È cominciato con una serie di rifiuti questo 2018. È cominciato con tanti no, no e no.
No – ma questa ormai è una vecchia storia – ai migranti che tentano di attraversare il Mediterraneo e di approdare in Italia, in Europa. Possibilmente vivi. No del Governo israeliano ai migranti che già sono sul suo territorio – ma definiti “infiltrati” – e a cui è stato offerto del denaro per tornarsene a casa. Circa 40.000 persone, in massima parte eritrei e sudanesi. Si è detto 3.500 dollari che sono certo di più dei 117 dollari messi insieme dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni per altri rimpatri.
Il problema è che – a parte i soldi – tornare a casa è una grande sconfitta. E non solo per chi deve rifare la strada all’inverso (e chissà dopo quanti anni di cammino, traversate, ricerca di una vita normale, frustrazioni).
Il rimpatrio è una sconfitta per le nostre società che non prevedono lo scambio, la multidimensionalità delle relazioni, i confronti; è una sconfitta per le istituzioni e le forze politiche che sembrano avere una visione corta – se non sono addirittura ciechi – del fenomeno migratorio, vissuto come emergenza e fatalità del momento e non come un percorso e una risposta della Storia.
Dalle guerre, dalla fame, dalla mancanza di opportunità nei propri Paesi si è sempre tentato di fuggire. Lo hanno fatto anche gli europei, come è stato possibile non prevedere un’evoluzione in questo senso? E come è possibile che la risposta a questa che erroneamente si definisce “emergenza” sia soprattutto una: Rifiuto.
Anche se poi accade che singoli individui si mettano di traverso alle decisioni dei loro Governi e facciano sentire che l’umanità è ancora forte e potente. È il caso del gruppo di piloti israeliani che hanno pubblicamente annunciato che non faranno voli per “deportare” i rifugiati. Una decisione che ha messo in difficoltà il piano di “evacuazione”.
Ma nel complesso i no si sono moltiplicati in questi ultimi mesi. E non soltanto quelli di cui la stampa italiana riferisce, ci sono situazioni poco note a chi rimane confinato – nella ricerca o lettura delle notizie – all’area mediterranea ed europea.
Non si sa, per esempio che fine abbiano fatto 9.200 rifugiati rwandesi fermi in Congo-Brazzaville senza documenti e senza certezza di dove verranno spediti e quando. Di situazioni come questa ce ne son tante nel continente africano.
Chissà se qualcuno si sentirebbe più tranquillo sapendo che l’Africa NON si sta spostando in massa in Italia e che l’emigrazione interna è assai più massiccia di quella verso l’Europa. In Africa da sempre si cammina, ci si sposta, del resto se non fosse stato così gli altri continenti non si sarebbero popolati. È stato definito “grande esodo” quello che – a partire da 200.000 anni fa – portò gli esseri umani evoluti dall’Africa verso altre terre.
E oggi è questo continente – non l’Europa – a sopportare il numero più alto di rifugiati al mondo. L’Africa Sub-Sahariana “ospita” più del 26 per cento di rifugiati di tutto il mondo, vale a dire 18 milioni di persone, secondo l’UNHCR. Ci sono campi che scoppiano, come Bidibidi in Uganda o Dadaab in Kenya e ci sono migliaia di persone, milioni, che hanno attraversato più di una frontiera e da anni sono in Paesi lontano dal proprio e non riescono più a tornare.
I rifiuti non sono privi di conseguenze. Mai. Nel 2017, 3.116 persone sono morte o disperse nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, 2.833 al largo della Libia. E in quest’anno da poco iniziato i morti o dispersi sono già 201. Sempre secondo dati forniti dall’OIM.
Si rifiutano le persone, ma si rifiuta anche la realtà, la conoscenza. Si chiudono gli occhi su dati di fatto. Sulle ragioni del fenomeno migratorio – che hanno radici lontane e non sono solo quelle delle inadempienze, incapacità o bellicosità degli africani.
Ma anche su un tema che invece dovrebbe affliggerci e preoccuparci ogni singolo momento, come il cambiamento climatico e le crisi ambientali – dai deserti agli Oceani – che ne derivano. Senza contare che i migranti ambientali aumenteranno di anno in anno. Siccità, alluvioni, ma anche accaparramento di terre e urbanizzazione selvaggia continueranno a provocare esodi di massa. Si calcola che saranno 350 milioni entro i 2050.
Rifiuti ideologici, ma anche reali, refuse. Tra i più terribili la plastica. Tonnellate, tonnellate, tonnellate, che avrebbero bisogno di centinaia d’anni per smaltirsi. Se non si continuasse a produrne a ritmi vertiginosi. Se si va avanti di questo passo entro il 2050 – che data fatidica! – ci saranno in giro sulla terra e negli Oceani 12 miliardi di tonnellate di plastica per un totale di peso 35.000 volte maggiore dell’Empire State Building.
Qualche settimana fa c’è stata l’ennesima alluvione a Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo, decine e decine i morti. Secondo una ONG locale la causa è da attribuire all’enorme quantità di rifiuti plastici che rivestono i letti dei fiumi e bloccano lo scorrimento delle acque. Denunce simili sono arrivate da altre fonti per quanto riguarda episodi analoghi in altri angoli del mondo.
Sì il rifiuto fa danni enormi. Ma può anche significare riscatto, opposizione, lotta agli abusi. Ed è così che vogliamo concludere, sulle strade degli stati americani (ma anche in città italiane), dove migliaia di donne hanno marciato in occasione del primo anniversario di Donald Trump.
Trump, esempio di rifiuti e negazionismo (dagli immigrati all’emergenza ambientale, tanto per restare in tema con il nostro discorso).
No al potere travestito da democrazia che opprime, no al neo-liberismo che vuol dire solo sfruttamento e arricchimento, no alla distruzione dell’ambiente, no alla violenza degli uomini sulle donne, no alle violenze di qualunque genere, no all’ignoranza e ai fascismi che ci stanno circondando.
Sono questi i nostri rifiuti, sono questi i nostri no.