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Migranti climatici, urge una protezione giuridica internazionale

[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Atle Solberg pubblicato su openDemocracy

I danni provocati dallo tsunami abbattutosi in Indonesia lo scorso 26 dicembre 2004. Rignam Wangkhang. Foto ripresa da Flickr. (CC BY 2.0)

Atle Solberg opera presso la Platform on Disaster Displacement [Piattaforma per le migrazioni dovute ai disastri ambientali, NdT]. L’obiettivo di quest’organismo è quello di monitorare il lavoro intrapreso dalla collegata Nansen Initiative, e di attuarne le raccomandazioni raccolte nell’Agenda di Protezione – uno strumento utile a prevenire e predisporsi meglio a migrazioni forzate o a eventuali necessità di trovare rifugio, all’interno del proprio Paese o oltre i confini.

Cameron Thibos (openDemocracy): Che cosa si intende per migrazione forzata dovuta al cambiamento climatico e ai disastri ambientali? E in che modo questi individui si distinguono dalle altre tipologie di migranti forzati? 

Atle: Nell’ambito dei negoziati sui cambiamenti climatici si sono descritti tre tipi di mobilità umana che possono essere causati o collegati al cambiamento climatico. Il primo è la migrazione, che è per lo più volontaria. Ma ci sono altri esempi di spostamento che sono per lo più forzati. E infine ci sono i trasferimenti pianificati.

Questo è un modo di vedere la questione. Altrimenti, possiamo parlare di migrazione dovuta ai disastri ambientali per riferirci a quelle persone che sono costrette a fuggire in seguito ai disastri causati dalle calamità naturali: quest’ultime possono essere uragani o tempeste tropicali, ma anche la lenta insorgenza di eventi come l’innalzamento del livello del mare o la desertificazione. In ogni caso, quando ci riferiamo alle catastrofi, intendiamo solo quelle legate a calamità geofisiche, metrologiche o meteorologiche e non quelle che avvengono per opera dell’uomo, o dei conflitti.

Cameron: In che modo la necessità di protezione differisce tra chi è costretto a lasciare la propria terra in seguito a disastri naturali o al cambiamento climatico rispetto agli altri tipi di migranti forzati – come ad esempio i rifugiati di guerra? 

Atle: In generale, chiunque sia costretto a lasciare il proprio Paese dovrebbe avere di norma accesso agli strumenti specifici e immediati di protezione legati al proprio spostamento. In generale questi sono gli stessi, e in tal senso non vi è alcuna differenza tra le due categorie. Inoltre, le persone costrette a lasciare la propria patria verranno molto spesso separate dalla famiglia, e potrebbero aver perso la propria casa o gli effetti personali. Potrebbero essere anche individui feriti che hanno bisogno di cure mediche.

Nei trasferimenti forzati esistono alcune categorie di persone che sono più vulnerabili di altre, come le donne e i bambini, ma anche coloro che non sarebbero in grado di tornare alla propria terra perché l’abitazione è stata distrutta o risulterebbe troppo pericoloso farlo. Dunque non è detto che gli strumenti di protezione siano molto diversi. Potrebbero anzi essere molto simili, indipendentemente dal fatto che si sia costretti a migrare a causa di qualche scontro armato collegato a conflitti, o in seguito a un terremoto o ancora per evitare un pericolo.

La vera differenza risiede nel fatto che, per chi è stato costretto a migrare oltre i confini internazionali in seguito a una catastrofe o al cambiamento climatico, esistono davvero poche politiche e quadri normativi che regolano il modo in cui tali soggetti dovrebbero essere trattati. A tal proposito la questione dell’accettazione dei migranti può essere un buon esempio. Gli Stati dispongono infatti di davvero poche norme o obbligazioni che regolamentano l’accoglienza di queste persone, anche nel caso in cui potessero aver bisogno di protezione e assistenza o, semplicemente, di andare in un altro Paese.

Cameron: A differenza di altri motivi per cui le persone migrano, siamo già perfettamente consapevoli del cambiamento climatico in atto e riusciamo a percepire bene quali possano essere le sue possibili implicazioni. Pertanto, siamo in grado di attivarci al fine di affrontare questo problema? E come possiamo superare questi eventi, in modo tale che le organizzazioni umanitarie non debbano sempre accorrere in aiuto dopo l’accaduto? 

La domanda necessita di una risposta esaustiva. Dobbiamo essere più preparati al fine di ridurre il rischio che, come sappiamo, aumenterà. In effetti sappiamo anche che il rischio di migrazione collegato ai disastri ambientali è raddoppiato negli ultimi 20-30 anni. E questo non è avvenuto necessariamente per il fatto che il clima è diventato più violento o più dannoso. Ciò è anche il prodotto di alcune decisioni prese dall’uomo che hanno messo a rischio di migrazione un maggior numero di persone.

Due di queste decisioni riguardano gli insediamenti urbani nelle aree a rischio disastro, e le città densamente popolate prive di appropriate norme edilizie. Il degrado ambientale sta minacciando anche le risorse per il sostentamento. Al fine di essere pronti ad affrontare le conseguenze nefaste del cambiamento climatico, dobbiamo pertanto incrementare il passo dei nostri sforzi per cercare di ridurre i rischi, compreso quello di migrazione.

Dobbiamo anche accrescere i nostri sforzi in chiave di adattamento. Gli effetti negativi del cambiamento climatico sono infatti già evidenti. È una realtà che possiamo già osservare nelle zone costiere, e nei piccoli Stati insulari in via di sviluppo. Loro – e noi – abbiamo bisogno di accrescere la nostra capacità di adattamento a queste conseguenze negative.

Infine, se gli sforzi volti a ridurre i rischi, adattarsi al cambiamento climatico e costruire migliori insediamenti umani – continuando a percorrere, in sostanza, il sentiero di uno sviluppo migliore – dico, se tutto ciò viene meno, più persone saranno costrette probabilmente a lasciare la propria patria. Perciò dobbiamo sviluppare i nostri strumenti politici in modo da poter affrontare meglio il problema di coloro che sono costretti a migrare sia all’interno dei loro Paesi sia oltre i confini.

Cameron: Spesso si presume che queste persone, costrette a fuggire dalla loro terra, finiscano per tornare da dove sono venuti. Tuttavia, di fronte a eventi come la desertificazione o l’innalzamento del livello del mare, si può parlare di un’ipotetica eterna migrazione lontana dalle zone abitabili. Pertanto, dobbiamo anche guardare le cose da una prospettiva completamente diversa nel momento in cui elaboriamo queste nuove politiche? 

Atle: Questa è un’ottima osservazione. Recentemente abbiamo partecipato a un Consiglio direttivo dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, e il presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo ha detto senza mezzi termini. Ha affermato che ‘se la vostra terra sta diventando un deserto, dovete spostarvi. Se il tradizionale riso del delta si trova a un metro sotto il livello del mare, dovete spostarvi‘.

Alcuni individui saranno costretti a spostarsi e purtroppo, così, questa migrazione sarà destinata a essere eterna. Ciò implica che sarà necessario trovare una soluzione definitiva, all’interno del proprio Paese, o in casi estremi al di fuori di esso. Questo fatto tocca a sua volta alcune questioni importanti e complesse al tempo stesso, quali la sovranità, la cittadinanza, i diritti culturali e l’accesso ad altri Paesi. Inoltre, come ho già detto, c’è ben poco nel diritto internazionale che imponga agli Stati l’obbligo di accettare un cittadino proveniente da un altro Paese nel proprio territorio.

Cameron: Possiamo citare esempi di Paesi che oggi agiscono d’iniziativa perché sono particolarmente a rischio?

Atle: Credo che ogni Paese consapevole di essere vulnerabile alle catastrofi o agli effetti negativi del cambiamento climatico si stia preparando e stia facendo del proprio meglio per adattarsi e ridurre eventuali rischi. Ce sono in particolare alcuni davvero ben preparati ad affrontare e cercare di ridurre i rischi anche dei più violenti uragani. In pratica, molti Paesi stanno sviluppando la loro capacità di adattamento.

Nel 2015, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato il Quadro di Sendai per la riduzione del rischio di catastrofi 2015-2030. Si tratta di un accordo quindicennale, volontario e non vincolante che riconosce allo Stato il ruolo principale nella riduzione del rischio di disastri ambientali e che mira sostanzialmente a ridurre il rischio di catastrofi e le morti ad esso legate ecc. Diversi Stati si sono dunque impegnati al fine di sviluppare resilienza e riuscire così a ridurre i diversi rischi. Abbiamo visto che alcuni Paesi si stanno preparando ad affrontare quello che avverrà.

Alcuni stanno anche anticipando la possibilità che parte della propria popolazione possa vedersi costretta a migrare. Per questo motivo, stanno collaborando e si stanno interrogando su come poter preparare i cittadini a intraprendere nel modo migliore un eventuale trasferimento. Attraverso l’accrescimento graduale delle abilità, dell’istruzione e della preparazione, non stanno facendo altro che preparare i loro cittadini a essere più competitivi nel mercato del lavoro globale. E questo è un esempio davvero lungimirante da parte di alcune nazioni particolarmente vulnerabili alle conseguenze negative del cambiamento climatico.

Nell’ambito del lavoro che svolgiamo con la Piattaforma per le migrazioni dovute ai disastri ambientali, alcuni Stati si sono riuniti e hanno affermato la necessità di elaborare un migliore quadro politico per coloro che non sono protetti da normative vigenti come la Convenzione sui Rifugiati o gli Accordi Internazionali in materia di lavoratori migranti. In realtà, questo appello è volto principalmente al rafforzamento dell’uso delle attuali pratiche sulla riduzione dei rischi di catastrofi naturali e migrazione e su come accrescere la capacità di adattamento, ma anche all’ottenimento di una serie di opzioni politiche per far fronte ai movimenti transfrontalieri di persone.

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