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Migranti, quando il lavoro è la strada verso la normalità

René non riesce a stare con le mani in mano. Il suo sguardo corre veloce da una parte all’altra della stanza come se stesse cercando qualcosa di nuovo da fare o da scoprire. Ride e scherza un po’ su tutto, farsi intervistare lo rende nervoso. Del resto, ha 23 anni e a lungo ha fatto semplicemente il contadino nel suo Paese d’origine, il Mali. La miseria, alcuni lutti e altre difficoltà l’hanno spinto a scappare attraverso il deserto e la Libia per arrivare poi in Italia.

Racconta della sua vita con entusiasmo, le giornate sono piene tra gli allenamenti di boxe e il corso di italiano. Gli chiedo cosa gli piacerebbe fare, un domani. In quel momento si fa serio. “Ho fatto un tirocinio in un ristorante la scorsa estate. In qualche mese ho imparato a lavare i piatti, servire, cucinare. Vorrei tornare a lavorare lì, e mi preparo, sai? Quando sono libero studio i nomi delle verdure in italiano.”

Una richiedente asilo prende le ordinazioni durante uno stage formativo in ristorante. Fonte: whydev.org

Che sia lavorare nella ristorazione oppure fare uno stage in qualche industria, qualsiasi attività può rappresentare uno stimolo per i richiedenti asilo che approdano in Europa in cerca di un riconoscimento dei propri diritti e che, spesso, si trovano bloccati per settimane e mesi in strutture d’accoglienza da cui, in alcuni casi, non possono nemmeno uscire. Più di 1,2 milioni di persone hanno fatto domanda d’asilo in Europa nel 2016, di queste 121.200 richieste sono state presentate in Italia. Si tratta, secondo i dati Eurostat, del 10% del totale, in crescita del 46% rispetto all’anno precedente.

Dal momento in cui viene fatta la domanda d’asilo all’audizione nella Commissione territoriale di riferimento possono passare molti mesi. Un periodo in cui, dopo l’adrenalina del viaggio e l’incertezza sulle proprie sorti, i richiedenti asilo si trovano in una condizione di sicurezza, ma anche di stasi. Proprio in questa fase, tendono ad emergere le conseguenze di traumi e torture subite nei Paesi d’origine o durante il viaggio.

Secondo il report “Le dimensioni del disagio mentale nei richiedenti asilo e nei rifugiati” della Fondazione Cittalia, l’impatto con le strutture d’accoglienza evidenzia una maggiore incidenza di disturbi post traumatici da stress, disturbi d’ansia, reazioni depressive associate a frequenti idee suicide e disturbi somatoformi.Le vittime devono sentirsi accolte, accettate e comprese, libere di poter parlare dei sintomi e del malessere senza il rischio di interpretazioni o paragoni da parte dell’interlocutore. L’atmosfera di fiducia, l’empatia e l’affidabilità del terapeuta e dell’operatore favoriscono racconti più personali e mettono la vittima in condizione di elaborare il vissuto, integrarlo costruttivamente nella propria identità e di lottare per superare il danno.

Con questa finalità, la promozione di percorsi che prevedano l’accesso a lavori socialmente utili può trasformarsi in una concreta opportunità per superare e lenire il trauma. Un passo nella direzione di una ricostruzione della propria identità fortemente frammentata. Se pensa ai mesi passati in ristorante, René racconta che si sentiva concretamente utile e non un peso sulle spalle di un sistema solo in parte comprensibile. Lavorare può portare a vincere il senso di immobilismo connesso e intersecato con le concrete difficoltà che un richiedente asilo deve affrontare nell’attesa.

Un rifugiato siriano al lavoro in una delle sedi della Siemens, in Germania. Fonte: Middle East Monitor

Lavori socialmente utili, tirocini e stage, almeno nella forma in cui sono stati promossi da alcune associazioni e cooperative sul territorio, rappresentano anche una risorsa. La priorità è quella di avviare i richiedenti asilo ad una strada che possano, poi, percorrere autonomamente nella post-accoglienza. In alcuni casi, come in quello di René, è un’occasione per imparare un nuovo mestiere e instaurare relazioni, finalmente normali, esattamente come chiunque con il proprio collega o compagno di scrivania.

In altre occasioni, la partecipazione al progetto cambia completamente la vita di una persona: la vita di Daouda, per esempio, è stata rivoluzionata grazie ad Antonio Criscuolo, titolare del ristorante Dongiò, a Milano. Dopo avergli affidato la preparazione di pasta fresca, dei dolci e del pane, e aver riconosciuto le sue qualità, Criscuolo ha deciso di assumere regolarmente l’ivoriano neo diciottenne. La storia ha trovato ampio spazio sui media nazionali: da esempio virtuoso dovrebbe, però, trasformarsi in qualcosa di ordinario e diffuso.

Sulla scia di questa e molte altre esperienze positive, il ministro dell’Interno Minniti ha deciso di inserire nel nuovo Piano immigrazione l’obbligo per i richiedenti asilo di fare lavori socialmente utili, pena il mancato riconoscimento della protezione internazionale. Un provvedimento che, di per sé, ha ricevuto il plauso di organizzazioni come la Caritas italiana che, per voce di Oliviero Forti, referente per l’immigrazione, sottolinea “noi ci siamo sempre espressi favorevolmente rispetto alla possibilità di rendere attive delle persone che spesso – purtroppo visti i lunghi tempi delle procedure – sono invece in una situazione di inattività, che non fa certo bene a nessuno…“. La criticità, tuttavia, riguarda il passaggio dal volontariato puro di molti progetti di inclusioni già attivi al lavoro socialmente utile obbligatorio e non retribuito, qualcosa che potrebbe quasi evocare una forma di “sfruttamento di Stato” che ben poco ha a che vedere con i diritti e l’inclusione delle persone.

Ci vorrà ancora tempo per capire come il Piano del Governo diventerà operativo, è sempre il caso, però, di ribadire che il diritto d’asilo è individuale e spetta a ciascuno in quanto individuo. Da un punto di vista giuridico, non è completamente legittimo introdurre delle condizioni al riconoscimento della protezione internazionale come quella del lavoro. Al netto di questo punto fondamentale, il lavoro “socialmente utile” è tale anche da un’ulteriore dimensione. Se pensiamo al principio dell’accoglienza diffusa che regola l’intero sistema dello SPRAR, osserviamo che molti richiedenti asilo vengono accolti in Paesi e paesini dove lo “straniero”, prima delle recenti ondate migratorie, era percepito come qualcosa di lontano, addirittura mai visto.

In quest’ottica, lavorare fianco a fianco diventa una reale opportunità di abbattere alcune barriere fatte di pregiudizi, etichette e sentito dire. Nulla come la prossimità umana può stimolare l’integrazione, soprattutto in ambienti chiusi e strutturalmente poco propensi ai dialogo e all’apertura nei confronti del diverso.

Lungi dall’intravedere un piano politico di gestione dell’immigrazione che veramente renda onore ai diritti fondamentali a cui tutti, almeno in Europa, facciamo riferimento, l’introduzione a livello nazionale dell’opportunità di accedere a lavori socialmente utili si distanzia nettamente dalle politiche di altri Paesi dell’Unione Europea che non si limitano a chiudere un occhio sui diritti, ma stracciano ogni trattato. Pensiamo all’Ungheria di Orbàn, luogo inospitale a dir poco per i richiedenti asilo. Il Paese si è trasformato in una prigione per tutti coloro che stanno scappando da una situazione di difficoltà. Inaccettabile, questo il commento dell’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati.

Sebbene l’integrazione non sia ancora una priorità e l’accoglienza sia determinata ancora dall’emergenza e non da un piano di lungo periodo, in Italia c’è chi ha preso atto delle barriere e, ripartendo da uno dei principi fondanti della Costituzione, vede proprio nel lavoro una possibile chiave di volta. Magari le barriere non verranno abbattute, ma almeno ci sarà chi avrà imparato come costruire una scala per superarle.

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