Sono le otto di mattina, si suda, e sotto un denso e grigio cielo equatoriale un topolino furtivo avanza a piccoli balzi sul piazzale sabbioso dell’aeroporto di Tshikapa. Incrocia sul suo cammino tre giovinastri, i quali, non avendo di meglio da fare, iniziano a prenderlo a calci come una palla da calcio. Nel giro di poco il topolino è stordito, finito, ma non basta, uno dei ragazzi lo prende per la coda e lo sbatte per terra tre volte per assicurarsi che sia morto. I tre “eroi” continuano la loro passeggiata scherzando, leggermente esaltati dalla gloriosa impresa mattutina. Nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), si sa, la vita vale poco, quella di chiunque.
Nella vicina Angola, forse però la vita non vale molto di più, soprattutto quella dei congolesi, spesso vittime di violenti attacchi xenofobi e rimpatri forzati verso il loro Paese d’origine, soprattutto a partire da ottobre dell’anno scorso.
Migliaia di donne sono state vittime di abusi, crudeltà e stupro, uomini mutilati e sottoposti a vere e proprie torture umilianti come la cucitura delle labbra con il filo di ferro come a significare: “non solo ti mandiamo via, ma devi anche startene zitto“. Centinaia di famiglie, spesso ben radicate in Angola, hanno subito azioni punitive contro i propri negozi, le loro case e beni, che sono stati bruciati, vandalizzati o sequestrati. Inoltre, una volta forzatamente rimpatriati in Congo, molti hanno subito violenze, estorsioni e tassazioni illegali anche dalle stesse autorità di confine congolesi.
Le espulsioni dei migranti, molti dei quali regolari, residenti nella provincia di Lunda settentrionale, nel Nord-Est dell’Angola, sono state ordinate dal Governo per risolvere il problema del contrabbando di diamanti verso la RDC. Circa 400.000 persone sono state espulse nel solo mese di ottobre 2018 colpendo intere famiglie che vivevano nel Paese da decenni, investendo regolarmente in aziende locali, comprando terreni, costruendo case e crescendo i propri figli come angolani.
Il Governo di Luanda continua a sostenere che le espulsioni sono state rimpatri volontari, ma le testimonianze raccolte dalle agenzie delle Nazioni Unite e dalle ONG a Kamako, sul lato congolese, raccontano un’altra realtà.
Dopo il grande esodo di ottobre 2018 il processo non si è fermato e dall’inizio dell’anno sono state espulsi altri 20.579 nuclei familiari, 43.352 persone, quasi tutte congolesi. Rispetto al totale l’84% sono migranti, ma 6.300 sono rifugiati e richiedenti asilo, fatto che contravviene la Convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati (1951) e anche quella dell’Unione Africana (1969), entrambe ratificate dal Governo angolano nel 1981.
Il 42% degli espulsi sono bambini e appartengono a nuclei familiari molto vulnerabili. Sei persone su dieci hanno un chiaro bisogno di assistenza umanitaria, principalmente per motivi medici urgenti, a causa delle torture subite, perché minori soli o separati dai propri genitori oppure bambini capofamiglia, responsabili delle loro sorelle e fratelli più piccoli. I bisogni immediati sono soprattutto cibo, qualche spicciolo, un tetto, assistenza medica e un trasporto sicuro per ritornare nelle proprie comunità di origine. [Rapporto di profiling, UNHCR, Luglio 2019 – non disponibile online]
Da sempre, in questa zona di confine fra le provincie del Kasai in Congo e di Lunda, in Angola, ci sono stati rapporti commerciali, legati anche al traffico di diamanti e favoriti da appartenenze etniche comuni e da lingue molto simili. Nel corso degli ultimi decenni però, principalmente per motivi economici e di sicurezza, molti congolesi sono migrati nella zona settentrionale dell’Angola, ricca di diamanti ma che, al contrario della RDC, non è in guerra da oltre 20 anni. Anzi, grazie alla pace iniziata nel 2002, la zona gode di una maggiore stabilità economica e politica e di migliori infrastrutture, servizi, prospettive lavorative, attraendo, quindi, i congolesi alla ricerca di una vita migliore.
Inoltre, bisogna considerare che, a partire dal 2016, nella provincia del Kasai è scoppiata una nuova guerra civile e questo ha contribuito ad accelerare il flusso di congolesi verso l’Angola. La ribellione in Kasai è stata ispirata, e inizialmente capeggiata, da Kamuina Nsapu (“Formica nera” in lingua Luba) anche conosciuto come Jean Pierre Mpandi.
La scintilla del conflitto è stata il mancato riconoscimento da parte del Governo congolese di Kamuina Nsapu come capo tradizionale del gruppo etnico Luba e ha visto la creazione di varie bande armate che hanno attaccato principalmente rappresentanti del governo locale e forze di polizia.
Le milizie, mosse da una forte rabbia generata anche dall’odio interetnico fomentato dal loro leader, hanno portato avanti violenti attacchi verso la popolazione civile con uccisioni e stupri di massa, incendiando interi villaggi e causando la fuga di centinaia di migliaia di persone, molte delle quali, appunto, verso l’Angola.
Ma dietro la superficiale retorica etnica, il motivo fondamentale del conflitto è di tipo economico. Assumere il controllo di questa zona, anche se con la violenza e la paura, implica controllare il ricco traffico di diamanti qui estratti, senza dover renderne conto al Governo centrale di Kinshasa e quindi avere accesso a guadagni immensi.
Mi alzo e faccio due passi per sgranchirmi le gambe, in attesa di un aereo che non partirà, ma anche per riprendermi dalla scena del topolino.
C’è un piccolo giardino con qualche pianta, il sole ha fatto capolino, timido, fra le nuvole spesse dell’immenso cielo equatoriale. Una farfalla si posa su un fiore bianco, è grande ma delicata, gialla e nera, è una papilio constantinus mweruanus, della famiglia delle papilionidae, molto diffuse in questa parte dell’ Africa.
Stupenda, vola via leggera e indisturbata, incurante di nazionalità e confini, diamanti e guerre, denaro e torture, xenophobia e violenza. Dice Muleo, mio compagno di attesa del volo che non prenderemo: “I congolesi in Angola vengono uccisi come le mosche” e penso io: “O come topolini”.
[Tutte le foto sono dell’autore dell’articolo.]