Il signor Chung ha l’aspetto di un sudcoreano qualsiasi, il tipico che si intravede di sfuggita tra le strade di Seul e di cui ci si dimentica in fretta. Indossa occhiali spessi, mocassini marroni, e una camicia azzurra che avvolge un corpo fragile. Niente di lui sembra promettere una vita fuori dagli schemi: pare un uomo perfettamente ordinario, oserei dire quasi anonimo.
Solo un occhio molto attento potrebbe notare qualcosa di insolito: il signor Chung ha una paura viscerale per le fotografie. Quando si trova in pubblico, infatti, evita di venire immortalato sullo sfondo di qualsiasi immagine, fosse anche un selfie fatto per caso da un turista: come se lo scatto di una macchina fotografica fosse per lui lo scatto mortale di un grilletto.
E solo un ancora più esperto ascoltatore riuscirebbe poi a distinguere un altro curioso dettaglio: pur parlando coreano, l’accento del signor Chung è leggermente diverso da quello degli altri abitanti della Corea del Sud.
Nessuno potrebbe poi immaginare che Chung non sia il suo vero nome, bensì un appellativo fittizio per nascondere la sua vera identità.
Il signor Chung, infatti, è un disertore nordcoreano fuggito dal regime tre anni fa. E oggi vive a Seul.
La sua storia inizia come iniziano le storie di tanti altri nordcoreani.
Un bambino nato in un piccolo villaggio dove la vita scorreva lenta, il signor Chung crebbe cullato da una convinzione: di essere nato in un Paese privilegiato. Guardò sempre i suoi leader con timorosa devozione, perché la dinastia Kim aveva lottato duramente per donare pace e armonia al popolo nordcoreano, dando vita ad un sistema perfetto. Era grazie alla loro benevolenza se la Corea del Nord non era ridotta come gli altri Paesi stranieri, delle società capitaliste che vivevano in una penosa situazione di guerra e povertà. Era questo che i suoi genitori gli dicevano, era questo che i maestri gli insegnavano a scuola. Era questo che c’era scritto nei libri che leggeva, era questo che vedeva alla televisione. Ed il signor Chung non dubitò mai che potesse trattarsi di una sceneggiatura creata dal suo regime – un pericoloso lavaggio del cervello volto ad avvelenare silenziosamente le menti di un intero popolo sin dai suoi primi anni di vita. Fu dunque motivo di grande orgoglio per lui diventare ufficiale di una delle divisioni dell’esercito nordcoreano: avrebbe dedicato la sua vita al servizio del suo Governo.
Ma più il tempo passava, più il signor Chung si trovava costretto a mentire a sé stesso.
“Durante la carestia degli anni ’90 la gente intorno a me iniziò a morire di fame ogni giorno. Io stesso, che avevo dedicato diciott’anni della mia vita al servizio del regime, mi ritrovai spesso senza niente da mangiare. Eppure finsi di non vedere quello che stava succedendo“, ricorda con amarezza.
Ben presto, però, qualcosa fu più forte della sua devozione: la fame.
“Avevo bisogno di una buona opportunità per racimolare denaro. All’epoca vivevo in un paesino al confine con la Cina, e mi resi conto che era una posizione ottimale. Di lì passavano infatti molti disertori – gente che aveva intenzione di lasciare la Corea del Nord per fuggire altrove. Il confine con la Cina era per loro il primo passo verso il mondo esterno. Alcuni erano nemici del regime, altri erano invece disillusi, disperati, o semplicemente affamati. Avevo trovato la mia occasione: iniziai a lavorare segretamente per un’agenzia illegale che aiutava questi disertori. Dovevo ospitarli a casa mia, proteggerli, e aiutarli a scappare in Cina. Per ognuno di loro prendevo una commissione, e mi resi conto che stavo guadagnando più denaro così che in diciott’anni di servizio. Finalmente la mia famiglia ed io avevamo da mangiare.”
Ma i mesi passavano, e per il signor Chung non fu più solo una questione di soldi.
“Ascoltavo le storie dei disertori che stavano per lasciare il Paese, e mi resi conto di essere come un cieco che lentamente riacquistava la vista per comprendere le falle di un sistema che un tempo credevo perfetto. Mi ero sempre detto che forse non avevamo cibo a sufficienza perché l’80% del nostro territorio era costituito da montagne, perché c’erano poche zone fertili, e perché eravamo colpiti da frequenti periodi di siccità o alluvioni. Ma parlando con i disertori ebbi il coraggio di ammettere la verità a me stesso: il mio popolo era senza cibo perché il Governo non dava ai contadini le strutture necessarie per coltivare: era troppo impegnato a spiare i suoi nemici e produrre armi nucleari, invece di prendersi cura della sua stessa gente che era ridotta pelle e ossa. Non avevamo elettricità per gran parte della giornata. I più disperati arrivavano a mangiare i corpi morti dei loro famigliari per sopravvivere. Senza quell’agenzia illegale per aiutare i disertori, sarei diventato uno di loro. E al Leader tutto questo non sarebbe interessato.”
Quando nel 2016 le agenzie di intelligence nordcoreane iniziarono a sospettare dei suoi collegamenti con i disertori, il signor Chung comprese che era arrivato il momento di scappare a sua volta.
Sua moglie lavorava in polizia, e riuscì a simulare la morte del marito. È per questo che il signor Chung teme così tanto le fotografie: da tre anni in Corea del Nord lo credono morto. Se scoprissero che è ancora in vita la sua famiglia sarebbe in guai molto seri.
Così, il signor Chung si ritrovò a sua volta ad attraversare il confine per raggiungere la Cina: conosceva ormai a memoria tutti i sentieri e riuscì con facilità ad evitare le pattuglie di militari che controllavano la zona.
Ma in Cina c’erano intere truppe di militari cinesi pronti a catturare i disertori nordcoreani per rimandarli indietro, dove il regime li avrebbe puniti mettendoli ai lavori forzati in uno dei gulag nordcoreani.
Con l’aiuto di alcune sue vecchie conoscenze riuscì allora a raggiungere il Laos e successivamente la Thailandia, lo stesso percorso seguito da molti altri fuggitivi prima di lui. In Thailandia, infatti, c’era una base delle Nazioni Unite che accoglieva rifugiati nordcoreani, affiancata dall’ambasciata della Corea del Sud. Quando vi arrivò, il signor Chung venne mandato a Seul.
“Nessuno può immaginare quello che prova un disertore nordcoreano la prima volta che posa gli occhi su Seul. Alla televisione nordcoreana ci veniva sempre mostrato che la Corea del Sud era povera e pericolosa, e poi mi ritrovai davanti questa metropoli ultra moderna e sviluppata. È qualcosa che non si può spiegare.”
Per lui, la questione coreana non è mai stata – e mai sarà – un problema domestico: se dapprima la separazione fu una conseguenza della Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, oggi è divenuta una partita a scacchi tra Russia, Cina, Giappone e Stati Uniti.
E mentre in Corea del Nord le persone subiscono lavaggi del cervello sin dall’infanzia, crescendo senza libertà di parlare o pensare liberamente, in Corea del Sud la gente si ritrova a vivere in una pulsante colonia occidentale, schiava del consumismo e della corsa al denaro, ma con l’apparente libertà di dire e fare ciò che desidera.
Nonostante in Corea del Nord la comunicazione con il mondo esterno sia ancora severamente vietata, ogni tanto la moglie del signor Chung riesce ad utilizzare il segnale telefonico cinese, grazie alla posizione strategica del suo piccolo paesino al confine con la Cina. Grazie a questo piccolo trucco, di tanto in tanto i due hanno la possibilità di comunicare.
“Quando le racconto di come si vive a Seul non mi crede. Le dico che se apro il rubinetto esce sempre l’acqua calda, e che se schiaccio l’interruttore la stanza viene illuminata per quanto tempo desidero. Lei si mette a ridere e mi dice di smettere di scherzare.”
Da un po’ di tempo, il signor Chung sta programmando la fuga della moglie, ancora una volta attraverso il confine con la Cina, fino al Laos e alla Thailandia.
“Voglio che veda quello che c’è fuori dalla Corea del Nord. È tutto quello che al momento mi tiene in vita”, dice con un sorriso, prima di sparire nuovamente nell’affollata metropolitana di Seul in mezzo a tanti altri uomini dall’aria ordinaria come la sua.
Oggi ci sono circa 30.000 disertori nordcoreani in Corea del Sud – uno dei tanti effetti collaterali della divisione della Corea. Spesso invisibili all’occhio dei passanti, sono fantasmi intrappolati tra due diverse realtà: un Paese in cui non possono tornare, e un altro a cui non appartengono veramente.