Lo Yemen è un Paese fiaccato da 5 anni di guerra civile. La sua popolazione si trova in una delle condizioni di massima fragilità al mondo per insicurezza alimentare, malnutrizione, inadeguatezza delle strutture e dei servizi sanitari, esposizione a malattie contagiose (colera, dengue). E ora sta affrontando anche la terribile sfida del Covid-19.
Gli aiuti umanitari forniti dalle agenzie dell’ONU e dalle ONG in tale situazione sono imprescindibili per la sopravvivenza di più di 13 milioni di yemeniti. Aiuti destinati, infatti, alla soddisfazione di bisogni primari (cibo, acqua pulita, beni non alimentari, medicinali, presidi sanitari fissi e mobili). Eppure permangono ancora molti ostacoli, in particolare nel nord del Paese, al lavoro degli operatori umanitari. Ostacoli che impediscono o rallentano l’implementazione dei progetti e l’accesso alle popolazioni più vulnerabili.
Da marzo in poi, con l’introduzione delle misure miranti a contrastare la diffusione del Covid-19 (chiusura di aeroporti, porti, frontiere, restrizione della libertà di movimento tra regioni, imposizione del coprifuoco in alcune di esse), tali ostacoli sono divenuti in molti casi insormontabili. A Marib la linea del fronte in continuo spostamento, aumenta il numero di sfollati che cercano sicurezza allontanandosi dalle zone sempre più estese degli scontri. Nel primo trimestre 2020 ci sono stati ben 500 civili uccisi o feriti a causa dei combattimenti, un terzo dei quali bambini, e altri 60.000 civili hanno dovuto lasciare le loro case aggiungendosi agli 800.000 sfollati già presenti nella zona.
Se lo scenario del Paese è oggi così problematico, non è difficile immaginare come vi si inserisca la situazione dei migranti. Si tratta infatti di un Paese chiave nella rotta migratoria via mare (Golfo di Aden) tra gli Stati dell’Africa orientale e quelli del Golfo. A causa della pandemia la mobilità dei migranti ha subìto un calo per la maggiore sorveglianza attivata dalle autorità nei luoghi di imbarco e di sbarco utilizzati dai trafficanti. Ciononostante nei primi tre mesi del 2020 circa 28.000 migranti hanno raggiunto lo Yemen: 94% etiopi, 6% somali; 72% uomini, 18% donne, 10% minori (molti dei quali non accompagnati); 64% si sono imbarcati in Somalia, 36% a Gibuti; 96% diretti in Arabia Saudita, 4% in Yemen. Un netto calo degli arrivi si è registrato nel mese di aprile, durante il quale solo 1.725 migranti sono sbarcati nello Yemen, tutti provenienti dalla Somalia, nessuno più da Gibuti.
Si tratta in genere di giovani poco scolarizzati, adescati da reti di trafficanti in prevalenza nelle zone rurali dove pochi hanno accesso all’istruzione. Purtroppo non basta lo sforzo informativo messo in atto dalle agenzie umanitarie a dissuaderli dall’azzardo di un viaggio che li espone a rischi di ogni genere: dal naufragio alla violenza fisica e psicologica, dal rapimento alla morte.
La presenza dell’OIM, l’Organizzazione dell’ONU per le Migrazioni, dell’UNHCR e di organizzazioni internazionali come DRC e Intersos, ha lo scopo di offrire a migranti e rifugiati assistenza umanitaria (che oggi include anche misure sanitarie anti Covid-19), protezione dei diritti, della sicurezza e della dignità, opportunità per rimpatri volontari offerte soprattutto alle persone più vulnerabili.
Il 10 aprile segna la data dell’annuncio ufficiale del primo decesso da Covid-19. Un rifugiato somalo, quello identificato come “paziente zero”. Ed è a questa notizia che hanno cominciato a verificarsi episodi, sempre crescenti, di razzismo, pestaggi e arresti indiscriminati nei confronti dei migranti africani presenti nel Paese. Una situazione di grave violazione dei diritti umani, denunciata anche dalle Nazioni Unite. Una vera e propria “caccia all’untore”, che rischia di diffondersi a danno degli ultimi tra gli ultimi e di mettere in secondo piano le vere priorità in un momento di emergenza sanitaria come questo.
Non va dimenticato che parliamo di un Paese con un sistema sanitario al di sotto di ogni standard, che già prima dell’arrivo del coronavirus stava combattendo da anni, a fatica, l’epidemia di colera e la carestia. Mentre i mass media locali alimentano la retorica xenofoba che collega i migranti alla diffusione del virus, l’azione delle agenzie umanitarie – fondata sull’assunto che la pandemia non è attribuibile ad alcun particolare gruppo umano – promuove progetti inclusivi per la prevenzione e la cura rivolti, naturalmente, sia ai migranti sia agli yemeniti più vulnerabili, come gli sfollati interni e le comunità che li ospitano. Parliamo di acqua pulita, latrine, strutture per lavarsi, presidi per l’igiene personale, monitoraggio dei luoghi a rischio come porti e snodi nelle rotte di migrazione, istruzione ed equipaggiamento del personale del servizio sanitario yemenita.
In questa fase di crisi mondiale è naturale che la situazione economica del Paese, basata sul petrolio e sulle rimesse degli emigrati, già disastrata da 5 anni di guerra civile, sia destinata a peggiorare ulteriormente. Se ne cominciano a vedere gli effetti nel prezzo del petrolio, precipitato per il calo della domanda. Le rimesse si sono drasticamente ridotte e mancano le risorse per importare beni essenziali dall’estero. In questa situazione gli esperti ritengono che se la pandemia cominciasse a diffondersi a ritmo costante nel Paese, si espanderebbe in tempi più rapidi e avrebbe conseguenze più letali che in altri Stati proprio a causa di povertà, malnutrizione, impossibilità di seguire le norme igieniche per la carente assistenza sanitaria e l’alto numero di sfollati interni (3,6 milioni) accolti in campi affollati.
Nello Yemen ormai da troppo tempo è in gioco la sopravvivenza di un intero popolo, privato dei diritti più elementari. Tutte le parti coinvolte nel conflitto hanno la responsabilità di lavorare per un efficace processo di pace, senza la quale non c’è speranza di futuro per questo sfortunato Paese.