Oscar aveva sette anni, mentre Tony ne aveva solo due.
Due bambini come tanti altri, che crescevano in una Hong Kong che era allora la cugina ricca della Cina, terra di promesse a cavallo tra Oriente e Occidente. Era il 1 luglio 1997 e in città si faceva un gran parlare, ma Oscar e Tony erano troppo piccoli per interessarsi alle cose dei grandi – entrambi ignari di quanto quell’evento avrebbe invece segnato il loro futuro per sempre.
Le televisioni annunciavano che quello era il giorno in cui Hong Kong veniva passata – come una palla – dalle mani dell’Inghilterra alle mani della Cina dopo 156 anni di dominazione britannica.
“Ora sarà il popolo di Hong Kong a governare Hong Kong. Questa è la promessa. E questo è il suo inevitabile destino”, ribadiva il governatore britannico Chris Patten.
‘One country, two systems’, ripetevano tutti come dei dischi rotti.
Hong Kong tornava nella morsa della Cina, ma indossando le vesti di una regione amministrativa speciale che manteneva il suo sistema capitalistico e le sue caratteristiche democratiche.
Ventidue anni dopo, Voci Globali ha incontrato Oscar e Tony: sono cresciuti, e con loro Hong Kong – purtroppo non più terra delle promesse, ma terra delle promesse mai mantenute.
Oscar vive all’estero, e quando dice a sua madre di volersi ritrasferire ad Hong Kong lei gli risponde “forse non è il momento di tornare a casa“.
Tony, invece, è rimasto ad Hong Kong e lavora in un hotel le cui stanze sono pressoché vuote da mesi. Quando finisce il suo turno, non fa quello che un ragazzo di venticinque anni farebbe normalmente: quello che fa è indossare una tuta nera e unirsi alle proteste di altre migliaia di giovani, davanti ad una polizia che abusa del suo potere.
‘One country, two systems’, si era detto, eppure sia Tony che Oscar si ricordano tutti i momenti in cui la Cina si è intromessa nelle faccende di Hong Kong come un ospite non gradito che sfonda la porta principale.
Tutto cominciò forse nel 2003, quando un misterioso virus che colpiva l’apparato respiratorio iniziò a circolare dalla provincia di Guangdong fino ad arrivare ad Hong Kong. Il Governo cinese cercò di tenere nascosta la notizia agli occhi del mondo – una censura che non fece altro che incoraggiare la diffusione dell’epidemia invece di prevenirla. Quel misterioso virus era la SARS: fu Hong Kong a subire il maggior numero di decessi (299 morti), e di questo, qui non si sono mai dimenticati.
Oscar e Tony erano due studenti quando nel 2012 la Cina decise di introdurre nelle scuole di Hong Kong il ‘programma di educazione morale e nazionale’, un sistema educativo con lo scopo di inculcare i valori cinesi nelle menti dei giovani di Hong Kong, che erano però menti cresciute con valori occidentali, libere e indipendenti. I giovani rifiutarono il programma, percependolo come un lavaggio di cervelli autorizzato in quanto evitava di menzionare eventi storici come il massacro di Piazza Tiananmen, in perfetto stile cinese.
Ricordano poi la rivoluzione degli ombrelli del 2014, in cui per 79 giorni migliaia di persone si riversarono nelle strade richiedendo un suffragio universale che gli fu promesso e mai dato: la Cina aveva infatti elaborato un sistema politico in cui sarebbe stato il Governo di Pechino stesso a decidere chi si sarebbe candidato per governare Hong Kong. Dopo 79 giorni di protesta pacifica la polizia sgombrò le strade, gli ombrelli si chiusero e i manifestanti non ottennero niente, in un fiasco che la gente ricorda ancora con l’amaro in bocca.
E poi fu il turno della libertà di parola, un valore caro agli abitanti di Hong Kong.
C’era al tempo un piccolo negozio a Causeway Bay, schiacciato tra una farmacia e una bottega di lingerie, un negozio a prima vista innocuo – non fosse che sui suoi scaffali si vendevano verità scomode. Era la libreria Mighty Current, che commerciava libri proibiti dal Governo cinese: biografie sulla vita di Mao, storie sulla rivoluzione culturale, saggi anti-comunisti. Ma dal 2015 la saracinesca è abbassata, e i cinque editori legati a questa libreria sono misteriosamente spariti nel nulla. Ancora una volta, in perfetto stile cinese.
Il malcontento riguarda anche il contesto economico, perché oggi Hong Kong ha smesso di essere la cugina ricca della famiglia.
Negli anni la Cina è cresciuta a dismisura, e se nel 1997 il 27% delle transazioni commerciali da e per la mainland passava per Hong Kong, oggi questa percentuale si è ridotta al 3%. Intanto, il potere finanziario di Shangai aumenta.
Una serie di decisioni sbagliate portarono ad una crisi del settore immobiliare, con i prezzi delle case che hanno ormai raggiunto livelli mai visti.
Un tempo anche i venditori ambulanti potevano permettersi di comprare una casa ad Hong Kong. Adesso è dura persino per medici ed avvocati, ricorda Oscar.
Molti si sono trovati costretti a vivere nelle cosiddette “gabbie”, cubicoli di rete metallica di soli due metri quadrati dove si riesce a malapena a stare in piedi. Gli abitanti di Hong Kong si sono così ritrovati a vivere in una condizione di claustrofobia fisica e psicologica in cui si ha sempre più paura del futuro. Oscar stesso racconta di come durante la sua adolescenza si svegliava ogni mattina colpendo il soffitto della sua stanza con la testa, perché dormiva in un letto a castello schiacciato in un piccolo appartamento di 38 metri quadrati insieme ad altri quattro membri della sua famiglia.
I giovani di Hong Kong sono nati portando un peso sulle spalle. Sin da bambini i nostri genitori ci ripetono di studiare duramente e fare molti soldi. Altrimenti non potrai mai permetterti una casa, ci dicono. E così crescono con questo senso di continua competizione in cui tutto ciò che conta è entrare in una buona università e fare carriera. Non a caso si sono registrati frequenti casi di suicidi e depressione proprio tra i giovani.
Ed è così che questa Hong Kong sempre più fragile è arrivata zoppicando al 9 giugno 2019, il giorno in cui sono iniziate le proteste contro una legge sull’estradizione che consentirebbe a Pechino di intromettersi ancora una volta, autorizzandola implicitamente a mettere le mani sui dissidenti politici fuggiti ad Hong Kong e riportarli nella Cina continentale. Rapimenti come quello dei cinque editori della libreria di Causeway Bay finirebbero per essere in un certo modo legalizzati.
Anche questa volta, gli abitanti di Hong Kong hanno lottato come Davide contro Golia, mettendo in piedi una protesta di due milioni di persone che non ha un vero e proprio leader e viene organizzata con messaggi criptati su Telegram e altri forum locali. È un movimento per tutti. È il movimento di chi non può rinunciare alla propria identità, di chi non vuole farsi controllare da un regime autoritario dopo aver sempre vissuto in modo libero e democratico. È il movimento di chi non vuole rinunciare ad essere ciò che è.
Eppure, persone come Tony hanno ben presto dovuto armarsi di caschi gialli, ginocchiere e maschere anti-gas per difendersi da una polizia che arresta, lancia lacrimogeni, rompe denti, acceca persone. Una polizia che a volte si traveste da manifestante solo per seminare ancora più violenza e confondere l’opinione pubblica. Una polizia che rimane a guardare persino quando arriva la mafia cinese armata di mazze per aggredire la gente nelle metropolitane: durante l’attacco alla stazione di Yuen Long lo scorso 21 luglio si sono contati quarantacinque feriti tra cui una donna incinta. E nessun arrestato.
In risposta a questa ondata di violenze gratuite, i manifestanti hanno cambiato tattica. Hanno capito che per il Governo la pressione economica fa più rumore di qualsiasi protesta e difende più di qualsiasi maschera anti-gas. Una pressione economica che è mancata durante la rivoluzione degli ombrelli, ma che non è mancata e non mancherà in questa. I manifestanti hanno quindi occupato centri commerciali e metropolitane, arrivando infine ad occupare l’aeroporto stesso, bloccando il trasporto di persone e merci e facendo perdere milioni di dollari di Hong Kong alle tasche del Governo in un solo giorno. Ad agosto, i manifestanti si sono organizzati su Telegram e hanno prelevato alte somme di contanti dai loro conti bancari per poi cambiare le banconote in dollari americani. In meno di 24 ore, il tasso d’interesse del dollaro di Hong Kong è salito da 1,2 a 1,9.
Siamo pronti a colpire l’economia stessa di Hong Kong, anche se questo significasse rovinare il mercato finanziario e altre industrie. Ormai c’è la sensazione di non avere niente da perdere, e si crede che forse l’autodistruzione sia l’unico modo di rinascere dalle proprie ceneri e ricominciare da zero. Molti membri del Partito Comunista Cinese si servono del sistema finanziario di Hong Kong per mettere al sicuro i loro soldi e trasferire denaro all’estero. La Cina ha ancora bisogno di Hong Kong. E così tra i manifestanti ci si ripete ‘se noi bruciamo, voi brucerete con noi’, racconta Tony.
I manifestanti hanno presentato cinque richieste al Governo. Chiedono che la leader di Hong Kong Carrie Lam si dimetta, che la legge sull’estradizione venga ritirata, che si conducano delle indagini sulla brutalità della polizia e che le persone arrestate finora vengano liberate. Infine, la richiesta più cara di tutte: il suffragio universale. Perché Hong Kong vuole scegliere il suo Governo, e non vuole che sia la Cina a scegliere per lei.
I primi giorni di settembre la legge sull’estradizione è stata cancellata, ma per i manifestanti è solo una battaglia di una guerra che è ancora aperta e ancora da vincere.
Il 1 ottobre, durante le celebrazioni per la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, la polizia ha sparato su uno studente diciottenne accusato di aggressione alle autorità, in un gesto che a molti ha ricordato le scene di Piazza Tiananmen di trent’anni fa.
Sappiamo benissimo che Hong Kong non ce la può fare da sola. Stiamo lottando contro uno dei Paesi più potenti del mondo. Ci serve un intervento esterno da parte di Paesi altrettanto potenti. Ci servono sanzioni e provvedimenti come l’Hong Kong Human Rights and Democracy Act. Solo la comunità internazionale può aiutarci a mettere in ginocchio questo tiranno.
Qualcuno accusa questi due milioni di persone di distruggere la loro città, eppure c’è qualcosa che molto spesso i giornali non raccontano.
Non raccontano di chi si posiziona in prima fila ad affrontare la polizia, formando una sorta di barriera umana per chi rimane più indietro. Pochi parlano di Zio Wong, un uomo di ottantadue anni che si mette tra i manifestanti e la polizia cercando di procurare loro più tempo per scappare.
“Preferisco che la polizia picchi me al posto di tutti quei ragazzi giovani”, dice.
Si sa poco di chi non protesta ma cerca comunque di partecipare, magari dando un passaggio ai manifestanti quando le metropolitane vengono chiuse, o donando soldi per distribuire loro caschi e maschere anti-gas. Nelle strade si vedono persone che tra loro non si conoscono passarsi acqua, cibo, e colliri per dare sollievo agli occhi dai gas. Si vedono negozianti regalare ai ragazzi racchette da tennis per scacciare i lacrimogeni.
Che li si critichi o no, i manifestanti di Hong Kong hanno un senso di civiltà e di appartenenza, un amore per la loro città che li caratterizza in ogni gesto. Quando protestano, si assicurano sempre che qualcuno rimanga a pulire le strade dopo una manifestazione, perché la loro Hong Kong deve essere pulita. Quando occuparono l’aeroporto, si fermarono a scusarsi con i turisti per il disagio creato.
Scusate, dicevano, non volevamo dare problemi a nessuno, ma stiamo lottando per la nostra città. Vi promettiamo che quando tornerete Hong Kong sarà un posto migliore.