[Seconda parte di un lavoro a cura di Angela Caporale sul tema della rappresentazione del fenomeno migratorio. Il primo articolo, pubblicato il 3 aprile scorso, era focalizzato sui temi del viaggio e della prima accoglienza, in questo pezzo si affrontano altri pregiudizi e stereotipi sui migranti.]
Solo nel 23% delle notizie date dai giornali italiani riguardo all’immigrazione si fa menzione dei Paesi d’origine dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Così rileva l’Osservatorio di Pavia che ha svolto una ricerca proprio sul rapporto tra media e migrazioni, presentata giovedì 6 aprile al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia. Come ha spiegato la ricercatrice senior Paola Barretta: “Si racconta il fenomeno dell’immigrazione rispetto all’impatto che ha in Italia, mentre si lascia sullo sfondo il racconto del contesto di provenienza o di transito, molto più presente negli altri telegiornali europei”. Nessuna sorpresa anche riguardo a quali sono i Paesi più raccontati: in cima a quanto rilevato dall’Osservatorio si posiziona la Siria, seguita dal Medio Oriente in generale e dalla Turchia. Che spazio resta, allora, ai Paesi da cui proviene la maggior parte delle persone che sbarcano in Italia (Nigeria, Eritrea, Guinea) oppure alla narrazione di alcune caratteristiche che ci permetterebbero di descrivere il fenomeno senza cadere in trappole come l’associazione tra migrazione, Islam e terrorismo?
In un contesto mediatico che dunque non va a indagare a fondo quali sono le ragioni che stimolano la migrazione, trovano invece ampio spazio e risalto notizie false e imprecise che vanno, di fatto, a rinforzare pregiudizi e a erigere barriere. Se, da un lato, ci sforziamo di dissipare la confusione quando si parla di accoglienza, è altrettanto fondamentale indagare i push and pull factors della migrazione, quegli elementi che ci permettono di comprendere perché, solo nel mese di aprile, 282 persone si sono spinte ad attraversare il Mediterraneo affidandosi a scafisti senza scrupoli e mettendo a rischio la loro stessa vita. Sono additati, con fare dispregiativo, come estremisti, terroristi, untori, ma cosa sappiamo veramente di queste persone?
Partiamo dai pregiudizi, dal sentito dire e dagli stereotipi per avvicinarci alla questione e provare a comprenderla, prima che qualche idea non fondata si trasformi, ancora una volta, in una politica fallimentare e cieca rispetto alle condizioni reali come, per fare un solo esempio, gli accordi di rimpatrio con Paesi non sicuri, finalizzati ad esternalizzare le frontiere dell’Europa, ma che calpestano i diritti umani.
“Le missioni di Search and Rescue incoraggiano le partenze”
Quando si parla di migrazioni, il passo dal luogo comune all’accusa istituzionale a volte è breve. Questo è quanto successo quando Frontex, l’agenzia europea per le frontiere esterne, ha accusato le organizzazioni umanitarie che monitorano la rotta del Mediterraneo centrale di incoraggiare le partenze dalla Libia. Il rapporto Risk Analysis 2017, infatti, ipotizza che la presenza di navi come la Topaz Responder funzioni come un fattore che incentiva le partenze. Una tesi che ha avuto grande risonanza mediatica anche grazie alla diffusione virale del video “La verità sui MIGRANTI” di Luca Donadel.
Le Ong hanno prontamente risposto alle critiche sostenendo che, secondo i dati resi pubblici dalla Guardia Costiera, principale titolare delle operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, Sos Mediterranée, Proactiva Open Arms, Medici Senza Frontiere, MOAS, Sea Watch e altre hanno salvato più di 46mila migranti. Di fatto, queste ONG insieme alla Guardia Costiera e alla Marina italiana hanno colmato un vuoto in cui decine di migliaia di persone rischiano la vita. Chi sostiene, per dirla come Striscia la Notizia, che sia stato costruito un servizio di “profughi take away” sembra ignorare le condizioni in cui migranti e rifugiati vengono trattenuti in Libia, i rischi che corrono nei loro Paesi d’origine e il fatto che i flussi non sembrano risentire dei cambiamenti delle politiche europee che hanno trasformato l’operazione Mare Nostrum in Triton, prima, e in Operazione Sophia, poi. Si ignora, ancora una volta, il perché migliaia di persone scappano e il fatto che l’uomo è, per natura, un essere migrante.
“I migranti portano le malattie”
Anche gli allarmi sanitari ingiustificati sono all’ordine del giorno. Di volta in volta sui giornali o su Internet hanno trovato spazio pseudo-notizie per cui l’aumento di casi di una determinata patologia era direttamente connesso con il flusso migratorio e l’arrivo di persone da altri Paesi. Dal 2014 ad oggi, i migranti sono stati accusati di aver portato in Italia l’ebola, nonostante il rischio per i Paesi di maggior emigrazione fosse praticamente nullo; la tubercolosi, a fronte di pochi casi di positività cutanea alla tubercolina tra le forze di polizia addette all’accoglienza; e la scabbia, infezione cutanea diffusa in maniera trasversale tra chi vive in condizioni igieniche precarie.
Medici Senza Frontiere, in prima linea nella battaglia per una corretta informazione sanitaria, sottolinea che “è corretto affermare che la popolazione immigrata presenta peculiari fattori di rischio per alcune patologie infettive“, ovvero Hiv e tubercolosi, se provengono da Paesi dove sono molto diffuse. Tuttavia questi fattori di rischio non rappresentano un’emergenza sanitaria per chi vive nei Paesi e nelle città dell’accoglienza, al contrario, continuano da MSF, “l’unico risultato (del costante focalizzarsi dell’attenzione pubblica sugli allarmi di salute) è di creare un clima di razzismo e discriminazione che distoglie l’attenzione da quella che è la vera emergenza, ossia la corretta gestione dell’accoglienza“.
“Sono tutti musulmani, sono tutti terroristi”
In questi “tempi interessanti”, come direbbe il filosofo sloveno Slavoj Žižek, il terrore di matrice islamista si è insinuato nella società europea. Dall’attacco alla redazione del magazine satirico Charlie Hebdo fino ai recenti attentati a Berlino, Nizza, Stoccolma, Londra, è esponenzialmente cresciuta la paura tra gli europei. Contemporaneamente, l’aumento del flusso migratorio ha fatto sì che trovasse terreno fertile per attecchire la convinzione che non vi fosse alcuna differenza tra un musulmano e un terrorista. In alcun casi, ci si è spinti a dire che un musulmano non condanna con abbastanza veemenza gli attentati oppure, come a Londra, che reagisce con troppa indifferenza. La paura, quindi, si è estesa includendo anche, in maniera molto approssimativa, anche tutti i migranti, indipendentemente da status giuridico, provenienza e credo: basta che sembrino musulmani.
Da un lato, si è diffuso il timore che ci siano troppi musulmani in Europa e che la religione sia una barriera culturale invalicabile, dall’altro ha preso piede l’idea che tra i richiedenti asilo di religione islamica si nascondano efferati terroristi. In primo luogo, però, bisogna considerare che in Italia non c’è alcuna “invasione” islamica: analizzando la fede degli stranieri in Italia dal 1993 al 2014 emerge che la percentuale di musulmani è rimasta fissa al 32%. Nello stesso lasso di tempo, la popolazione straniera in Italia è aumentata, passando dall’1,7% del totale all’8,2%: quindi, in termini assoluti, anche i musulmani sono aumentati, ma in maniera proporzionale rispetto alla crescita generale della popolazione migrante.
L’associazione tra migrazione e terrorismo è ancor più fantasiosa perché non tiene in considerazione un primo, fondamentale, fattore che stimola le migrazioni: il terrorismo stesso. Secondo quanto riportato da Amnesty International, infatti, moltissime delle persone arrivate in Italia fuggono da miseria, guerre, conflitti, persecuzioni e violenze da parte di gruppi terroristici. In Nigeria, per esempio, Boko Haram continua a commettere delitti e crimini di guerra, saccheggiando intere aree del Paese da cui, chi può, scappa. Il medesimo discorso vale per le aree della Siria controllate dallo Stato Islamico, oppure per la Somalia.
Infine, la maggior parte dei terroristi che hanno agito in Europa sono stati definiti come “lupi solitari“, soggetti spesso appartenenti alle seconde o anche terze generazioni, quindi nati e cresciuti in Francia, Gran Bretagna, Belgio, Germania. Cittadini europei, sulla carta, marginalizzati nella realtà, soggetti che si sono radicalizzati nel tempo, spesso stimolati dalla propaganda jihadista online. Nulla che ci autorizzi a fare l’equazione per cui i migranti sono tutti musulmani e tutti terroristi. Al contrario, sono elementi che stimolano una riflessione sui fallimenti dell’integrazione.
“Fanno aumentare la criminalità”
Il rapporto tra migrazione e criminalità è oggi, da alcuni anni, di indagini e ricerche scientifiche a livello internazionale che mirano a stabilire quale sia il rapporto tra i due fattori. Di nuovo, assistiamo spesso a breaking news per cui la persona della tal nazionalità viene additata di un crimine, ma, come sottolinea Carta di Roma, leggeremmo la stessa frase se si trattasse di un italiano?
Infatti, i report sull’argomento sottolineano come, su giornali e telegiornali, ancora si tenda a dare risalto alla nazionalità di chi ha compiuto un atto solo se questa non è italiana né europea. Il risultato è la diffusione della percezione che gli stranieri compiano più crimini degli italiani, tuttavia si tratta di un’idea smentita dai fatti: solo un detenuto su tre, il 33,5%, è extracomunitario, una percentuale in leggera crescita rispetto al 2015. Come suggerisce Patrizio Gonnella su OpenMigration: “Non è facile capire a cosa è attribuibile la crescita della popolazione detenuta straniera, posto che non ci sono state modifiche normative né sono mutati i tassi di criminalità autoctona o forestiera nel territorio italiano. Sicuramente un peso è dato dal clima generale di diffidenza, anche istituzionale, nei confronti degli stranieri che si riflette nell’azione di polizia e nelle procedure di fermo e arresto.”
Alcuni episodi come, per esempio, la maggior frequenza con cui viene richiesto il titolo di viaggio su treni e autobus a passeggeri apparentemente stranieri, lascia intendere che una pratica simile al racial profiling venga impiegata, almeno in parte, anche dalle autorità italiane: a quel punto è semplice comprendere come ad un maggior controllo di una frazione della popolazione corrisponda una maggiore efficacia dei controlli stessi che intercettano, quindi, ogni azione criminale, anche piccola compiuta dal gruppo monitorato. Efficacia difficile e dispendiosa da ottenere per una popolazione di 60 milioni di abitanti, per esempio.
Ciò che i dati, da soli, non raccontano è il contesto sociale in cui questa percentuale della popolazione straniera in Italia vive. Infatti, come sottolinea il rapporto Detenuti Stranieri in Italia redatto dall’Associazione Antigone, “una lettura sommaria di questi dati è però fuorviante, dato che non tiene conto di una serie di varianti fondamentali quali i percorsi individuali e collettivi, l‟inclusione sociale e lavorativa, la presenza di donne e di bambini, ecc..”. Inoltre, per un cittadino italiano è più semplice accedere ad una tutela legale qualificata e questo è un ulteriore fattore che spiega arresti, condanne e detenzioni degli stranieri.
La questione, quindi, per cui gli immigrati aumenterebbero il tasso di criminalità si può definire parzialmente falsa sulla base dei dati forniti dal Ministero dell’Interno e degli elementi utili per loro lettura. Tuttavia, uno studio del professor Paolo Pinotti dell’Università Bocconi si spinge anche oltre. L’equipe di ricerca, infatti, ha dimostrato che il riconoscimento del permesso di soggiorno ai migranti può dimezzare il loro tasso di criminalità, grazie al crollo di reati economici compiuti nel mercato del lavoro nero. Insomma, la strada per aumentare il grado di sicurezza in Italia è segnata.
“Aiutiamoli a casa loro”
Concludiamo il nostro percorso tra i luoghi comuni e i pregiudizi più diffusi riguardo ai migranti approdando a quello che è stato a lungo uno slogan di chi si oppone all’accoglienza. Cosa significa, in pratica, “aiutiamoli a casa loro”, ma soprattutto è possibile? Infatti, ciascun paese da cui parte un flusso migratorio richiederebbe una trattazione a sé stante, perché la fattibilità di un intervento di cooperazione allo sviluppo va valutata sulla base delle condizioni on the ground.
L’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo è attiva in 20 Paesi tra i quali l’Afghanistan, il Libano, il Niger, il Sud Sudan, tuttavia per far sì che un aiuto umanitario si trasformi in un concreto fattore deterrente per la migrazione, esso deve essere orientato allo sviluppo concreto dei territori d’azione. Questo non sempre è possibile: ci sono conflitti particolarmente violenti e situazioni di criticità endemiche, inoltre il cambiamento climatico impatta, già oggi, in maniera violenta su alcune zone dell’Africa Sub-sahariana innescando una migrazione che si configura solo in parte come una scelta perché, in alcuni casi, è l’unica chance di sopravvivenza.
“Aiutiamoli a casa loro”, poi, comporterebbe una netta inversione di tendenza delle politiche europee che, come sottolinea Medici Senza Frontiere, sono concentrate sulla deterrenza, sull’esternalizzazione dei controlli di frontiera e sul rafforzamento degli accordi di respingimento verso i paesi d’origine o di transito. Nulla che sembri andare nella direzione di una stabilizzazione di lungo periodo dei problemi dei paesi coinvolti. Per gli stessi populisti che fanno dell'”aiutiamoli a casa loro” una bandiera, è più importante bloccare dei flussi nell’immediato che investire affinché domani ci sia meno bisogno di migrare.
Rendere l’Europa un luogo inospitale non influenzerà la scelta di chi migra che, invece, è spinto primariamente dalle discriminazioni subite o dalla mancanza di sicurezza, come osservato da una ricerca di OpenMigration, frutto di un migliaio di interviste rivolte a migranti ospiti in Italia nella primavera 2016. Rendere l’Europa un luogo inospitale rischia solo di acutizzare quei fenomeni di sfruttamento, esclusione sociale, ghettizzazione dello straniero che potrebbero mettere a repentaglio la pace sociale. E la colpa non sarà del migrante, ma di chi ha creduto alle falsità dei populisti sulla migrazione e non ha saputo dire “benvenuto”.