Io sono al secondo mandato. Essere il presidente degli Stati Uniti è un privilegio straordinario e non potrei immaginare un lavoro più onorevole. Mi piace il mio lavoro, ma come stabilito dalla Costituzione americana, non posso candidarmi un’altra volta. Potrei anche vincere se lo facessi perché penso di essere un buon leader, ma non lo farò. La legge è la legge e nessuno è al di sopra di essa, nemmeno il presidente. Capi di Stato quali Nelson Mandela e George Washington lasciarono un’eredità duratura non solo per le loro competenze, ma anche perché erano inclini a trasferire il potere pacificamente. Nessuno dovrebbe essere presidente a vita.
Fu il discorso del 44° presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, il 28 luglio 2015 presso la sede dell’Unione africana ad Addis Abeba (Etiopia), criticando chi, nel continente, prova a restare al potere per decenni, anche riformando la Carta Costituzionale mentre governa.
Che l’Africa subsahariana ospiti i leader più longevi del mondo è cosa universalmente riconosciuta. Per la maggior parte dei presidenti africani, infatti, si è ormai consolidata la regola del “ci sono e ci resterò”: una volta insediati al potere, cercano di rimanerci il più a lungo possibile. Alcuni leader postcoloniali aspirano addirittura alla “presidenza a vita” e l’incredibile è che molti riescono ad immortalizzare il potere nonostante i limiti di mandato sanciti dalle Costituzioni nazionali.
Secondo una recente analisi del Centro di studi strategici dell’Africa (Africa Center for Strategic Studies), l’attitudine ad utilizzare la Costituzione per favorire una leadership radicata si è diffusa in tutto il continente, stimolando corruzione, instabilità politica, fratture sociali e stagnazione economica.
I dati dell’analisi mostrano tendenze preoccupanti: sono 8 i Paesi africani dove il presidente non ha alcun limite di mandato e il tentativo di restare al potere modificando la Carta Costituzionale è andato a buon fine in 14 Stati. La non applicazione della Costituzione nei fatti e la conseguente mancanza di limiti effettivi di mandato hanno portato il continente ad avere 10 leader che hanno governato per oltre 20 anni e due dinastie familiari che sono al potere da più di mezzo secolo.
Tuttavia, in alcuni Stati la tendenza da parte di certi leader a soggiogare la scena politica del proprio Paese con lo scopo di consolidare delle vere e proprie dinastie e degli imperi economici personali a scapito della popolazione locale, potrebbe invertirsi grazie alla continua pressione da parte di gruppi della società civile e di blocchi regionali.
È il caso della Guinea, dove il tentativo di candidarsi per un terzo mandato proponendo la riforma della Costituzione da parte dell’attuale presidente Alpha Condé ha provocato violenti scontri tra gruppi di opposizione, forze dell’ordine e sostenitori del Governo.
Alpha Condé e il terzo mandato
Per molti anni docente di scienze politiche all’Università di Parigi, Condé è da sempre un personaggio ben noto della scena politica guineana. Dagli anni ’60 si è duramente impegnato nell’opposizione ai primi regimi dittatoriali del Paese (instaurati prima da Ahmed Sékou Touré dal 1958 ai primi anni ’80, poi da Lansana Conté dal 1992 al 2008), spesso rischiando la galera e l’esilio.
Dall’inizio degli anni 90, Condé assunse la leadership del partito RPG (Raggruppamento del popolo guineano) e si candidò più volte alla presidenza senza successo. La fortuna bussò finalmente alla sua porta nel 2010 quando per la prima volta dopo più di 50 anni si svolsero elezioni “libere e trasparenti” in Guinea: ne uscì vincitore diventando il primo capo di Stato democraticamente eletto nel Paese. Fu rieletto per un secondo mandato nel 2015.
Sotto i due mandati di Condé durati 10 anni, il Paese è piombato in una crisi economica senza precedenti, facendo svanire ogni prospettiva di sviluppo. Nonostante il continuo incremento del PIL negli ultimi anni, quasi la metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà.
I debiti esteri, nonché l’insopprimibile corruzione, hanno raggiunto livelli impressionanti. La questione dell’occupazione giovanile è una sfida colossale e il piano di sviluppo avviato ha avuto l’unico impatto di peggiorare la condizione già precaria del Paese, costringendo molti giovani a scegliere di emigrare verso l’Europa, anche a costo della vita. Le élite diventano sempre più ricche, mentre la maggioranza della popolazione si trova ad affrontare le conseguenze degli imprevisti aumenti dei prezzi dei beni di prima necessità causati dall’inflazione.
La presidenza di Condé ha inoltre sollevato gravi tensioni etniche dal momento che il presidente, accusato di arricchire i membri della propria etnia, appartiene al gruppo Malinké che rappresenta il 35% della popolazione nazionale. In termini di infrastrutture, i bisogni della popolazione rimangono considerevoli: le carenze nella fornitura di acqua, elettricità, alloggi, scuole, ospedali e strade sono i grandi problemi del Paese.
Non ci sono più strade percorribili a causa della totale assenza di manutenzione. Il Governo non si è mai preoccupato di conservarle. Vent’anni fa, ci volevano 3 ore di macchina per arrivare a Kindia da Conakry. Ora ci vogliono 2 giorni
Così racconta a Voci Globali Fodé Camara, cittadino guineano che vive quotidianamente le carenze strutturali del Paese.
Trascurando ogni disagio creato durante la sua presidenza, Alpha Condé ha deciso di ricandidarsi aggirando, tramite un referendum, l’articolo 27 della Costituzione allora in vigore per cui il presidente sarebbe stato rieleggibile solo una volta. Partecipando alle elezioni presidenziali del prossimo 18 ottobre 2020, Condé si unisce ufficialmente alla larga cerchia di presidenti africani che riformano la Carta Costituzionale per mantenersi al potere.
Scontri sociali e violenza
L’ammissione del referendum costituzionale e la ricandidatura di Condé alle elezioni presidenziali – definita da molti “illegale e incomprensibile” – ha da subito provocato una lunga serie di manifestazioni organizzate dalla popolazione civile e dai principali partiti politici di opposizione riunitisi in una coalizione.
Regolarmente represse dal regime, ormai diventato autoritario e sanguinario, le dimostrazioni sono iniziate, in forma più o meno pacifica, a partire da metà ottobre 2019. Tuttavia, dopo qualche mese si sono trasformate in veri e propri bagni di sangue. La gravità delle violenze ha più volte indotto il Governo a schierare unità dell’esercito nei punti più sensibili del Paese, gran parte dei quali individuati nei quartieri considerati roccaforti dell’opposizione.
Violenti scontri sono scoppiati in tutta Conakry (in particolare nei quartieri Wanindara, Hamdallaye, Coza, Sofonia, Ansoumania, Cimenterie e Simbaya) tra manifestanti anti-referendum e forze di sicurezza. I dimostranti hanno bruciato pneumatici, costruito barricate nelle strade, attaccato i seggi elettorali e lanciato pietre contro le forze di sicurezza che a loro volta hanno affrontato le proteste popolari con brutale violenza spruzzando gas lacrimogeni e sparando proiettili causando decine di morti e feriti, inclusi donne e bambini.
Non studiamo più. Ormai sono 4 mesi che non andiamo a scuola. Le continue manifestazioni contro il Governo ce lo impediscono. Ora a causa dell’emergenza COVID-19, tornare sui banchi di scuola risulta ancora più difficile
Dichiara Kabinet Diakité, studente universitario che ci confida il proprio rammarico per l’interruzione delle lezioni.
La violenza è stata feroce anche a N’Zérékoré dove le controversie elettorali hanno riacceso tensioni intercomunitarie ed etniche di lunga data. Più di 30 persone sono state uccise (picchiate a morte, bruciate vive o attaccate con i machete) e numerosi edifici e case sono stati distrutti e saccheggiati. Le forze di sicurezza hanno arrestato membri del Fronte nazionale per la difesa della Costituzione (FNDC), alcuni dei quali sono stati detenuti illegalmente in campi militari dove hanno subito maltrattamenti e sofferto la fame. Inoltre, molte donne sono state aggredite da cittadini armati. La violenza anti-Governo si è estesa anche alle province di Mamou, Labé, Kankan e Télimélé.
In molti casi, le forze di sicurezza dispiegate per garantire la sicurezza delle urne non hanno fatto abbastanza per prevenire le uccisioni e la distruzione diffusa di proprietà sia private che pubbliche. Pertanto, l’adozione di misure volte a garantire il rispetto non solo dei diritti umani, ma anche dei diritti alla protesta e alla partecipazione politica risulta totalmente disattesa.
La violenza degli scontri ha provocato forti reazioni internazionali: l’ONU, la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (CEDEAO), gli Stati Uniti, l’Unione Europea e la Francia chiedono alle parti di dialogare per evitare un’eventuale escalation della situazione. In tal senso, è stata organizzata una missione di solidarietà congiunta (alla quale partecipano la CEDEAO, l’Unione africana e le Nazioni Unite) il cui obiettivo è tenere consultazioni con i principali attori della società civile e promuovere elezioni credibili e libere nel Paese.
Quanto alle tensioni etniche, l’ONU mette in guardia contro l’incitamento all’odio etnico durante le campagne presidenziali. le Nazioni Unite invitano i politici, in particolare i candidati alle prossime elezioni, ad astenersi dall’invocare affiliazioni etniche e dall’usare linguaggi provocatori. L’ONU sollecita inoltre al non ricorso allo stupro etnico come strumento per intimidire o punire i propri oppositori politici.
Dal canto suo, il leader della più ampia formazione all’opposizione Cellou Dalein Diallo, oltre a invocare elezioni giuste e trasparenti, accusa l’attuale presidente di aver diviso la popolazione guineana.
La nostra nazione si trova in un ciclo di violenza di Stato che ci attanaglia da un decennio. La strumentalizzazione delle differenze etniche e i crimini che hanno caratterizzato l’attuale regime costituiscono un vero ostacolo all’unità nazionale. Condé ci aveva promesso coesione sociale, ma la Guinea non è mai stata così divisa
È stata la dichiarazione di Diallo nel corso di una recente intervista.
Ad ogni modo, per chi vincerà le prossime elezioni presidenziali non sarà facile amministrare. La Guinea vive una perenne precarietà politica ed economica, anche perché soffre di povertà cronica, malgrado sia un Paese ricco di minerali.
A perderci saranno i giovani (in Guinea l’età media è di 19 anni e circa il 70% della popolazione ha meno di 35 anni) che, di fronte a un presidente determinato a non lasciare il potere e uno Stato sull’orlo di una guerra civile, dovranno rinunciare ad ogni prospettiva di un futuro diverso.