Sono i leader delle comunità indigene violate, i giornalisti impegnati nella denuncia delle nefandezze delle guerre, gli studenti in protesta contro i regimi autocratici, gli avvocati che si battono contro la pena di morte, le donne che lavorano perché altre donne abbiano una via d’uscita dalla violenza e la discriminazione di genere, i custodi dell’ambiente che fronteggiano la distruzione e lo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali che sono bene comune.
Sono i difensori dei diritti umani, e in ogni angolo di questo Pianeta che da almeno un decennio non fa che peggiorare in fatto di diritti umani e stato di diritto, vivono braccati.
“Persone come il blogger Ali Abdulemam che è stato imprigionato e torturato in Bahrain perché lavorava per la libertà di parola. Persone come Natacha Estimorova che è stata uccisa in Cecenia perché ha documentato e denunciato i casi di persone uccise e torturate dalle autorità russe“, dice a Voci Globali Sarah de Roure, Head of Protection di Front Line Defenders (FLD), l’organizzazione internazionale che da oltre vent’anni lavora per la protezione dei difensori dei diritti umani a rischio in tutto il mondo.
La Global Analysis 2022 è l’ultima istantanea della situazione firmata FLD, e si apre con un lungo, lunghissimo elenco di nomi. Sono 401, e sono tutti morti ammazzati perché contrastavano pacificamente abusi, violenze e disuguaglianze d’interesse ai più forti poteri pubblici e privati. Solo lo scorso anno, solo in 26 Paesi.
“Quei casi sono solo quelli che siamo riusciti a verificare“, sottolinea De Roure. E rimanda, ad esempio, ai soli due nomi afghani segnati su quella lista di assassinati per i diritti e le libertà “mentre tutto il resto dei nostri dati in relazione al numero di difensori dei diritti umani afghani che subiscono minacce di morte suggerisce che quel numero, purtroppo, è molto più alto“.
Come nell’Afghanistan dei talebani, in molti, troppi altri Paesi si erode giorno dopo giorno lo spazio per qualsiasi lavoro sui diritti umani, compreso quello di documentazione, ci spiega la portavoce di FLD.
Un numero enorme di voci messe a tacere, dunque. Il più lungo mai registrato. Sono molte e diverse le realtà e le sfide locali che spingono il drammatico balzo nelle uccisioni. Alcuni dati, però, danno il segno del tipo di società che sta prendendo forma.
Quasi la metà – il 48% – dei difensori uccisi nel 2022 lavorava per i diritti della terra, dell’ambiente e delle popolazioni indigene. E il 22% erano indigeni. Un trend che definisce gli ultimi anni, con le cronache quotidiane piene dei conflitti intorno al controllo delle risorse naturali, il land grabbing e gli sfollamenti forzati delle comunità dalle aree individuate per l’attività estrattiva su larga scala.
Lo mette bene in evidenza De Roure, che ci parla anche di “una crescente pressione sulle fonti energetiche che si è intensificata nel contesto delle sanzioni dell’UE al gas russo ma anche per la necessità di minerali particolari per sostenere la transizione verde“.
È in questo quadro che gli attivisti, “documentando violazioni, organizzando la risposta delle comunità, facendo campagne, protestando, aprendo la strada alla giustizia ambientale e difendendo i diritti umani“, operano. E muoiono.
Altra linea comune sembra esser riconoscibile nel conflitto e nel bisogno di pace.
“I due Paesi con il maggior numero di casi documentati – Colombia e Ucraina – sono sicuramente molto diversi, ma vediamo che nel primo i difensori dei diritti umani vengono uccisi mentre sono impegnati nell’attuazione degli accordi di pace e nel secondo sono presi di mira dalle forze russe mentre forniscono supporto umanitario“, chiosa la rappresentante di FLD. “Difendere la pace e i diritti umani è un affare rischioso“, riflette.
Infine, c’è il fil rouge dell’impunità e del ruolo giocato dai governi nel silenziare gli assassinii.
“C’è una responsabilità molto limitata delle persone coinvolte ed è necessario che le conseguenze per gli autori si facciano più importanti. Non solo per chi preme il grilletto, ma anche per i veri responsabili, siano essi Governi, aziende private o gruppi armati. Quello che vediamo è che anche quando le uccisioni ricevono attenzione e solidarietà internazionale, come nel caso di Berta Caceres in Honduras o Marielle Franco in Brasile, resta alta l’impunità per gli autori intellettuali di questi crimini“, è la denuncia dell’esperta.
A detenere il primato mondiale come regione più mortale per i difensori dei diritti umani è ancora il Sud America, con Colombia, Messico, Brasile e Honduras a far contare da soli l’80% dei casi di omicidio nel 2022.
“Sebbene abbiamo assistito a cambiamenti politici positivi a seguito di importanti elezioni, la volontà politica di proteggere i difensori dei diritti umani ha continuato a essere in gran parte assente“, chiarisce l’ambasciatrice di FLD indicandoci livelli endemici di impunità e un’incessante attività di criminalizzazione che per tutto lo scorso anno hanno accompagnato e mandato al vento il lavoro cruciale dei difensori, soprattutto le donne, i giornalisti e tutti quanti erano impegnati nella lotta alla corruzione negli apparati di potere.
Pesa anche la posizione internazionale della regione rispetto all’attività dei difensori nelle questioni di giustizia socio-ambientale. “I colloqui globali sull’azione per il clima sono fortemente scollegati dalla volontà politica di garantire protezione ai difensori dei diritti della terra, dell’ambiente e degli indigeni che sono in prima linea nel movimento globale per la giustizia climatica“, osserva De Roure.
Difendere i diritti dei popoli indigeni, delle comunità afro-discendenti, della terra e dell’ambiente, infatti, ha esposto non solo alle uccisioni, ma anche a “persistenti e allarmanti livelli di violenza da parte di attori statali e non“, ripete. E illumina un nesso non da poco con i Megaprojects, che portano al 42,8% complessivo la percentuale dei difensori presi di mira nella regione nel 2022 che lavoravano su questioni legate alle controversie sulle risorse naturali.
Ancora un paio di realtà devono essere considerate. Che i difensori in Sud America, soprattutto indigeni, operano spesso in territori remoti, con tutti i limiti legati ai meccanismi di protezione che “quando esistono, faticano a raggiungerli dove ce n’è più bisogno“.
E che gli attacchi, le espropriazioni violente delle terre ancestrali, gli sfollamenti ad opera di autorità, aziende, proprietari terrieri e agricoltori, mostrano tutte un tratto comune, cioè “la presenza di attori armati, siano essi polizia, forze militari o paramilitari, società di sicurezza private o altri gruppi, che minano di fatto qualsiasi rete di protezione legale o consultazioni comunitarie dove esistevano“.
Tornando ai dati globali, chi non è ancora finito sotto terra, sopravvive con un bersaglio sulla schiena. In modi diversi, nelle dittature quanto nelle democrazie, chi difende i diritti umani è vittima di violenze e violazioni. A studiare il dossier FLD alla sua X edizione, sembra non ci sia per i difensori dei diritti umani un posto sicuro a questo mondo.
“Lavorare in circostanze rischiose è diventata la norma, non l’eccezione“, riconosce De Roure.
Nel 2022, la minaccia di morte ha rappresentato il rischio più frequente per i difensori dei diritti umani in Asia e nelle Americhe. Nelle regioni del Medio Oriente e Nord Africa (MENA) e dell’Europa e Asia Centrale (ECA) parlare di diritti umani ha significato, con le più alte probabilità, andare incontro ad azioni legali. In Africa si è registrata una sproporzionata esposizione all’arresto e detenzione prolungata.
“Secondo i dati a nostra disposizione, nel 2022, la prima e più pervasiva minaccia contro i difensori dei diritti umani è la criminalizzazione. Ed è importante dire che si tratta di una tendenza globale, osservata in diversi Paesi, non solo quelli considerati autoritari“, rivela la responsabile delle strategie globali di protezione di FLD.
Ha colpito soprattutto i diritti ambientali, la libertà di espressione e riunione, i diritti dei migranti, il sostegno alle democrazie e la lotta alla corruzione. E, insiste la delegata di FLD, si tratta di un problema endemico anche qui, capace di esasperare il degrado dello stato di diritto “alimentando ambienti ostili in cui le violazioni contro i difensori dei diritti umani sono state legittimate ed eseguite impunemente dalle stesse istituzioni incaricate di proteggere i cittadini e sostenere lo stato di diritto“.
Di più, spesso la criminalizzazione è arrivata per il tramite delle legislazioni antiterrorismo e di quelle per la sicurezza nazionale, usate a perseguitare giudiziariamente i difensori. L’etichettatura di questi ultimi come agenti anti-sviluppo e minacce alla sicurezza non è di certo mancata.
“Proliferano legislazioni restrittive stimolate dall’architettura globale antiterrorismo, come la Financial Action Task Force contenente una raccomandazione che riguarda specificamente le organizzazioni senza scopo di lucro che viene sfruttata come pretesto per controllare e reprimere le organizzazioni della società civile, in particolare quelle che difendono i diritti umani. Lo vediamo sotto forma dei cosiddetti atti anticorruzione e di un maggiore controllo sull’accesso delle organizzazioni ai donatori internazionali. [..] È un problema che riportiamo costantemente nella nostra Global Analysis annuale“, afferma l’esperta.
L’attivista di Brasilia porta il focus anche su quanto la repressione delle voci per i diritti umani si faccia sempre più sofisticata. È ormai pratica diffusa tra i Governi sferrare attacchi digitali e chiudere spazi online per silenziare il dissenso o negare l’accesso a informazioni non conformi.
Cita un esempio per tutti, “le donne iraniane difensori dei diritti umani e femministe sono state attaccate a mezzo di una sinistra campagna progettata per inondare i loro accounts sui social media con migliaia di falsi followers. Si ritiene che questi eserciti di bot siano stati messi su per intimidirle e screditarle, e così bloccare qualsiasi genuino impegno per i diritti sulle loro piattaforme“.
Sono molti e sempre più efficaci gli strumenti messi in campo per la sorveglianza digitale, “e lo vediamo accadere a livello transnazionale. [..] I recenti problemi con lo spyware Pegasus, ampiamente riportati dai difensori dei diritti umani in Giordania come in El Salvador, restituiscono il senso di come diversi strumenti vengano scambiati tra i Governi, che lo stanno acquistando dalle stesse società“, segnala FLD.
Ancora una questione emerge con forza dall’analisi dei dati più recenti, la questione di genere.
In Africa e nelle Americhe i diritti delle donne figurano tra i cinque settori più a rischio lo scorso anno, e in Asia non c’è stato campo d’azione più insicuro con i riverberi della violenta repressione dei diritti delle donne afghane che hanno investito i Paesi vicini, soprattutto Pakistan e Iran.
Erano di donne il 17% dei nomi su quell’interminabile lista di morte 2022, e in generale gli attacchi riservati alle donne difensori dei diritti umani hanno presentato i contorni della violenza di genere.
Significativi squilibri si sono registrati nelle modalità di attacco rispetto a quelli scagliati contro le loro controparti maschili: le donne “scomode” sono state molte più volte vittime di stupri, campagne denigratorie, minacce famigliari e infrazioni in casa.
E “a livello globale, coloro che lavorano per difendere i diritti delle donne e le stesse donne che lavorano in tutti i settori dei diritti umani sono bersagliate in modo sproporzionato da arresti e detenzioni, azioni legali e minacce di morte“, conferma De Roure.
Nonostante questo, le donne difensori dei diritti umani non hanno arretrato di un passo. Hanno continuato a battersi contro le violazioni dei diritti delle comunità e dei diritti del lavoro in Messico, Ecuador e Cambogia. E hanno guidato mobilitazioni e denunce contro i regimi più oppressivi in Iran, in Sudan, e nel Myanmar post-golpe dove, ad esempio, per rappresaglia alla loro leadership nel Movimento per la disobbedienza civile, sono state attaccate con tattiche discriminatorie tra cui l’umiliazione pubblica e gli abusi verbali e sessuali.
È fondamentale comprendere, rimarca De Roure, che “gli autori di abusi dei diritti umani in tutto il mondo hanno costantemente preso di mira i diritti delle donne e della comunità LGBTQI, non per caso ma per come traccia comune che condividono. L’emergere di regimi antidemocratici ha un costo elevato per quei gruppi di difensori dei diritti umani e per gli stessi diritti umani“.
Insomma, è caccia ai difensori dei diritti umani. Ovunque. Front Line Defenders, ancora nelle parole di Sarah de Roure, attribuisce un chiaro significato a tanta ostinata persecuzione: “in molti modi, il fatto che i difensori dei diritti umani siano attaccati in forme diverse evidenzia quanto possa essere importante ed efficace il loro lavoro, tanto efficace che stanno cercando di fermarlo“.
Guarda ai tanti movimenti di protesta emersi lo scorso anno, alla capacità dei difensori di sostenere risposte collettive alle sfide globali, De Roure. “Nonostante l’assalto ai diritti umani e allo stato di diritto a livello globale, nel 2022 la tenacia dei difensori ha consentito la nostra resilienza collettiva“, considera.
E se le chiediamo di quali scenari si aprono per il futuro, avverte: “gli attacchi diffusi ai difensori dei diritti umani in tutto il mondo sono un indicatore che le cose non vanno bene per nessuno. Molte organizzazioni stanno denunciando le battute d’arresto per la democrazia e la riduzione dello spazio pubblico in cui i diritti possono fiorire. Se coloro che lavorano per promuovere tutti i diritti vengono attaccati a causa del loro lavoro, questa è una minaccia per tutti“.
Ma c’è fiducia e speranza, rassicura, nel cambiamento che i difensori dei diritti umani stanno guidando. “Nonostante il fatto che ci siano legislazioni più restrittive, che i difensori dei diritti umani siano uccisi, minacciati, molestati online, subiscano attacchi fisici, ogni giorno un nuovo difensore dei diritti umani inizia a lavorare. Ricordo che quando Berta Caceres fu uccisa le organizzazioni che lavoravano con lei inventarono una canzone che faceva ‘Berta non è morta, Berta è diventata un seme. Io sono Berta“, è così che De Roure sceglie di chiudere la nostra intervista.
Josuè Aruna, che difende “la casa di tutte le specie” in Repubblica Democratica del Congo
Josuè Aruna è nato in Repubblica Democratica del Congo (RDC), nella regione del Kivu. Nel primo Paese africano per omicidi di difensori dei diritti umani nel 2022, lui difende quella che chiama “la casa di tutte le specie“.
Non poteva restare a guardare, racconta a Voci Globali, quando guerre e conflitti armati nella regione hanno iniziato a colpire foreste e specie rare con lo sfruttamento e il commercio illegale, e l’assenza dell’autorità statale ha incentivato le compagnie minerarie a violare i diritti fondamentali delle comunità locali, soprattutto delle popolazioni indigene.
Oggi che è presidente della Société Civile Environmentale et Agro-rurale du Congo e direttore esecutivo della Congo Basin Conservation Society, vive sotto tiro. Per ogni denuncia di una violazione dei diritti umani nel settore ambientale, specialmente nella regione del Kivu, gli arrivano contro attacchi, intimidazioni, aggressioni. È una costante.
“Provengono da persone non identificate, gruppi armati nazionali e stranieri, politici e militari coinvolti in queste violazioni dei diritti umani e ambientali, compagnie minerarie e loro collaboratori, e alcuni membri della comunità locale legati agli interessi economici dei nostri persecutori“, spiega.
Sono già troppi i momenti di terrore vissuti dalla sua famiglia a causa del suo lavoro. Ce ne descrive uno, il peggiore: “è stato quando degli uomini armati sono venuti a casa mia per uccidermi e hanno violentato mia moglie che era incinta di sei mesi“. Da allora è costretto a vivere separato dalla sua famiglia, “e questo ha un costo finanziario, oltre che morale, educativo, culturale importante. Il costo di questa vita mi pesa e non ho alcun aiuto, eppure il lavoro che facciamo è a beneficio del Paese intero e dell’umanità“, dice rammaricato d’esser abbandonato dallo Stato e dalla comunità internazionale.
La RDC non è un Paese per i difensori dei diritti umani, ripete. “Oggi essere un difensore dei diritti umani e dell’ambiente in RDC significa essere una persona che non ha valore per la società, un uomo o una donna la cui sicurezza non è garantita e la cui protezione non è evidente. Sei qualcuno da uccidere perché sei d’intralcio ai profitti che in troppi traggono dalla distruzione della natura e della biodiversità, e può succedere in qualunque momento“.
E non basta la legge per la protezione dei difensori dei diritti umani se poi non è applicata e non esiste alcun meccanismo di supporto e accompagnamento per i difensori e le loro famiglie, osserva l’attivista ambientale. Non basta se la giustizia contro i criminali ambientali è debole.
Impunità, corruzione, gruppi armati che scorrazzano per il Paese, soprattutto lungo la parte orientale. Il contesto è quel che è, e tutto questo, sostiene, rafforza lo sfruttamento e commercio illegale delle risorse naturali, con l’occupazione delle aree minerarie e agricole da parte delle milizie armate nazionali e degli eserciti stranieri che rimane il mezzo di attacco più potente a tutti i livelli, anche a livello politico.
Perciò, incalza, “lo spazio per la libertà d’espressione per chi denuncia la situazione diminuisce […] la voce dei difensori dei diritti umani è smorzata dalla paura. Non sappiamo più chi sta con i gruppi armati e i politici influenti coinvolti nelle violazioni dei diritti umani e dell’ambiente, e chi no“.
Peggio, aggiunge, “spesso subiamo pressioni anche da parte dello stesso Governo, come accade attualmente con la vendita dei blocchi di petrolio in cui diciamo no ai combustibili fossili in aree fragili della RDC, come le zone protette e le torbiere“.
Per il futuro, Aruna ci lascia con il timore “che i difensori dei diritti umani taceranno, perché sembrano non avere più diritto alla vita, alla sicurezza per sé e le proprie famiglie“. Ma anche con un obiettivo, tra gli altri: “portare la comunità internazionale e africana a riconoscere il ruolo chiave svolto dai difensori dei diritti umani e dell’ambiente, garantendo loro uno specifico status di protezione di fronte alle minacce attuali e future. Il lavoro che svolgiamo è d’interesse locale, regionale, nazionale e globale“.
“Abbandonare la lotta significherebbe permettere a coloro che non rispettano i diritti degli altri, in particolare delle persone vulnerabili nelle zone rurali, di continuare il loro lavoro di distruzione delle natura, e le conseguenze ricadrebbero su tutti noi. Abbiamo solo un Pianeta e abbiamo il diritto e il dovere di difenderlo e proteggerlo“, conclude.
Yirley Judith Velasco Garrido, una donna difensore dei diritti umani delle donne in Colombia
La Colombia è il posto più pericoloso al mondo se sei un difensore dei diritti umani, 186 omicidi documentati e verificati solo lo scorso anno. È lì che vive e lavora Yirley Judith Velasco Garrido. È una donna difensore dei diritti umani delle donne, e non è accaduto per caso.
“Quando avevo 14 anni sono stata vittima di violenza sessuale. I miei stupratori erano le UAC, le Forze unite di autodifesa della Colombia, paramilitari. È successo durante l’incursione a El Salado Bolivar dove abitavo, uno dei più grandi massacri che questo Paese abbia conosciuto. Quel giorno mi hanno uccisa, ma solo quel giorno. Ora sono viva e lotto. Da quel bisogno di denunciare, di parlare, di rivendicare i diritti delle donne, soprattutto di noi donne vittime di violenza sessuale in un conflitto armato, è iniziato il mio cammino“, racconta a Voci Globali.
Ventitré anni dopo, cresce la figlia di quello stupro e dirige l’Asociacion Mujeres Sembrando Vita, che supporta le donne vittime di violenza di genere. “Difendiamo la vita, difendiamo l’integrità fisica, e difendiamo anche la salute mentale“, spiega.
Per questo suo impegno, da quattro anni è costretta a vivere in regime di sicurezza insieme alla sua famiglia. La Corte interamericana dei diritti umani le riconosce misure cautelari perché troppe sono le minacce di morte da parte di gruppi armati più o meno riconosciuti che l’hanno raggiunta, e “il Governo colombiano non ha fatto nulla per proteggermi“.
È dritta e senza sconti la sua denuncia, “essere un difensore dei diritti umani in un Paese come la Colombia, soprattutto essere una donna e un difensore dei diritti umani, è avere la morte più vicina di quanto tu possa immaginare. Ci attaccano, stigmatizzano, violentano. Cercano di ucciderci, di costruire montature giudiziarie fino a che non finiscono per sbatterci in galera. Attaccano le nostre famiglie. Questo è ciò che viviamo di giorno in giorno“.
Occuparsi dei diritti delle donne in Colombia è un atto di resistenza, ci dice. Contro “l’ingiustizia che si vive in questo Paese dove ogni giorno ci sono sempre più casi di violenze, femminicidi, stupri, intolleranze. E nessuno fa niente, anzi, per quello che noi osiamo fare rischiamo di essere ammazzati“.
Velasco non ha più paura per sé, “ho perso così tanto che ho perso anche la paura” è il frame del nostro incontro. Quello che ha, invece, è una grande preoccupazione per il domani del suo Paese.
“Qui si sopravvive da soli. Il Governo colombiano è corrotto, indolente ed escludente. È il Governo stesso che ci violenta con il suo silenzio, la sua mancanza di opportunità e di impegno. In Colombia non esistono le necessarie misure per garantire la sicurezza di nessuno, il conflitto in questo Paese non è mai finito. È cambiato il modo in cui è eseguito, ma c’è ancora una guerra, forse anche più forte. Le autorità municipali del mio territorio non fanno nulla per consolidare la sicurezza, nel villaggio dove vivo ogni giorno qualcuno viene ammazzato, soprattutto giovani. È una situazione a cui non si dà la dovuta attenzione“, accusa.
Insiste, “le persone spesso vedono in noi difensori dei diritti la soluzione ai loro problemi. Perché facciamo quello che dovrebbe fare lo Stato, cerchiamo soluzioni e soprattutto ascoltiamo la gente. Noi andiamo dove il Governo non va. Le persone credono in noi perché gli offriamo la fiducia che è andata persa nei confronti del Governo. [..] Se il Governo non fa nulla per fermare la violenza contro i difensori o almeno per garantire protezione a noi e alle nostre famiglie, quello che vedo per il futuro è che molti di noi abbandoneranno la barca, e questo sarebbe un duro colpo per la comunità“.
Intanto, finisce a restituirci tutto il significato del suo lavoro, “mi sento ancora abbastanza forte per continuare a camminare e lottare per i diritti e la vita“.