cui si è realizzato. I Paesi che hanno abbracciato la loro eredità coloniale, nell’insieme hanno fatto meglio di quelli che l’hanno respinta. L’ideologia anti coloniale ha prodotto gravi danni alle popolazioni assoggettate e in molti luoghi continua a contrastare lo sviluppo sostenibile e un fruttuoso incontro con la modernità. Il colonialismo può oggi essere ristabilito da Stati deboli e fragili in tre modi: rivendicando metodi di governo coloniale; ri-colonizzando alcune aree e creando nuove colonie occidentali ricominciando da zero.

Insomma smettiamola di condannare il colonialismo perché in fondo per gli africani “incivili” la presenza e le azioni dell’uomo “civilizzato” non sono altro che un vantaggio. C’è bisogno di una nuova colonizzazione, una “soft colonisation” però, accettata e consensuale. Anzi, dovrebbero addirittura essere i Governi locali a cercarla e volerla…

Che tipo di colonizzazione ancora? Non è forse in atto da tempo quella economica e dello sfruttamento delle risorse (neo-colonizzazione)? Non è forse continuamente in atto quella culturale (uso delle lingue europee, fast-food, creme schiarenti per la pelle, ecc. ecc. ecc.? ) Di che tipo di colonizzazione i Governi locali si dovrebbero fare tramite oltre a quelle già in atto?

Sembra che il tempo non sia passato, se quel senso di inferiorità e inadeguatezza ancora vive in molti africani che continuano loro stessi a cercare e a elencare gli effetti positivi della colonizzazione – ripetendo frasi contenute nei libri di testo adottati nelle scuole del continente nero -. Il concetto di decolonising the mind (decolonizzare la mente) – primo passo verso la libertà – è ancora lontano e incomprensibile per molti, quelli che nello strapotere culturale dell’Occidente sono nati e quelli che ci sono cresciuti.

Né, tanto meno, è esaurito il senso profondo di superiorità degli occidentali, soprattutto – suppongo – quelli meno istruiti. O che la storia proprio non vogliono conoscerla. Non è di decenni fa, ma di oggi, questa lettera al Corriere nella rubrica “Italians” e spacciata come “geopolitica”.

Chi scrive si augura che visto che “l’Africa sta già subendo l’attacco finanziario, industriale ed economico della Cina […] potremmo provare ad esportare modelli culturali, comportamentali, sociali. La civiltà che ci ha portati in Africa da sfruttatori coloniali, potrebbe riportarci come “faro” di civiltà. […] Quanto all’Italia, nel nostro piccolo, dovremmo provare ad ‘adottare’ qualche nazione africana con cui abbiamo un passato (Libia, Etiopia…). Non vedo altre soluzioni pratiche“.

Io, invece, un’altra soluzione pratica la vedrei. Riguardare questi vecchi documentari sul comportamento dell’Italia nell’epoca dell’imperialismo in Africa, proprio in Etiopia e in Libia – un passato di cui, pare, c’è chi ha ancora nostalgia. Non si chiama civiltà, si chiamano crimini di guerra.

E il colonialismo, il neocolonialismo – o l'”adozione” di un Paese sovrano sono abusi. Nient’altro che opportunistici abusi.

 

 

E non fu certo solo l’Italia tra i Paesi della civile Europa ad aver dato prova di selvaggia crudeltà. La Germania ebbe il suo banco di prova della teoria della razza in Namibia nei confronti degli Herero e dei Namaqua. Fu in questo Stato dell’Africa del Sud che – tra il 1904 e il 1908 – si consumò il primo genocidio del Novecento. Fu qui che si realizzarono i primi campi di sterminio, il più terribile nella tristemente nota Shark Island, conosciuta anche come isola della morte, dove ora sorgono hotel e resort di proprietà occidentale.

A quei tempi corpi o parti del corpo era molto richiesti per accreditare la scienza” della razza. Nel 1912 in Germania, su una rivista specializzata di morfologia e antropologia, venne pubblicato uno studio sull'”anatomia razziale di 17 teste di ottentotti” (boscimani, NdR). Queste teste furono tutte mozzate da corpi di prigionieri a Shark Island, tra questi un bambino di due anni. Le teste appartenute a uomini, donne e bambini furono poi messe a confronto – per lo studio – con quelle di scimmie.

Foto di archivi storici

Né ha mancato di fare la sua parte la Francia  nell’Africa occidentale – ma è soprattutto in Algeria che la memoria è vivissima. Oltre un secolo, 132 anni, di colonizzazione e un milione di morti – queste almeno le cifre ufficiali. E anni di violenze, umiliazioni e lotte raccontate con grande sensibilità dal regista italiano Gillo Pontecorvo nella celebre pellicola “La battaglia di Algeri“.

E poi c’è lui, Leopoldo II re del Belgio. A lui si deve la colonizzazione del Congo. Fece ammazzare qualcosa come 10 milioni di persone e tante ne fece menomare, taglio di mani, piedi, per punire chi non riusciva a sostenere il peso dello sfruttamento, chi non riusciva a riempire i cesti della quantità di gomma utile per arricchire il suo impero. Anche lì fu genocidio. A portare alla luce le atrocità fu una missionaria inglese, Alice Seeley Harris, e furono le sue fotografie. Come questa in basso  che ritrae un padre con i resti della figlia di cinque anni, smembrata. (La foto fa parte della documentazione di Anti-Slavery Society). King Leopold’s Ghost è una lettura utile a chi tesse le lodi del colonialismo e dice che dopotutto portò anche benefici.

Benefici sì, ma alla ricchezza di una parte del mondo e di gente che la storia la conosce poco. O volutamente la ignora.

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