Uiguri: terroristi internazionali o minoranza perseguitata?
Un dilemma complesso. In apparenza, difficile da risolvere.
Sotto il profilo dei diritti umani, infatti, quel che accade nella blindatissima Cina quasi sempre resta in Cina.
Le autorità di Pechino sono poco avvezze a condividere le informazioni sulle politiche messe in atto nei confronti dei propri cittadini, soprattutto con riguardo a questioni di sicurezza nazionale. Al contempo, tendono a veicolare verso l’esterno rappresentazioni alterate della realtà. La censura fa il resto.
Non a caso, il Governo cinese ha per lungo tempo negato con forza l’esistenza dei famigerati “campi di internamento” nello Xinjiang, dove – ad oggi – sono detenuti in modo del tutto arbitrario oltre 1 milione di Uiguri e migliaia di membri di altre minoranze islamiche.
“Non ne ho mai sentito parlare”, affermava nel 2018 il ministro degli Esteri Wang Yi, nonostante il Comitato ONU per l’eliminazione della discriminazione razziale avesse definito la regione una “no rights zone“ e il Parlamento Europeo avesse qualificato la situazione come “la più grande incarcerazione di massa di una minoranza etnica nell’era contemporanea”.
Il tenore delle dichiarazioni istituzionali è cominciato a cambiare nel 2019, a seguito della pubblicazione del New York Times di 400 pagine di documenti riservati del PCC, dalle quali emergeva l’impietoso giro di vite della repressione contro gli Uiguri (e non solo).
Nella versione ufficiale cinese i “campi di prigionia” sono allora diventati “centri di formazione professionale”. La sorveglianza massiva, le restrizioni alla libertà personale e di religione invece misure legittime non pregiudicanti i diritti umani degli Uiguri. Il tutto è stato collocato nell’ampio contesto della lotta al terrorismo.
Secondo un rapporto governativo, le strutture in questione sarebbero state, invero, create per perseguire due scopi principali. Da un lato, insegnare agli “ospiti” il mandarino, il diritto cinese e varie competenze tecniche. Dall’altro, impedire agli stessi di essere influenzati da malsane idee separatiste così da “stroncare sul nascere ogni sorta di attività terroristica”, suscettibile di minare “la felicità, la stabilità, l’armonia del popolo cinese”.
La nuova narrazione non riesce però a sortire gli effetti sperati. Il vaso di Pandora è ormai aperto.
Le voci sugli abusi perpetrati – dentro e fuori i campi di reclusione – ai danni degli Uiguri si susseguono, trasformandosi progressivamente in vere e proprie denunce da parte di Stati, ONG, istituiti di ricerca, esperti indipendenti delle Nazioni Unite.
Ma facciamo un passo indietro per ricostruire dal prologo la fitta trama di una storia caratterizzata da soprusi, violenze, oppressione.
Gli Uiguri sono un gruppo etnico turcofono di religione islamica composto da circa 11 milioni di individui. Da secoli, risiedono in prevalenza nello Xinjiang, situato nel nord-ovest della Cina. Il vasto territorio ha conosciuto l’indipendenza per due brevi periodi quando – nel 1933 prima e nel 1944 dopo – venne proclamata la Repubblica islamica turca del Turkestan orientale (TIRET). Riportato sotto la sovranità cinese nel 1949, acquisisce 6 anni dopo – sebbene solo sulla carta – lo status di regione autonoma proprio per la presenza nell’area della minoranza uigura, che all’epoca rappresentava il 75% della popolazione complessiva.
La fase contemporanea della “questione uigura” origina dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e dalla conseguente istituzione delle Repubbliche indipendenti di Kazakistan, Kirghizistan e Tajikistan. La nascita di questi nuovi Stati determinò, infatti, il risveglio dei sentimenti scissionisti degli Uiguri e la riscoperta di un ideale “panturco”.
Nel corso degli anni ’90, lo Xinjiang divenne teatro di scontri, atti di guerriglia e rivendicazioni secessioniste. L’inesperienza cinese nella gestione del separatismo portò da subito il PCC a usare l’arma della repressione.
I noti accadimenti dell’11 settembre 2001 offrirono poi a Pechino l’occasione di assimilare tout court il dissenso uiguro nella cornice del terrorismo internazionale. Posizione rafforzata dalla decisione del Consiglio di Sicurezza ONU di inserire il Movimento islamico del Turkestan orientale (ETIM) – organizzazione fondata da jihadisti uiguri – nella lista dei gruppi terroristici internazionali.
Venne quindi avviata una “campagna senza limiti”, il cui vero obiettivo era distruggere ogni espressione dell’identità culturale, linguistica, religiosa uigura.
Del resto, la Cina era già stata in grado di istituzionalizzare la teoria dei “tre mali” (terrorismo, separatismo, estremismo religioso) all’interno dell’ Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), ponendo la “questione uigura” tra le principali minacce terroristiche alla sicurezza regionale dell’Asia Centrale.
Ora, è vero che le autorità cinesi attribuiscono alla nozione di “terrorismo” un significato diverso, più ampio -volendo anche più controverso – rispetto a quello riconosciuto dall’Occidente. La stessa Legge antiterrorismo del 2016 arriva a criminalizzare le aspirazioni separatiste, l’integralismo religioso, la libertà di espressione, opinione, riunione, nella misura in cui il loro esercizio è percepito come minante la legittimità del PPC.
Ma è altrettanto vero che il contrasto al terrorismo non può essere, in nessun caso, né pretesto né giustificazione per il mancato rispetto dei diritti fondamentali degli individui. Per quanto Pechino possa insistere nell’affermare che le proprie politiche di sicurezza non costituiscano una violazione delle norme internazionali sui diritti umani, la lista dei “crimini” commessi contro gli Uiguri è, al contrario, lunga, articolata, ignobile.
Distruzione dell’eredità cultura e religiosa
Dopo le violente proteste del 2009 a Urumqi, capitale dello Xinjiang, la Cina ha compiuto un notevole sforzo per dissolvere ogni traccia della cultura uigura. Anzitutto, ha vietato l’istruzione privata in lingua uigura e l’uso di nomi musulmani. Ha lanciato una campagna contro il cibo halal, rendendolo indisponibile nella regione. È intervenuta a limitare in modo sostanzialmente discriminatorio la libertà di religione. I siti di pellegrinaggio sono stati chiusi. I viaggi a La Mecca, i riti tradizionali di matrimonio e sepoltura, il digiuno durante il Ramadan vietati.
Sorveglianza domiciliare e massiva
Il programma “Pair Up and Become Family“ (in cinese: 结对认亲) – avviato nel 2017 – è stato presentato da Pechino in termini di “affettuoso scambio culturale”. In buona sostanza, per almeno 5 giorni ogni 2 mesi, i funzionari pubblici selezionati sono tenuti ad abitare nelle case delle famiglie uigure dello Xinjiang. Hanno, inoltre, l’obbligo di far loro visita nei giorni festivi e in occasione di eventi speciali, quali: matrimoni, funerali, compleanni. Ad avviso del CFR (Council on Foreign Relations) – organizzazione indipendente di stanza a New York – si tratterebbe dell’ennesima misura di controllo governativo sulla minoranza, che già subisce un perenne monitoraggio grazie a sistemi tecnologici all’avanguardia. Città e villaggi della regione sono invasi da: telecamere per il riconoscimento facciale; posti di blocco per il check di documenti, la raccolta di foto e di impronte digitali. Mentre i dati biometrici vengono assemblati e archiviati attraverso il programma “Physicals for All”.
Detenzione di massa
A partire dal 2017, in base ai dati dell’Australian Strategic Policy Institute (ASPI), la Cina avrebbe costruito ovvero ampliato 380 “campi di internamento” nello Xinjiang, destinati alla “rieducazione” degli Uiguri e di altri gruppi religiosi.
“Li chiamano campi di istruzione e formazione. Ma sono peggio di una prigione“, dice un ex detenuto a Human Rights Watch. Al loro interno, le autorità cinesi hanno imposto una disciplina di tipo militare finalizzata all’indottrinamento pervasivo. “Ogni mattina, dovevamo partecipare a una cerimonia alzabandiera, cantando strofe di lode per il presidente Xi e il PCC”. “Prima dei pasti bisognava esprimere gratitudine al PCC”. E ancora, “non ci era permesso dire ‘As-salaam alaikum’ (saluto religioso), ma solo “ni hao ma?” [come stai?]. Era obbligatorio parlare in via esclusiva il mandarino. L’uso di parole turche portava a punizioni”.
Non è facile reperire informazioni sulle condizioni di vita all’interno dei campi. Le poche testimonianze di ex reclusi raccontano di: celle sovraffollate, suicidi dopo insostenibili lavaggi del cervello, deprivazione di cibo e sonno, torture, violenze fisiche e psicologiche, stupri.
Separazione familiare
La repressione degli Uiguri ha determinato un ulteriore drammatico risvolto, di solito poco considerato. Centinaia di migliaia di bambini sono stati separati dai genitori, rinchiusi nei “campi di prigionia” o scappati dalla Cina nel tentativo di garantire alle proprie famiglie un futuro migliore all’estero. I minori uiguri sono stati, quindi, sistemati in orfanotrofi statali, lontani dai loro cari, dalla loro lingua di origine e dal proprio contesto culturale.
“Adesso, i miei figli si trovano nelle mani del Governo cinese e non sono sicura se li rivedrò mai più in tutta la mia vita”. Il dolore più grande “è che per loro è come se noi non esistessimo più, come se fossimo morti”. Mihriban Kader e il marito Ablikim Memtinin sono scappati dallo Xinjiang alla volta dell’Italia nel 2016, dopo essere stati perseguitati dalla polizia.
La storia di Mihriban e quella di altri genitori uiguri in esilio è stata raccolta da Amnesty International nel report “Hearts and Lives Broken: The nightmare of Uyghur families separated by repression”, pubblicato il 19 marzo.
Controllo delle nascite
Dalla ricerca condotta, lo scorso anno, da Adrian Zenz – antropologo tedesco, la cui fama mondiale è legata proprio agli studi sugli Uiguri nello Xinjiang – è emerso come il Governo centrale abbia imposto misure draconiane nella regione al fine di sopprimere i tassi di natalità nella comunità uigura e promuovere una più rapida assimilazione alla razza Han.
Donne uigure, fuggite dalla Cina dopo il loro rilascio dai “campi di prigionia”, hanno raccontato alla stampa internazionale di essere state costrette ad abortire o sottoporsi a sterilizzazioni chirurgiche. Molte hanno sostenuto di aver subito, durante la detenzione, la somministrazione di medicinali sconosciuti finalizzati a indurre sanguinamenti irregolari ovvero la perdita di mestruazioni. Infine, altre hanno riportato di essere state forzate a indossare dispositivi intrauterini a scopo contraccettivo.
Lavoro forzato
Secondo l’ASPI, tra il 2017 e il 2019, più di 80.000 Uiguri sono stati trasferiti dallo Xinjiang in diverse zone della Cina per lavorare in fabbrica con orari massacranti e stipendi più bassi dei loro colleghi Han. Sono soggetti a sorveglianza costante. Vivono in dormitori isolati. Hanno una limitata libertà di movimento. Seguono corsi di “rieducazione ideologica” al di fuori dell’orario lavorativo. Non possono partecipare a incontri religiosi. E la minaccia di essere rimandati nei “campi di internamento” incombe costantemente su di loro.
Genocidio
Da ultimo, non certo per importanza, va rilevato che gli Stati Uniti hanno accusato apertamente la Cina di “genocidio”. L’attuale Segretario di Stato Anthony Blinken ha, infatti, confermato le dichiarazioni del suo predecessore Mike Pompeo, secondo cui le politiche di sicurezza attuate nello Xinjiang “costituiscono genocidio”. Nella stessa direzione si sono mossi i Parlamenti di Canada e Paesi Bassi. Il legislatore canadese e quello olandese hanno approvato un emendamento per invitare il Comitato olimpico internazionale a trasferire i Giochi invernali del 2022 – previsti a Pechino – “se il Governo cinese perpetua questo genocidio“.
Di “genocidio” parla anche il Newlines Institute for Strategy and Policy – Think Tank indipendente con sede a Washington – nel report rilasciato il 9 marzo. Esperti in diritto internazionale, studi sul genocidio, politiche etniche cinesi, hanno esaminato pro bono ogni prova disponibile, arrivando alla conclusione che “la Repubblica Popolare cinese è responsabile della violazione di ogni singola norma contenuta nella Convenzione di New York del 1949“.
Non ci sono però sufficienti elementi per affermare con assoluta certezza che gli atti commessi ai danni gli Uiguri possano essere qualificati come “genocidio” in senso giuridico. Servirebbe, infatti, la competenza di un Tribunale – nazionale o internazionale – per accertare che la condotta criminosa perpetrata nei confronti della comunità uigura sia accompagnata dall’intento di distruggere (in tutto o in parte) il gruppo stesso.
In conclusione, le incessanti critiche e la persistente pressione della comunità internazionale tese a far cessare tutte le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang sembrano finora non aver scalfito affatto la Cina, forte del suo potere economico e del suo seggio permanente all’interno del Consiglio di Sicurezza ONU.
Neppure le sanzioni di Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Unione Europea hanno intaccato la ferrea volontà delle autorità cinesi di proseguire nella repressione degli Uiguri. Pechino nega, ridimensiona, ribadisce la liceità delle sue politiche di sicurezza e va avanti per la propria strada.