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Kenya, il risultato ingannevole delle presidenziali 2017

[Traduzione a cura di Benedetta Monti dall’articolo originale di Wandia Njoya pubblicato su Pambazuka]

Manifesti elettorali di Uhuru Kenyatta a Nairobi. Foto dell’utente Flickr Heinrich-Böll-Stiftung. Licenza CC.

Nella mia vita non avrei mai immaginato che si potessero commettere brogli elettorali in nome della democrazia, ai danni della popolazione kenyota e con la partecipazione della comunità internazionale. L’oligarchia di Kenyatta, con la complicità degli attori internazionali coinvolti nella privatizzazione delle nostre scuole e dei nostri ospedali, si è rivolta contro la popolazione e ha fatto sì che anche soggetti come l’UNDP (Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite), John Kerry o il Carter Center la applaudissero. Mai il razzismo ha ottenuto una vittoria così schiacciante in Kenya. Sono riusciti a convincere il mondo ad aspettarsi così poco dagli africani che non è più importante se la nostra libertà sia autentica o se le elezioni si svolgano in maniera corretta.

Secondo la mia opinione, già nel 2015 sono apparse le prime tracce della complicità internazionale in questo inganno, quando i Governi francese, olandese e norvegese, insieme alla Gates Foundation, hanno complottato con il Governo kenyota per far crollare la sanità pubblica negando il personale agli ospedali e rendendo le loro condizioni di lavoro così insostenibili che le cliniche private hanno potuto assumere personale medico formato grazie ai soldi dei contribuenti. Le cliniche private, a loro volta, hanno ricevuto enormi investimenti dalle nazioni europee, dove sicuramente i cittadini non avrebbero mai accettato di essere defraudati in questo modo. Da allora, per la comunità internazionale è diventato impossibile rivolgere serie critiche all’oligarchia di Kenyatta per quello che stava facendo alla nazione.

Il collasso della sanità pubblica ha rappresentato una benedizione per le assicurazioni private. Bliss Pharmaceuticals, attraverso la compagnia assicurativa AON Kenya che si ritiene abbia politici di primo piano tra i suoi azionisti, ha ottenuto un contratto da 11 miliardi di scellini kenyoti per la fornitura dell’assistenza medica ad insegnanti e ufficiali di polizia stipendiati dallo Stato. Nel frattempo, il NHIF – il Fondo sanitario obbligatorio per i dipendenti kenyoti – ha versato enormi cifre di denaro alle cliniche private. Insieme ai manifesti per le campagne politiche, a Nairobi sono stati appesi anche quelli delle compagnie assicurative. E per aggiungere il danno alla beffa, il miliardario in rapida ascesa Peter Nduati ha girato il coltello nella piaga compiacendosi che Raila Odinga [avversario di Kenyatta, NdR] non avrebbe potuto diventare presidente perché non poteva amministrare un Governo con una maggioranza del partito Jubilee. Secondo Nduati il Kenya deve guardare avanti.
La cosiddetta vittoria del partito Jubilee è una vittoria delle imprese private, e nei prossimi anni i kenyoti devono aspettarsi anche il crollo delle istituzioni pubbliche e un aumento della militarizzazione, perché così è possibile continuare a farli vivere costantemente nella paura.

Il pacifismo irrazionale e la violenza sui media nazionali e internazionali

La messa in scena per l’usurpazione di Kenyatta era già stata allestita, con blitz di articoli locali e di media internazionali che hanno preparato il Paese a una vittoria inevitabile di Uhuru in base alle cifre basate sulle ripartizioni etniche. I media locali e internazionali hanno pubblicato dati secondo cui i kenyoti non hanno mai scelto un candidato alle elezioni per un motivo diverso dalla tribù di appartenenza, affermando sostanzialmente che tutti i Kikuyu avrebbero votato per Uhuru, il quale avrebbe vinto perché i Kikuyu sono il maggiore gruppo etnico in Kenya. Per rendere tutto questo accettabile, le aziende locali e le Nazioni Unite, attraverso la voce di personalità mediatiche prominenti, hanno lanciato messaggi paralleli secondo cui i kenyoti dovevano mantenere la pace.

Ma come tutti sappiamo, i numeri mentono. Come Cathy O’Neil ci ricorda nel suo “Weapons of Math Destruction”, i numeri rispecchiano i pregiudizi sociali di coloro che li generano. Nel caso del Kenya, dovrebbe essere ormai abbastanza ovvio che i kenyoti che vivono nelle aree metropolitane, i quali hanno famiglie intra-etniche e sono in possesso di un certo livello di educazione, possono scegliere candidati presidenziali anche per motivi diversi da quelli di appartenenza a un’etnia. Tuttavia tali fattori non sono mai presi in considerazione negli studi. Anche a livello locale, i sondaggi avrebbero continuato a volerci convincere dell’inevitabilità della vittoria di Uhuru, fino a che la coalizione NASA (National Super Alliance) ha scelto di eseguire propri sondaggi. Solamente allora i media locali hanno ammesso che i sondaggi non rappresentano la sacrosanta verità.

L’altro motore locale dell’inevitabile vittoria di Uhuru secondo le previsioni sono state le ideologie della tirannia dei numeri e dell’”Uthamaki”. Come spiega Muterni wa Kiama, queste ideologie derivano da uno sforzo coordinato mirato a sfruttare il Kenya senza la possibilità di una rivolta, dato che per i kenyoti Uhuru avrebbe vinto sulla base della forza numerica dei gruppi etnici a suo sostegno.

Va anche aggiunto che i media locali non hanno investito molto tempo nell’analisi delle questioni su cui la popolazione avrebbe dovuto votare. Il dibattito presidenziale, parecchio sbandierato, ha finito per rappresentare slogan in serie da parte dei candidati meno conosciuti, e un’intervista con Raila Odinga, in seguito al rifiuto di partecipare ai dibattiti da parte di Kenyatta. Prima di allora, i media hanno discusso a malapena i programmi politici del partito e i tentativi, falliti, di Anne Kiguta e Yvonne Okawara di intervistare David Ndii sul programma dell’alleanza NASA. Era chiaro che Anne Kiguta non aveva letto il programma politico e non è servito che Ndii le abbia chiesto se almeno avesse letto la Costituzione.

Fino a che non forniamo ai kenyoti l’opportunità di discutere la politica su una base diversa dal tribalismo che influenzerebbe le elezioni, la situazione è una profezia che si realizza. Ho fatto del mio meglio per fornire una versione alternativa facendo un’analisi dei programmi politici con l’hashtag #ManifestosKE su Facebook, ma non è stato abbastanza, e probabilmente ormai era troppo tardi. Ma oltre a questo, la scoperta interessante è stata che in realtà i programmi politici non approfondiscono le questioni sociali al di là del lavoro e della sanità, e in quest’ultimo caso ciò è stato probabilmente un effetto dello sciopero dei medici che ha suscitato l’attenzione dell’opinione pubblica. In conclusione, secondo me, i kenyoti continuano a definire la politica esclusivamente come una questione di affari.

In sostanza, voglio dire che se tutti i kenyoti avessero votato solamente in base all’etnia, e faccio fatica a credere che ciò sia universalmente applicabile, è perché non siamo disposti a votare in base a nient’altro. E questo paradigma rappresenta un vantaggio politico per il partito Jubilee o per qualsiasi altro partito incentrato sui Kikuyu: i kenyoti sono disposti a credere che la presidenza di un Kikuyu sia inevitabile. E anche democratica.

È qui che il messaggio di pace diventa necessario. Quando i numeri non funzionano, la popolazione kenyota viene alimentata con un’ideologia che identifica la pace con l’accettazione della presidenza di Uhuru, ed equipara mettere in questione il regime di Uhuru con la violenza. Scatenata dall’affascinante anchor woman Julie Gichuru, con le sue parole espresse a Davos sulla moderazione, la retorica sulla pace ha emozionato la popolazione kenyota e distratto gli intellettuali dalla necessaria critica a tale retorica rispetto ai problemi da affrontare. Alcuni giorni prima che Julie Gichuru pubblicasse il controverso video, facevo parte di un gruppo di blogger che erano stati chiamati dall’Ambasciata americana per discutere su come promuovere il discorso pubblico sulla pace, e per lo stesso fine sono stati organizzati altri forum dalle ambasciate straniere e dalle ONG.

La retorica sulla pace ha ricevuto un altro grosso impulso dalla Kenya Private Sector Alliance, che ha sponsorizzato un video in cui le vittime della violenza scoppiata dopo le elezioni uscivano dalle bare come zombie e, ironicamente, esortavano le persone a evitare gli istigatori e a scegliere la pace. Sostanzialmente, secondo il video le persone da incolpare per le violenze del 2007-2008 non erano quelle che l’avevano organizzata, ma i kenyoti comuni che hanno accettato di commetterla. La logica perversa di questo video ha fatto sì che alcuni di noi abbiano chiesto alla KESPA di ritirarlo perché rappresentava una forma di violenza psicologica, ma i nostri appelli sono rimasti inascoltati.

Nel frattempo, la Safaricom – la maggiore azienda di comunicazione del Paese – ha continuato a ignorare la parola “pace” ma ci ha intontito con video di diverse celebrità kenyote che esaltavano le grandi virtù della nostra nazione. Un altro messaggio di pace in cui ci è stato detto che “la legge lavora per noi”, e che i tribunali erano l’unica opzione per trattare le dispute elettorali, è stato promosso dall’iniziativa Uwiano, che ha messo insieme l’UNDP e vari organi del Governo.

In sostanza i kenyoti sono stati costretti ad accettare la dicotomia tra pace e giustizia, e la marchiatura di coloro che sollevano questioni come sostenitori della violenza. È semplicemente stupido per la comunità internazionale pensare che un’elezione che si svolge attraverso una popolazione martellata con la manipolazione psicologica possa essere ritenuta un’elezione davvero credibile. L’unico motivo per cui tale situazione diventa accettabile è perché si è radicata la convinzione razzista che gli africani non riescono a pensare, e agiscono solamente in base all’istinto.

Le lodi tessute dagli osservatori internazionali

Osservare i gruppi di osservatori internazionali che tessevano lodi sul processo elettorale è stata un’esperienza incredibile. Parlando al Radisson Blu, uno degli alberghi esclusivi di Nairobi, gli osservatori internazionali, che comprendevano l’Unione Europea e il Carter Center, hanno limitato i propri discorsi alle lunghe file e allo spoglio dei voti, quando in realtà i brogli sono stati realizzati prima e dopo l’effettivo scrutinio dei voti. E presumibilmente per catturare il pittoresco tocco kenyota del procedimento, tutti hanno scherzato sull’inchiostro per votare che era stato messo sui bambini per impedire a donne diverse di utilizzare lo stesso bambino per saltare la fila e votare.

Le posizioni più esplicite erano inerenti alle banalità riguardo al Kenya, al suo essere più delle elezioni e riguardo all’accettazione dei risultati. Ma come ha inavvertitamente rivelato l’ex segretario di Stato degli Stati Uniti John Kerry, si trattava di un messaggio che hanno dato a Raila Odinga ma non a Uhuru Kenyatta. Le conferenze stampa hanno preferito evitare domande pertinenti riguardo alla credibilità dei conteggi e alle loro pubblicazioni sul portale dell’IEBC [Commissione Elettorale indipendente, NdR], mantenendosi su un clima tranquillo ed educato, ma quando l’alleanza NASA ha rilasciato la propria conferenza stampa, la stampa ha letteralmente “urlato” contro Musalia Mudavadi. Questo contrasto tra le conferenze stampa è una lezione riguardo ai pregiudizi anti africani dei media.

È stato divertente anche ascoltare gli osservatori della UE e del Carter Center affermare che l’indipendenza del sistema giudiziario è stata una preoccupazione di “entrambi” i principali partiti politici. Sono caduti nella trappola del partito Jubilee, che ho segnalato settimane fa quando ho sostenuto che la critica al sistema giudiziario di questo partito era semplicemente intesa al fine di prendersi gioco della comunità internazionale e dimostrare che il partito non avrebbe avuto alcun vantaggio in queste elezioni. Chiunque abbia un po’ di conoscenza storica può rendersene conto, tranne per il fatto che la famiglia Kenyatta ha eliminato la Storia dai curriculum scolastici e, con l’orrore di un nuovo sistema educativo che vuole imporre al Kenya, la nostra ignoranza collettiva può solo peggiorare.

Perché gli africani devono preoccuparsi

In sostanza, quella che adesso viene elogiata come un’elezione “pacifica” è stata in realtà una connivenza con il capitale globale a discapito della popolazione. Le lodi sul Kenya quale icona del continente africano sono tutte bugie per far accettare la dominazione europea come modello di pace. Ma ancora peggio, la retorica riguardo a questo “mostro” democratico kenyota è basata su un’ideologia eurocentrica e razzista che non ritiene gli africani capaci o degni di una nazione autentica che non emargina la maggioranza per favorire gli interessi di una minoranza potente. La comunità internazionale non aveva tempo da perdere per comprendere la complessità della vita e del modo di pensare africano e di come interagiamo con le istituzioni. Aveva di meglio da fare, come partecipare agli eventi farneticando su Donald Trump.

Nel frattempo, la comunità internazionale ha lasciato il Kenya con una ferita aperta, una popolazione che si lamenta sotto il giogo dell’umiliazione e del madharau [ridicolo] e con poche prospettive di una riconciliazione nazionale, fattori che giustificano le ingiustizie del passato e del presente. E se, Dio non voglia, il contesto dovesse peggiorare, la comunità internazionale ci fornirà le stesse banalità riguardo alla pace in una situazione il cui deterioramento è stato sia sostenuto che celebrato.

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