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Isis, in Iraq restano impuniti i crimini verso le donne Yazide

Kine Haji, 37 anni, è scappata con i suoi figli dal suo villaggio vicino a Sinjar dopo che il marito è morto di fronte a loro durante l'attacco delle truppe dell'Isis. Agosto 2014. Foto Flickr/eu_echo

[Traduzione a cura di Stefania Gliedman dall’articolo originale di Rejna Alaaldin pubblicato su OpenDemocracy]

Yazide in protesta davanti alla sede del Parlamento Europeo a Bruxelles l’8 settembre 2014. Foto di Wiktor Dabkowski/DPA/PA Images. Tutti i diritti riservati

In Iraq la guerra contro l’Isis è finita. Eppure le Yazide, che appartengono a una minoranza religiosa perseguitata in un Paese dove la tutela delle donne rimane una problematica farraginosa e mal gestita, stentano ancora a ritrovare il proprio equilibrio sia a livello fisico che psicologico. Per anni donne e bambine sono state vittime di violenze per mano di membri dello Stato Islamico (non si contano i casi di stupro, tortura, schiavitù sessuale e traffico di persone). Si potrebbe discutere a lungo sulle cause di quest’odio, nascoste in un groviglio di fattori religiosi e culturali; esiste comunque una realtà inoppugnabile, ovvero la necessità di un intervento da parte del Governo iracheno, supportato dall’energico patrocinio della comunità internazionale, affinché si affermi finalmente lo Stato di diritto e si prenda atto della situazione delle Yazide, una comunità assediata che, a differenza del resto del mondo, non riesce a dimenticare gli orrori del conflitto.

Il problema in realtà non è affatto semplice. In Iraq le Yazide non solo sono vittime di soprusi in quanto donne, ma vengono perseguitate anche per il loro credo religioso. La tragedia di questa minoranza comincia nell’agosto 2014, con la presa di di Sinjar, piccola città irachena al confine con la Siria. Gli Yazidi vengono massacrati, le loro donne sottoposte a stupri di massa. A quattro anni di distanza, le vittime aspettano ancora che sia fatta giustizia.

A quanto pare, in Iraq lo Stato di diritto non riesce ad avere la meglio sull’inefficace governance democratica. Tuttavia, a differenza di quanto potrebbe sembrare, la soluzione non va cercata solo nel risanamento di carenze strutturali, ma nella messa in atto di provvedimenti specifici e nell’atteggiamento stesso dei legislatori, che ad oggi non sono riusciti a inserire nella Costituzione irachena, o quantomeno nella legislazione nazionale, una normativa che tuteli le donne contro la violenza, allineando così il Paese al resto della comunità internazionale.

Nonostante l’impegno dimostrato dal Governo iracheno in ambito di riforme, non sono in corso al momento indagini sui crimini commessi dall’Isis, né tantomeno procedimenti penali che possano aprire la strada a ricorsi legali da parte delle vittime. Dato che l’attuale legislazione non copre i crimini di guerra, i membri dello Stato Islamico in mano alla giustizia vengono processati unicamente sulla base di leggi antiterrorismo. Ignorate dal proprio Governo, le Yazide hanno dovuto rivolgersi a ONG o altri organi internazionali per ricevere aiuto.

Rifugiati yazidi nel campo Newroz ricevono aiuto dall’International Rescue Committee. Agosto 2014. Foto Flickr/DFID

Ci vorranno anni per rimarginare le ferite fisiche e psicologiche delle torture e violenze sessuali sistematiche usate dall’Isis come tattiche di guerra. Intere comunità sono state distrutte; il ricordo dell’orrore rimarrà impresso nell’inconscio collettivo degli Yazidi per generazioni a venire. Il problema purtroppo non riguarda solo la mancanza di leggi adeguate, ma anche l’inadeguatezza del meccanismo inteso a garantire l’osservanza delle norme. Non si può pensare a costruire un sistema che sostenga e protegga le donne se non esiste un’autorità che le tuteli in modo adeguato.

Come se non bastasse, l’efficacia del sistema giuridico iracheno in materia di crimini contro le donne è seriamente compromessa dalla scarsa preparazione dei giudici, che almeno in questo ambito sono ben lungi dal conformarsi agli standard internazionali. Al momento il Governo sembra non avere né le motivazioni né le risorse per fornire giudici competenti in grado di comprendere la gravità di tali crimini, la legislazione internazionale che li disciplina e gli strumenti a disposizione in materia di diritti umani. In altri termini, saper capire le normative e contestualizzarle, appoggiandosi a una solida conoscenza delle leggi internazionali che tutelano i diritti delle donne, in tempo di pace e di guerra. Soltanto allora lo Stato di diritto potrà essere efficace, permettendo alle Yazide di ottenere giustizia.

Inoltre, affinché le rivendicazioni dei sopravvissuti vengano soddisfatte, c’è bisogno di una giustizia accessibile. Troppi ostacoli continuano a scoraggiare i ricorsi legali da parte delle vittime. Se da un lato sono molteplici le organizzazioni che offrono alle donne supporto medico e psicologico, le consulenze legali rimangono difficili da trovare. Il supporto medico-legale è fondamentale per la raccolta di prove e testimonianze che assicurino i responsabili alla giustizia.

Il Governo deve garantire un coordinamento tra le varie istituzioni coinvolte, nel rispetto delle linee guida internazionali, altrimenti si ricade inevitabilmente in vecchie prassi inefficaci con conseguente spreco di risorse. Al tempo stesso è necessario che le organizzazioni locali vengano istruite su come effettuare le raccolte dati in modo etico e sicuro, soprattutto alla luce delle sensibilità culturali connesse al genocidio degli Yazidi e, in senso più lato, al tema degli abusi sessuali. Al momento la raccolta di prove da parte di organizzazioni locali è scoordinata e avulsa da un contesto normativo specifico, per cui a volte è difficile stabilire se e quali prove siano state raccolte e da chi.

In Iraq serve una revisione delle leggi nazionali e del Codice penale, in cui vanno inclusi i crimini internazionali, ma fino ad ora non ci sono stati segnali di un cambiamento in tale direzione. Visto che l’Iraq non aderisce allo Statuto di Roma della Corte penale internazionale (CPI), la soluzione ideale sarebbe costituire un tribunale internazionale in Iraq, preferibilmente nella regione del Kurdistan (per motivi di stabilità e sicurezza), al fine di perseguire i membri dello Stato Islamico autori di crimini contro l’umanità. L’iniziativa purtroppo è ostacolata dalle complesse politiche del Paese e dalla precarietà dei rapporti tra il Governo regionale curdo e il Governo federale di Baghdad. I responsabili escono impuniti dai procedimenti avviati presso i vari tribunali locali che non hanno alcuna competenza in ambito di crimini contro l’umanità.

Molte di queste donne si sentono abbandonate dalle istituzioni e hanno ormai perso la speranza di ottenere giustizia. Al tempo stesso, a Sinjar non vi è ombra di ricostruzione e per motivi di sicurezza tornarci è impossibile. Lasciatosi alle spalle un conflitto che ha sgretolato il Paese, l’Iraq deve ora ripristinare pace e stabilità, e ricostruire la fiducia tra le varie comunità. Il primo passo verso il conseguimento di questo obiettivo deve essere il riconoscimento dei crimini commessi contro gli Yazidi seguito dall’avvio di un processo di ricostruzione delle loro case. Al fine di ottenere una pace duratura agli Yazidi va inoltre riconosciuta una maggiore rappresentanza politica. Urge anche una presa di posizione della comunità internazionale nei confronti della loro condizione.

Con una Risoluzione del 2017 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato l’istituzione di una squadra di indagine con i compito di raccogliere prove dei crimini commessi dall’Isis. Purtroppo l’attuazione di tale provvedimento si è rivelata estremamente lenta. Il sistema giudiziario iracheno è sostanzialmente difettoso, e molto spesso i responsabili di violenze e abusi sfuggono alla pena grazie a processi approssimativi, condotti senza prove consistenti. L’Iraq deve adottare misure considerevoli a livello costituzionale per garantire la sicurezza delle donne Yazide, e per rendere giustizia alle vittime. In altri termini, il cambiamento deve iniziare tra le mura di casa propria.

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