30 pesos (0,004 euro): questo numero, apparentemente insignificante, ha scatenato una delle rivolte più violente degli ultimi decenni in Cile. Dal 18 ottobre il Paese del Sud America è letteralmente sotto assedio. Le manifestazioni di piazza esplose per protestare contro l’aumento di 30 pesos del biglietto della metropolitana non si sono più placate da quel giorno di metà ottobre.
Sebbene fossero iniziate pacificamente, le proteste sono degenerate in episodi di guerriglia urbana, incendi, distruzioni, saccheggi, scontri con le forze dell’ordine, arresti, inasprimento delle norme di sicurezza, morti.
Il 25 ottobre, giorno simbolo di questo movimento popolare contro il Governo, una folla di oltre un milione di persone ha invaso la principale piazza di Santiago. Attualmente, scioperi e raduni in strada continuano senza sosta, mentre il presidente cileno Sebastián Piñera non riesce ancora a trovare il compromesso per placare il sentimento di rabbia della popolazione. La nazione è in guerra, secondo le parole della massima carica dello Stato e il bilancio, finora, è drammatico proprio come quello di un conflitto.
Dopo oltre 50 giorni di manifestazioni, 23 persone sono morte e più di 2.300 sono rimaste ferite, soprattutto a causa dell’eccessiva forza utilizzata dalla polizia e dall’esercito in strada per reprimere i rivoltosi. Almeno 1.400 persone sono state colpite da armi da fuoco e 200 hanno subito gravi traumi agli occhi. Sono 7.000 i cittadini fermati e messi in arresto durante le manifestazioni. In questo scenario, l’allarme contro la violazione sistematica dei diritti umani e di libertà è stato già lanciato. Ci sarebbero 1.100 denunce di maltrattamenti e torture e 70 casi di violenza sessuale che coinvolgono direttamente i pubblici ufficiali.
Il Paese rischia il collasso. Sono stati stimati 3 miliardi di dollari di danni a proprietà e trasporti pubblici. Circa 600 imprese e negozi sono stati saccheggiati durante le manifestazioni e molte scuole sono rimaste chiuse per giorni. In questo contesto caotico e di instabilità, la valuta nazionale ha fatto registrare il suo minimo storico nei confronti del dollaro, crollando del 4%.
Una rabbia trascinante, dunque, sta sconvolgendo il Cile. La massiccia presenza dell’esercito in strada per volontà del presidente, il coprifuoco, l’introduzione delle severe leggi di emergenza in nome della sicurezza hanno riportato alla luce scene da dittatura.
I tentativi di Piñera di riprendere in mano la situazione e di ricucire il rapporto con la popolazione sono stati vani. E, probabilmente, lo saranno ancora vista la sua intransigenza nel voler mantenere il potere e la fermezza con la quale sta gestendo la repressione delle proteste. A nulla sono valse la decisione di revocare l’aumento del biglietto metro, la promessa di nuove leggi su salario minimo e pensioni, gli ultimi proclami – di qualche giorno fa – su nuove leggi contro la corruzione e a favore di poveri e diritti umani. Soprattutto,non ha evitato le proteste l’annuncio di una nuova Costituzione. Un punto cruciale quest’ultimo, intorno al quale ruota la vera motivazione dello scoppio di proteste così violente.
Il 15 novembre, i legislatori hanno concordato di indire un referendum per sostituire il testo della legge fondamentale che ancora risale all’era della dittatura, una delle principali richieste dei manifestanti.
Nell’aprile 2020, i cileni decideranno se redigere o meno una nuova Costituzione e se gli attuali legislatori debbano far parte della commissione per la redazione. Un secondo voto nell’ottobre 2020 consentirà agli elettori di decidere chi farà parte della commissione. Il progetto finale sarà sottoposto a votazione.
La prospettiva di una nuovo testo costituzionale è l’unica in grado di riscattare la frustrazione della popolazione. In effetti, molti degli squilibri socioeconomici e politici del Cile odierno sono radicati nella Costituzione promulgata nel 1980, anno in cui Pinochet riuscì ad ancorare saldamente il modello di libero mercato nel sistema politico cileno.
Quando nel 1990 venne concordata la transizione pacifica verso la democrazia, l’accordo tra Pinochet e l’opposizione prevedeva proprio il mantenimento della Costituzione, con modifiche blande e decise tra i partiti al potere. Il gap della partecipazione democratica, quindi, unito alla mancata traduzione strutturale e a lungo termine del successo economico del Cile in uno stato assistenziale distributivo ha portato alla rabbia di oggi.
Ecco allora, che il numero 30, legato ai pesos di aumento del biglietto della metropolitana, assume tutto un altro significato. Lo slogan delle manifestazioni, infatti, è diventato “30 pesos, 30 anni”, a scandire il tempo in cui la politica cilena ha trascurato l’uguaglianza sociale e distributiva in nome del capitalismo.
I numeri aiutano a capire. L’impostazione liberista inaugurata da Pinochet e mai abbandonata ha dato negli anni risultati importanti. Il Cile si è distinto per ricchezza e prosperità in tutta la regione latina americana. Povertà dimezzata e inflazione sotto controllo sembravano aver realizzato un vero miracolo. L’economia oggi è nove volte più grande di quanto non fosse nel 1990. Una storia di successo, così veniva raccontata la parabola cilena. La lettura, però, era rimasta in superficie.
Quello che emerge dalle proteste di oggi, infatti, è la parte oscura della storia del dinamismo neoliberista cileno. Lo Stato ha raggiunto tale livello di crescita innanzitutto privatizzando molti servizi fondamentali, come l’accesso all’acqua, l’istruzione, l’assistenza sanitaria, il sistema pensionistico, creando profonde disparità economiche e diminuendo i diritti dei lavoratori.
È la disuguaglianza il grande tema delle proteste. Il Cile è uno dei Paesi più diseguali del mondo, con una distribuzione del reddito meno equa rispetto ai vicini Perù, Bolivia e Argentina.
Circa 18 milioni di persone, infatti, faticano ad arrivare a fine mese e metà della popolazione non guadagna più di 550 euro al mese. I medicinali hanno raggiunto prezzi esorbitanti, controllati da un cartello di industriali che nessun Governo ha saputo – o voluto – contrastare. Il 27% della ricchezza nazionale è in mano all’1% dei cittadini. Inoltre, la maggior parte dei pensionati non riesce a sopravvivere; il livello di indebitamento delle famiglie è alto e in 5 anni i prezzi sono cresciuti oltre il 30%.
I lavoratori con contratti temporanei, introdotti da Pinochet, continuano a non avere diritto a garanzie come l’indennità di licenziamento, la tutela del datore di lavoro per infortunio e l’organizzazione sindacale.
Da queste radici è cresciuta la rabbia esplosa in piazza il 18 ottobre. La vera sfida per il Cile è cancellare, una volta per tutte, i lasciti del regime di Pinochet. La democrazia liberale, se vuole davvero essere terreno di prosperità, non può fare a meno di diritti, uguaglianza, partecipazione popolare.