[Traduzione a cura di Benedetta Monti, dall’articolo originale di Liza M. Kimbo pubblicato su Pambazuka]
Nel giugno del 2013 a Kigali in Ruanda, Louise (nome di fantasia), una ragazza di 18 anni che frequentava la scuola superiore, incinta di quattro mesi ha cercato di abortire. A causa dei pregiudizi che circondano l’aborto nella sua comunità, si è recata in una struttura privata fuori dalla capitale dove il medico le ha somministrato alcune pillole. Al suo rientro a Kigali, la ragazza ha iniziato a perdere sangue e ha cercato aiuto dai vicini che, dopo aver scoperto il suo tentativo, hanno chiamato la polizia. Louise è stata arrestata, condotta in ospedale, e successivamente condannata in tribunale per aver tentato di abortire. Giudicata colpevole, Louise è stata condannata a sei mesi di prigione. La ragazza, senza genitori, ha raccontato di aver tentato di abortire perché era stata abbandonata dall’uomo che l’aveva messa incinta e non aveva mezzi di sostentamento sufficienti per lei e per il bambino. A causa delle restrittive leggi sull’interruzione di gravidanza e dello stigma diffuso, Louise ha cercato di abortire clandestinamente lontano dal distretto in cui abita.
Riconsiderare le perdite
La storia di Louise è simile a quella di molte ragazze africane: secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità nel 2008 – anno delle ultime stime – in Africa sono decedute circa 29.000 ragazze e donne a causa di un aborto non sicuro; il 60% dei decessi avviene tra donne e ragazze di età inferiore ai 25 anni, e il 14% dei decessi per maternità nel continente sono connesse ad aborti praticati in condizioni di scarsa sicurezza. In Africa, la criminalizzazione della procedura e il relativo stigma hanno contribuito al numero elevato di decessi e di menomazioni causate da aborti non sicuri.
La criminalizzazione dell’aborto ha un costo sia individuale che sociale. I governi spendono miliardi per il trattamento delle complicazioni che derivano da procedure insicure e per perseguire e punire le donne e le ragazze che si sono procurate un’interruzione di gravidanza illegale. Il prezzo, sia dal punto di vista emozionale che fisico, che le famiglie, gli amici e i colleghi devono pagare per aver perso una persona cara non può essere quantificato, mentre i costi psicologici, sociali e professionali di chi procura l’aborto in maniera legale, spesso perseguito e fortemente criticato, non possono essere ignorati.
Un problema per la salute pubblica e per i diritti umani
In Africa la pratica dell’aborto in condizioni di scarsa sicurezza è stata riconosciuta come uno dei principali problemi della salute pubblica. Molti documenti ufficiali, compresi il quadro e il piano di azione dell’Unione Africana sulla salute sessuale e riproduttiva, sottolineano l’esigenza di rendere meno restrittive le sanzioni penali sull’aborto come parte della soluzione. Inoltre, la recente epidemia del virus Zika in alcuni Stati africani evidenzia la necessità di consentire alle donne di esercitare i propri diritti sulla salute riproduttiva dando loro il potere di godere della libertà di scelta sul proprio corpo e di fornire loro le informazioni necessarie, il supporto e l’accesso ad una gamma completa di servizi. Alcuni Stati, come il Malawi, il Ruanda e la Sierra Leone hanno avviato riforme legislative in merito alle sanzioni penali sull’interruzione di gravidanza per tentare di affrontare la questione.
Tuttavia, in molti altri Paesi africani, è presente ancora un livello scioccante di “inerzia” politica di fronte a questa epidemia silenziosa. Gli Stati devono cominciare a intraprendere azioni per onorare gli impegni dichiarati. La difesa del diritto della donna a controllare il proprio corpo, compreso il diritto a un aborto sicuro e legale, è fondamentale per affrontare i problemi che derivano dalle interruzioni praticate in condizioni insicure. Il riconoscimento della libertà di scelta della donna non è in contrasto con la difesa del diritto alla vita, ma è essenziale per promuovere il diritto alla salute sessuale e riproduttiva delle donne, come definito da diverse Organizzazioni che si occupano dei diritti umani.
Oltre un anno fa (il 18 gennaio 2016), la Commissione africana sui diritti umani e dei popoli ha lanciato una campagna su tutto il continente per depenalizzare l’aborto, esortando i Governi ad abrogare le relative sanzioni penali oppure a consentirlo per salvare la vita o la salute della donna in caso di stupro, incesto o violenza carnale o in casi di gravi anomalie del feto. Questa campagna fornisce una piattaforma per stimolare le continue iniziative di sostegno per depenalizzare l’aborto in Africa.
Fortunatamente, all’interno del continente vi sono molti esempi pratici di che cosa può essere fatto per affrontare il problema. Nel corso degli ultimi vent’anni, alcune nazioni come l’Etiopia, il Sud Africa e la Tunisia hanno attuato riforme delle proprie legislazioni per ampliare le possibilità per le donne di accedere a strutture che consentono l’aborto. In molte di queste nazioni, tali riforme non hanno comportato un aumento del numero delle donne che abortiscono, ma al contrario ad una forte riduzione delle incidenze di decessi e menomazioni dovute ad operazioni insicure, poiché molte donne e ragazze hanno potuto avere accesso ai servizi per l’aborto legale senza dover temere di essere arrestate o perseguitate. Inoltre, il 9 dicembre del 2016, il presidente del Ruanda, Paul Kagame ha compiuto un passo senza precedenti concedendo l’amnistia presidenziale a circa sessanta tra donne e ragazze che avevano subito condanne. Tale gesto dovrebbe essere emulato anche dagli altri Stati attraverso una moratoria sull’applicazione delle sanzioni penali.
Le azioni opportune
Il pregiudizio connesso all’aborto rimane come persistente ostacolo al progresso. È necessario che gli Stati lo combattano all’interno delle società e, in particolare, delle strutture sanitarie. Mentre le dinamiche e le percezioni sociali possono determinare lo sviluppo delle riforme, è importante che tali riforme siano basate sui fatti, pragmaticamente e in maniera conforme alle situazioni concrete. Ad esempio, ampliare le motivazioni per l’accesso all’interruzione di gravidanza comprendendo lo stupro e la violenza sessuale potrebbe non essere adeguato qualora venisse comprovato che solamente un numero esiguo di donne che cercano di abortire in modo insicuro sono sopravvissute a tali pratiche e che molte donne praticano l’aborto esclusivamente per motivi economici o di tipo sociale. In tal caso, la società dovrebbe considerare la necessità di consentirne la pratica per queste motivazioni, come ha fatto lo Zambia negli anni ’70.
Inoltre, anche se sembra discutibile, nei casi in cui si verifichino un grande numero di gravidanze durante l’adolescenza con conseguente aumento degli aborti insicuri tra le ragazzine, i Governi potrebbero valutare di concedere alle minorenni l’autorizzazione ad abortire tenendo conto delle loro differenti capacità, com’è accaduto in Etiopia nel 2004. Le riforme progressive non devono essere pregiudicate da politiche e regolamentazioni rigorose che rendono quasi impossibile l’accesso ai servizi per praticare un’interruzione sicura.
Seppure riconoscendo le preoccupazioni a livello morale, religioso ed etico sollevate da coloro che si oppongono alle riforme delle leggi sull’aborto, è importante riflettere sulle implicazioni che tali riforme avrebbero sulla salute sessuale e riproduttiva delle donne. È necessario mantenere un impegno costruttivo con tutte le fasce della società per trovare soluzioni durature ai decessi e alle menomazioni derivanti dalla piaga dell’aborto insicuro, conseguenze che possono essere evitate.
Tutti, compresi i leader religiosi, devono fare la propria parte per richiedere un intervento da parte dei Governi. I capi religiosi delle altre nazioni africane potrebbero imparare una lezione da quanto accaduto in Malawi, dove gli esponenti della Chiesa hanno appoggiato le riforme della legge sull’aborto per far fronte all’alto tasso di mortalità e di malattia tra le madri. Anche se questi tentativi iniziali sono encomiabili, resta la necessità di raggiungere il consenso sull’abrogazione delle sanzioni penali sull’aborto e sul suo trattamento come una qualsiasi altra procedura medica, da non criminalizzare. Le questioni morali, religiose ed etiche implicate possono essere affrontate al meglio al di fuori della sfera del diritto penale.