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In Bosnia-Erzegovina si riaccendono pericolose micce esplosive

Nella complessa architettura istituzionale e statale bosniaca, frutto degli accordi di Dayton del 1995 e della guerra tragica nel cuore dei Balcani, il concetto di convivenza pacifica è assai fragile.

Non è un caso che negli ultimi mesi si è tornati a parlare di passi concreti verso la secessione della Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina (o Republika Srpska) con tutte le possibili conseguenze quali, appunto, la disgregazione di questo Paese in cui l’etno-nazionalismo sembra l’unica regola per tenere uniti – in modo molto fragile – bosniaci (o bosgnacchi), croati e serbi.

Se alle recenti tensioni interne si aggiunge anche lo scenario di guerra esploso in Ucraina, con l’avanzata della Russia di Putin a riconquistare un suo “impero” nei territori dell’Est, allora il quadro di instabilità che ne esce è davvero preoccupante.

Il 25 febbraio, giorno seguente all’inizio dell’invasione ucraina, il presidente della Macedonia del Nord ha affermato: “Se [la Russia] conquista l’Ucraina, il punto più vulnerabile dei Balcani occidentali è Banja Luka [capitale della Repubblica Serba della Bosnia-Erzegovina]”.

Sull stessa scia anche i commenti di Sonja Biserko, presidente del Comitato di Helsinki per i diritti umani in Serbia:

Vi è il rischio, latente ormai da tempo, che la Russia faccia precipitare i Balcani nel caos. Mosca ormai da anni sostiene Dodik [membro serbo della Presidenza della Bosnia Erzegovina], soprattutto in termini di sicurezza. Dodik non sarebbe mai riuscito a svolgere un ruolo così incisivo sulla scena politica se non fosse stato appoggiato da Belgrado, e soprattutto da Mosca… Parallelamente allo scoppio della crisi ucraina era scoppiata anche una crisi nei Balcani occidentali. Milorad Dodik aveva portato la Bosnia Erzegovina ad un passo dalla dissoluzione prima che i diplomatici statunitensi ed europei decidessero di reagire… È chiaro che le azioni intraprese da Dodik negli ultimi anni sono state appoggiate da Belgrado, ma anche, e soprattutto da Mosca. Così la Russia ha aperto due fronti, uno in Ucraina e l’altro nei Balcani occidentali, ovviamente focalizzandosi maggiormente sull’Ucraina.

Netta l’affermazione di Dušanka Majkić, membro della Camera dei popoli del partito al potere nella Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina: “Giusto per ricordarvi: nel marzo 2021 la Russia ha affermato che reagirà in caso di ulteriori passi avanti da parte bosniaca verso l’adesione alla Nato”.

Cosa sta accadendo, quindi, in Bosnia-Erzegovina e per quale motivo si fa strada lo spettro della secessione della componente serba? Occorre innanzitutto ricordare che lo Stato come lo conosciamo oggi e che gode del riconoscimento della comunità internazionale è il risultato degli accordi di Dayton del 1995, che misero fine alla guerra balcanica. L’intesa ha dato vita a un’architettura istituzionale ben poco centralizzata e nella quale la ripartizione del potere è rigorosamente etnica tra bosniaci, croati, serbo-bosniaci.

Lo Stato esiste in quanto somma di due entità ben distinte e autonome, con un territorio e funzioni istituzionali proprie. La Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina, a maggioranza serba, comprende il 49% dello Stato e la Federazione di Bosnia-Erzegovina si estende sul 51% del territorio con popolazione croato-bosniaca e organizzata in modo decentrato, con 10 cantoni al suo interno. La presidenza del Paese, nella quale si rispecchia la centralità statale, è organizzata in modo collegiale con un serbo, un croato e un bosniaco musulmano ad alternarsi nella carica. Ognuna delle due entità, inoltre, è dotata di un suo Parlamento. Ci sono poi la Camera dei rappresentanti e la Camera dei popoli a garantire la versione statale e centralizzata dell’istituzione parlamentare.

In questa cornice si inserisce una ormai latente crisi bosniaca resa più palese negli ultimi mesi grazie alle azioni e ai toni nazionalistici di Dodik nella Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina. Nello specifico, il cima di tensione si è riacceso l’estate scorsa, quando Valentin Inzko, a capo dell’Ufficio dell’Alto rappresentante della Bosnia ha imposto modifiche al diritto penale del Paese, introducendo pene detentive fino a cinque anni per i negazionisti del genocidio di Srebrenica e per qualsiasi glorificazione dei criminali di guerra, compresa la denominazione di strade o istituzioni pubbliche dopo di loro.

Inzko ha stabilito pene detentive per chiunque “condoni pubblicamente, neghi, banalizzi grossolanamente o cerchi di giustificare” il genocidio o i crimini di guerra commessi durante il conflitto armato in Bosnia del 1992-95. Tale mossa, però, ha subito incontrato l’ostilità e il rifiuto del leader serbo-bosniaco Milorad Dodik. Sia i serbi bosniaci che la Serbia hanno sempre definito il massacro un crimine, rifiutandosi di riconoscere che si trattava di genocidio e accusando l’Occidente di avere posizioni prevenute e denigratorie nei confronti della loro popolazione.

Da lì, è stata un’escalation all’insegna della retorica etno-nazionalistica più profonda, seguita anche da atti legislativi che hanno allarmato USA ed Europa. I legislatori dell’Assemblea nazionale della Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina hanno votato a febbraio scorso per istituire un Consiglio superiore della magistratura e del pubblico ministero dell’entità, sfidando apertamente l’autorità a livello statale.

Il disegno di legge propone di “annullare l’istituzione incostituzionale dell’Alto Consiglio giudiziario e della Procura della Bosnia-Erzegovina [a livello statale]” e di consentire al nuovo organismo di nominare i propri giudici e pubblici ministeri.

La proposta dovrà essere sottoposta a 60 giorni di discussione prima dell’adozione definitiva dai legislatori della Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina. Il voto per l’approvazione del progetto di legge fa seguito a una precedente decisione di fine 2021 volta a sostenere iniziative per “ritirare l’entità serba dalle forze armate, dalla magistratura e dal sistema fiscale della Bosnia ed Erzegovina”.

Le sfide ai poteri dello Stato sono state criticate e valutate come passi verso la secessione. Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni a Dodik, valutando le sue mosse come una minaccia alla stabilità, alla sovranità e all’integrità territoriale della Bosnia e agli accordi di pace di Dayton, con potenziale diffusione di una instabilità regionale.

Dall’Europa, il 24 febbraio sono state aggiunte 500 unità nell’ambito dell’EUFOR, la missione di manenimento della pace dell’UE. Una mossa precauzionale, decisa in una data che, per una drammatica casualità, ha coinciso con l’attacco russo in Ucraina.

Nel mezzo di queste iniziative, c’è stata la celebrazione del 9 gennaio 2022, quando la Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina ha tenuto una cerimonia in occasione del 30° anniversario della sua fondazione, ricordando la nascita della Repubblica Serba nel 1992 con un atto che fu dichiarato incostituzionale e al quale ha fatto seguito il dramma della pulizia etnica.

Hamza Karcic, professore presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Sarajevo, ha sottolineato che la ricorrenza di quest’anno, non solo ha infranto quanto stabilito dalla Corte costituzionale della Bosnia (secondo la quale è contro la legge celebrare la festa), offendendo le identità bosniaca e croata. Il clima celebrativo è giunto a pochi giorni dalle sanzioni USA a indicare la sfida ormai aperta e ostinata di Dodik all’Occidente.

Parata per la festa dell’indipendenza della Republika Sprska – Wikimedia Commons

La polveriera dei Balcani e, nello specifico, della Bosnia-Erzegovina è sull’orlo dell’esplosione? Più volte Giorgio Fruscione, Research Fellow sui Balcani a ISPI, ha ricordato che l’attuale crisi non è un fulmine a ciel sereno, piuttosto risiede in anni di contrapposte politiche nazionaliste che gli accordi di Dayton non hanno fatto altro che incoraggiare.

I principali partiti che rappresentano le tre entità etniche bosniache più che promuovere un’identità unitaria al di sopra di ogni nazionalismo hanno operato in funzione di una chiara difesa della propria etnia. Una visione unitaria della Bosnia-Erzegovina, secondo l’esperto, è stata supportata quasi esclusivamente dai partiti bosniaci che danno rappresentanza alla metà della popolazione, mentre i serbo-bosniaci hanno sempre sfidato la possibilità di assimilazione.

Dodik e il suo partito, in questa cornice, hanno utilizzato lo strumento della retorica nazionalista per mantenere la loro posizione di potere più che per avviare realmente una secessione. È quello che probabilmente accadrà in questo nuovo e pericoloso stallo provocato dalle ambizioni etno-nazionalistiche della Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina.

L’analista Fruscione, in un’intervista rilasciata a Voci Globali, ha detto che il trend secessionista dei serbo-bosniaci è in crescita costante, portato avanti per tappe fino alla situazione attuale, in cui i passi compiuti sono pesanti visto che c’è il rischio di ricostituire un esercito serbo-bosniaco. Le minacce hanno una vita lunga, almeno 10 anni, e sono solo aumentate di intensità. C’è da preoccuparsi e quanto possono davvero concretizzarsi la secessione o una guerra in Bosnia?

Fruscione ha sottolineato che “c‘è da preoccuparsi e tanto. Una guerra vera e propria, però, non ci sarà perché nessuno se la può permettere e perché non è politicamente vantaggiosa. Per Dodik giova molto di più minacciare la guerra piuttosto che scatenare un vero conflitto. D’altronde, dal lato dei bosniaci e dei croati è vantaggioso ergersi a difensori del popolo contro la minaccia della guerra”. 

I tentativi di disegni di legge di Dodik, a detta dell’esperto, vogliono raggiungere più che una secessione vera e propria una paralisi istituzionale in virtù della quale i pochi organi e le poche competenze centralizzate dello Stato sarà difficile che tornino a Sarajevo e molto probabilmente rimarranno in mano ai serbo-bosniaci. E questa, per assurdo, è una situazione anche peggiore di una guerra. Si potrebbe aprire, infatti, uno scenario tipo Transnistria, ovvero uno Stato nello Stato che non sarà riconosciuto da nessuno e che andrà per la sua strada.

La geopolitica dei Balcani ha insegnato che lo status quo è difficile da risolvere e quindi la paralisi istituzionale provocata da Dodik non verrà scardinata facilmente e questa può essere già una vittoria per la Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina.

Incontro Dodik-Putin nel 2018 – Foto da Wikimedia Commons

D’altra parte, occorre anche considerare che gli accordi di Dayton, sebbene difettino di una garanzia della pace stabile e duratura nel tempo, non sono poi così osteggiati dai serbo-bosniaci. Fa notare Fruscione, infatti, che “i più forti difensori dell’impostazione di Dayton sono i serbi di Bosnia perché hanno ricevuto metà del territorio e hanno ottenuto un’entità che si comporta come uno Stato dello Stato, molto centralizzata e che gli permette di eleggere da sola i propri rappresentati serbi, mentre dall’altro lato i bosniaci vogliono una riforma più centralista per contrastare la deriva centrifuga della Republika Sprska. Poi ci sono i croati, che da anni insistono sulla necessità di creare una terza entità e livellare ancora di più il sistema statale centralizzato bosniaco”.

Un intreccio di rivendicazioni e valutazioni tessono la complessa situazione della Bosnia-Erzegovina. Per questo, dinanzi ai toni minacciosi che invocano la secessione dei serbo-bosniaci, si sono accesi gli allarmi dell’Occidente. A maggior ragione oggi, nel pieno di una guerra guidata da rivendicazioni nazionalistiche proprio in Europa.

La Bosnia sarà la nuova Ucraina? Per Fruscione no, “perché la Russia ha altri problemi e a Mosca non importa poi così tanto della Republika Serba in termini di interessi geopolitici e di sicurezza, quelli che invece l’hanno spinta all’invasione ucraina”.

Vero è che Dodik ha un rapporto privilegiato con Mosca e le visite ufficiali di Putin a Banja Luka sono state di più che a Belgrado. Mantenere un rapporto privilegiato con la Russia, il partner forte, è strategico per la Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina. Come suggerito da Dimitar Bechev, visiting scholar presso Carnegie Europe, la Russia probabilmente sosterrà Milorad Dodik, alimenterà i legami con il presidente serbo Aleksandar Vučić e sosterrà politici e partiti anti-occidentali in altre parti della regione. In breve, Mosca condurrà la sua guerra politica come prima.

E tutto questo, ovviamente, non è di buon auspicio per la pace e l’integrità delle popolazioni dei Balcani. La Serbia, per esempio, ha finora assunto un atteggiamento ambiguo, votando la risoluzione ONU sull’aggressione della Russia in Ucraina, ma non partecipando alle sanzioni internazionali contro Mosca. I legami tra i due Paesi sono stretti, sia a livello economico, per la dipendenza energetica, sia militare che strategico: Mosca appoggia Belgrado contro il riconoscimento del Kosovo.

In Bosnia-Ezergovina, non c’è solo Dodik a tenere ben saldi i suoi legami con la Russia. Anche il leader croato-bosniaco Dragan Čović non ha condannato l’invasione in Ucraina, mentre sta lottando per istituzionalizzare una terza entità a maggioranza croato-bosniaca appoggiata dalla Croazia.

Gli ingredienti per nuovi venti di tensione nei Balcani ci sono tutti.

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