[Traduzione a cura di Elena Rubechini dall’articolo originale di Laurie Parsons pubblicato su The Conversation]
Negli ultimi tempi l’espressione schiavitù moderna ha assunto particolare importanza. Gli sforzi fatti finora per fronteggiarla si sono concentrati sulla lotta alla criminalità e sull’incarcerazione senza mezzi termini dei soggetti coinvolti. Per affrontare il problema in modo significativo, tuttavia, non basta identificare i colpevoli e liberare le vittime. In questo modo si curano solo i sintomi.
Le situazioni che ci sconvolgono– i lavori forzati, lo sfruttamento minorile, la prigionia – non sono atti perpetrati da stranieri lontani in terre remote, ma fanno parte di un sistema da cui noi occidentali traiamo grandi benefici.
Prendiamo ad esempio la Cambogia. Il Blood Brick Research Project, sul quale io e alcuni colleghi abbiamo recentemente organizzato una mostra fotografica, denuncia la schiavitù per debiti che caratterizza l’industria dei mattoni. Gli impressionanti resoconti visivi della vita quotidiana mostrano adulti e bambini costretti a lavorare in condizioni terribili. Ma evidenziano anche come la schiavitù moderna sia un problema profondamente strutturato e intrappolato in profondità in un sistema di commercio e crescita globali.
Nonostante l’impatto immediato, alla lunga la reazione è quella di catalogare queste immagini e metterle nella scatola con l’etichetta “là fuori”, troppo lontane dalle nostre esperienze di tutti i giorni per potersi immedesimare. In fondo non è passato molto tempo da quando la capitale Phnom Penh era una città fantasma, svuotata con la forza dai Khmer rossi dei suoi due milioni di abitanti e abbandonata a una spaventosa desolazione: vuoto, silenzio e un rapido ritorno allo stato selvaggio.
Eppure oggi la città è in crescita. Quella che un tempo era la tranquilla capitale della colonia francese sta vivendo un boom edilizio finanziato a livello internazionale. Case e uffici spuntano come piante di riso: dal 2000 sono stati registrati 30.000 progetti di costruzione e nel 2018 ne verranno aggiunti altri 16.000.
Questa celebratissima svolta urbana è legata saldamente agli investimenti internazionali di cui il Regno Unito è un contributore importante. Le compagnie britanniche hanno interessi in molti di questi edifici e aiutano a costruirne altri ancora. Inoltre, il Regno Unito importa ogni anno dalla Cambogia beni per più di un miliardo di dollari americani, affermandosi come il partner commerciale più importante in Europa del Paese asiatico. I consumatori britannici, così come quelli di molte altre nazioni occidentali, godono quindi di beni prodotti a basso costo in Paesi di cui non si interessano.
Un circolo vizioso
L’indagine su questi rapporti commerciali è stata a lungo sepolta sotto le buone notizie della crescita urbana in Cambogia. Tuttavia, la lunga ombra degli edifici cambogiani, figlia del benessere e del progresso, nasconde una profonda oscurità. I palazzi sono costruiti con mattoni modellati dagli abitanti più poveri, costretti a lavorare nelle fornaci che alimentano la crescita del Paese. Nessuno sceglie questo lavoro, ma è il lavoro a scegliere i lavoratori sulla base di condizioni sociali.
Quelli che entrano nell’industria dei mattoni sono i contadini più poveri delle regioni più povere della Cambogia. Le loro famiglie hanno sempre avuto poco di tutto. Negli ultimi anni le loro fatiche sono diventate insostenibili a causa della forza congiunta del mercato e del clima, che aumenta la vulnerabilità innescando un circolo vizioso di rischio, prestito e debito.
Innanzitutto, l’avvento incontrollato della microfinanza ha causato il passaggio alla coltivazione a credito che fa indebitare i piccoli proprietari terrieri prima del raccolto nella speranza che un buon raccolto saldi il conto.
In secondo luogo, è anche il cambiamento climatico a sfavorirli. Mentre negli anni passati la scommessa fatta dai piccoli proprietari ha ripagato più volte di quante non l’abbia fatto, oggi i coltivatori sono alla mercé di un’ulteriore ondata di sfortuna. Negli ultimi anni le mutazioni nell’andamento delle piogge in Cambogia hanno devastato l’agricoltura, poiché il ritmo prevedibile delle precipitazioni di inizio e fine stagione ha lasciato il posto a violente alluvioni e siccità. Ogni anno ormai si tratta di farcela, invece che di fare; di gestire in qualsiasi modo il compito di coltivare in un ambiente non più adatto ai vecchi metodi.
I coltivatori provano di tutto, dall’irrigazione alla nuova tecnica di accumulare debiti su debiti. Nonostante gli sforzi però, la fortuna gli è avversa e ogni anno cresce l’esercito dei senzaterra privati dai debiti degli appezzamenti degli avi. Si hanno perciò lavoratori senza radici, disperati e indebitati, estremamente vulnerabili allo sfruttamento sia nelle fornaci da mattoni che in altri modi.
E sta proprio qui il problema. La schiavitù moderna, sotto forma di lavoro minorile e schiavitù per debiti, è tipica dell’industria dei mattoni in Cambogia. Non è una questione di qualche fornace, bensì di tutte. Quasi ogni mattone su cui si posa il boom edilizio del Paese è cotto in fornaci in cui per anni i bambini vengono sfruttati e gli adulti si consumano.
È una questione che non può essere risolta solo in superficie. Ciò che ha permesso alla schiavitù per debiti di diventare così diffusa e normalizzata è il modo in cui si è scaricato sui poveri cambogiani il peso del cambiamento climatico senza prendere provvedimenti per il loro benessere o fornire protezioni contro i capricci del mercato.
Non solo l’Occidente è ampiamente responsabile delle emissioni che stanno portando al cambiamento climatico globale, ma è anche sempre più il beneficiario del suo impatto. Finché ci concederemo di trarre profitti da catene internazionali di produzione, senza prenderci però la responsabilità di chi ci lavora, rimarremo complici di quelle pratiche per cui facciamo finta di sconvolgerci.